Di Andrea Aufieri. Pubblicato su Palascìa_l’informazione migrante, Anno I Numero 2, Maggio-Settembre 2010.
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Qualcosa permette al calcio di essere ancora popolare, oltre il bombardamento mediatico.
Se è vero che gli scandali, le violenze e le misure di sicurezza hanno ridotto l’afflusso dei tifosi nelle gabbie cui sono stati ridotti gli stadi italiani, non si può dire lo stesso del fascino di tirare due calci a un pallone.
Sempre meno per strada, sempre più per i numerosi campi delle strutture sportive o degli oratori. Quasi mai in undici: troppi amici da conoscere e concertare, magari in cinque, e davvero su qualsiasi qualità di campo. Se va bene, come vedremo nel caso di “Calcio senza confini”, per un torneo si possono raggruppare otto persone e costringerle a scendere in campo una volta a settimana, ma questo denota passione e quello spirito così ben raccontato da Francesco De Gregori ne La leva calcistica della classe ‘68, che ha reso quella canzone un evergreen.
E poi. Non ci sono più le bandiere, sono tutti mercenari, e se esistono non spiccano per sportività e correttezza. Eppure, forse in competizione solo con la musica, è proprio il calcio ad aver globalizzato sul serio certe dinamiche culturali in ogni angolo del mondo. Se prima poteva far sorridere vedere uno straniero indossare la maglia dell’Inter, giocatori della squadra “multinazionale” a parte, oggi si vedono sempre più immigrati indossare le maglie delle proprie nazionali, sempre più competitive.
Proprio in quest’ottica la madre di tutte le manifestazioni calcistiche, il Mondiale di calcio Fifa, si gioca quest’anno in Sudafrica. E anche quest’anno ha il suo inno pop, cantato da Shakira: Time for Africa.
È davvero il momento dell’Africa? Ecco cosa ne pensano Billy e Ablaye, senegalesi, rispettivamente supporter e portiere part-time del team Afika Unite. Fanno quattro chiacchiere con me poco prima della delicata sfida contro le Kapu Vakanti, primi in classifica del girone di qualificazione A del torneo “Calcio senza confini”. Billy ha 32 anni e ne ha passati a Lecce quasi otto, fino ai 22 è stato un corridore velocista, appassionato di atletica leggera in genere. Tifa Senegal, che dopo i fasti dei mondiali nipponico-coreani ha vissuto un lento declino «ma abbiamo cambiato politica e ci stiamo riprendendo». Ha seguito comunque i mondiali e ha tifato Italia, credendo nel bis e perché «ormai l’Italia è la mia casa: nessun posto è ospitale come il Salento. A Dakar ho fatto altrettanti lavori che in Puglia: dal cameriere al meccanico, fino al bracciante per la raccolta di angurie e pomodori e l’estirpazione di erbacce. Anche se non ci sono soldi e se non ho un lavoro serio da due anni, anche se qualcuno appena sono arrivato ha approfittato della mia poca conoscenza dell’italiano per rubarmi soldi, ho conosciuto tante brave persone che mi hanno aiutato nei momenti difficili e mi hanno dato coraggio, mi hanno convinto a non disperare».
Ablaye ha 19 anni, studia come grafico presso l’istituto superiore “Antonietta de Pace”, lavora come assistente presso un anziano leccese, e ama molto il calcio, tanto da venire a parare quando può, anche subito prima o subito dopo alcune giornate un po’ troppo faticose, nelle quali il lavoro e lo studio coincidono. Il team dello Unite, appena lo vede, gli fa una grande festa, nonostante il primo portiere sia molto affidabile e spettacolare. È a Lecce da solo un anno e mezzo: «Qui ho trovato la pace. Sono arrivato su una barca in Spagna, poi sono stato a Milano e a Parma, ma qui ho trovato gente simpatica e conviviale, soprattutto presso l’ufficio Migrantes e lo sportello per l’immigrazione della Provincia, che mi hanno dato consigli e aiuto per la scuola, per i documenti, per il lavoro». Sul Senegal ha una sua precisa teoria: «Per passare le qualificazioni ci voleva il cuore, e quello da un po’ non ce l’abbiamo, siamo poco umili. Camerun e Ghana si vede che superano i problemi tecnici facendo squadra. Anche per questo ho tifato Camerun».
Mi dice di essere molto attivo nel sociale: qui a Lecce ha fondato l’associazione “Teranga-Associazione per l’integrazione partecipativa”: «In questo momento di grave crisi, noi che veniamo qua per quanto ci è possibile dobbiamo evitare di essere un peso per gli altri e per la società, è giusto che ci impegniamo». È venuto per fare gli auguri ai compagni, lui deve scappare al lavoro, ma prima di andare via dà un ultimo sguardo a quel pallone che rotola sul campo di un paese che sente finalmente suo e per il quale ha dato e continuerà a dare tanto. Già, la partita è terminata con una sconfitta di misura (1-0), poi la squadra è stata eliminata. Ma partecipare è importante.
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