
Articolo di Andrea Aufieri pubblicato su Il Paese Nuovo di martedì 1 marzo 2011
Il 2010 è stato l’anno della rivoluzione immigrata.
Nonostante gli ultimi vent’anni d’intensa attività migratoria, l’Italia comincia ora a capire che non sono solo gli autoctoni gli artefici del suo destino.
Scesi dalle gru, però, quanta strada dovranno fare gli immigrati per i diritti di tutti, cittadini al quarto sonno compresi?
È singolare che marzo 2011 per la Puglia non sarà segnato soltanto dal centocinquantenario della sanguinosa unità d’Italia. È singolare che lo stesso mese debba coincidere con il ventennale dei primi importanti sbarchi migratori a Otranto, quelli per cui qualcuno arrivò a chiedere di dedicare il Nobel per la Pace all’accoglienza dei pugliesi. E che istituzioni e sovrastrutture partitiche, ecclesiastiche e civili conniventi hanno poi gestito in modo tale da arrivare al paradosso di trattare la questione come un’emergenza, fino all’acme identitaria.
Il mese e l’anno della commemorazione identitaria di un paese coincidono con quello dell’invasione antidentitaria. Come se l’identità italiana fosse un blocco monolitico da contrapporre ai barbari venuti dal mare, invece di una realtà atomizzata nei particolarismi locali. Non per ultimo il capriccio baronale della Regione Salento. Come dire: pensiamo ancora ad ammazzarci tra noi con i nostri egoismi e la nostra ingordigia e poi gridiamo all’orgoglio patrio contro l’assalto dello straniero. Che, quando abbassiamo la guardia, penetra nella nostra comunità alterandone i valori, confondendone i connotati tradizionali, come se questo fosse per forza negativo.
L’interazione, a differenza della tanto ammirata e bipartisan integrazione, costituisce invece una vera possibilità dialettica di crescita di una comunità, di là dalla dialettica identitaria. L’alterità permette agli autoctoni di riconoscere l’umanità di ogni uomo, e la novità è che ormai abbiamo capito da tempo che lo stesso può dire chi arriva, mettendosi nei nostri panni per fare esercizio di pazienza ed empatia, esattamente come noi di qua dal mare.
La cultura dell’alterità, l’educazione interculturale e l’accettazione della presenza di culture e non di una traballante egemonia, così come buona parte del paese reale, hanno fatto passi da gigante. Restano molto indietro la stampa generale, eccetto quella che non è un’emanazione diretta del potere, e il potere politico stesso. E lo fanno volutamente, con la rappresentazione mediatica dei più deboli come i nemici dello status quo. Forse in tutta Europa è rimasto solo Il Giornale a chiamare “negri” i braccianti, bel primato.
E proprio questo è il punto: abbiamo vissuto l’alba di Rosarno, abbiamo visto i blocchi delle strade per chiedere contratti dignitosi, abbiamo alzato la testa, anche noi, finalmente,ma solo per vedere chi occupava le gru, siamo saliti sui tetti e abbiamo provato la vertigine di chi vorrebbe costruire ed è costretto a difendersi, abbiamo manifestato con gli altri immigrati per il primo sciopero su scala europea, abbiamo fatto campagne per ingaggi agricoli regolari, un’eresia. Ma adesso?
Ogni singola iniziativa rischia di non strutturarsi, di morire dissanguata o per soffocamento. Perché ogni iniziativa è demandata a singoli organismi, grandi e piccoli, fautori di un ignobile ed evidente conflitto orizzontale che non consente di fare rete, di condividere le esperienze positive. Questo non corrisponde a fare di tutta l’erba un fascio, proprio perché sappiamo della solidarietà, degli specialisti che volontariamente si dedicano ai problemi delle minoranze e tutto quello cui ho già accennato.
Eppure gli immigrati sono tornati in piazza il Primo Marzo 2011 chiedendo ancora diritti basilari, cittadinanza, lavoro, addirittura cibo. E dedicano la manifestazione a un ventiduenne ambulante in possesso di licenza, Noureddine Adnane. Di dov’era? Non importa, era un uomo che, stufo di essere tartassato dai continui sequestri ingiustificati della sua merce, si è dato fuoco ed è morto.
Una storia che dovrebbe far riflettere tutti, anche i leccesi,che non manifesteranno nonostante le vicissitudini dei rom del campo “Panareo” e che solo pochi giorni fa hanno letto la cronaca della rocambolesca fuga di estorsori che ritirava regolarmente il pizzo dall’esercizio di una coppia di immigrati: un piccolo squarcio su di una realtà pesante, profonda, radicata nella comunità più della solidarietà e del mutualismo, della dignità del lavoro che caratterizzano la nostra Costituzione. Perché ha in sé un modello terribile e vincente: quella stessa paura che ancora ci blocca nel nostro esercizio di alterità verso gli immigrati.
Anno Uno: una cosa interessante, un passo avanti sembra essere il ruolo sempre più valido e istituzionalmente riconosciuto assunto dalle associazioni d’immigrati, sperando che non prendano le stesse cattive abitudini di chi finora ha deciso per loro. Ma questo non basta: bisognerebbe setacciare ogni singolo Piano di Zona, ogni consulta e capire come e se funzionano. E ancora, perché non riconoscere un’adeguata partecipazione e rappresentanza politica alle culture presenti sul territorio nazionale? Certo il clientelismo in questo modo avrà un’impennata quasi multinazionale, ma sono i rischi di una società aperta, e non è detto che il controllo democratico e la trasparenza non funzionino.
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