
Pubblicato su DueA martedì 15 marzo 2011
Ma io non conto, eravamo tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava; la lotta dovevamo cominciarla quando ne uscimmo. Noi, dolce parola. Noi credevamo… (Anna Banti, Noi credevamo, Mondadori 1967) –Il link è alla scena finale di “Noi credevamo”, adattamento cinematografico del libro di Anna Banti per la regia di Mario Martone (2010).
Quello che poteva essere e non è Stato, per le colpe diffuse che ormai ci portiamo dietro da un secolo e mezzo.
Ho riportato la frase conclusiva del romanzo di Anna Banti, ripresa per intero dal film apocrifo Noi credevamo di Mario Martone, che se ne è discostato tantissimo, ma che ha mantenuto intatta la forza dirompente del discorso conclusivo.
Ho scelto proprio quel libro perché, come scrisse Enzo Siciliano su “L’Espresso” del 23 aprile ’67, qui si legge con sanguigna tensione un “Risorgimento raccontato con rabbia”.
E la rabbia, l’inquietudine, l’incertezza sembrano essere state le tremende compagne di viaggio di un percorso unitario sbagliato. Perché lontano dal popolo, che pure con tattiche differenti, come rimugina il protagonista del libro Domenico, avrebbero potuto essere al seguito della causa, quella giusta, quella garibaldina e repubblicana.
E invece fu guerra civile, la più odiosa possibile, che arrivò a far dire a Garibaldi di voler maledire il suo sbarco, perché fu sinonimo di carneficina, trasformò il re borbone Franceschiello in un martire e Murat nell’ultimo eroe romantico di cappa e spada.
E poi i briganti: un capomafia in carcere dice a Domenico che i garibaldini avrebbero dovuto affidarsi alla loro rispettabilità per coinvolgere la gente del Sud. Parole verissime, ma pericolose altrettanto.
In tutto questo spariglia e vince il bottino l’invasore VIttorio Emanuele, che con una grande Anschluss conquista l’Italia, fa voltare un attimo Napoleone III, prende Roma e…diventa il re di Sardegna con appendice italiana.
Una radice malpiantata, malnata eppure ormai nel terreno. Ma a quale costo?
E che cosa è possibile festeggiare oggi?
Forse, l’italianità d’averla fatta franca, dal monarchismo poco illuminato dei Savoia, dagli scherani neri del Ventennio, dalla minaccia comunista, dagli anni di piombo? Ma stiamo sicuri che in qualche modo ci saremmo arrangiati, adattati infine.
E allora, in barba ai mala tempora che corrono, questo vuole essere un omaggio a gente come Giovanni Falcone da Palermo, per esempio, e a tutti quelli che hanno creduto in qualche modo nella possibilità di un gioco democratico, pulito. In un posto felice che potesse avere nome Italia e vantarsi di essere uno Stato formato da un’idea.
E un pensiero al futuro, in cui spero che possano cadere responsabilmente tutte le bandiere, fuori dai regionalismi pseudoidentitari che non portano da nessuna parte.
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