Intercultura all’italiana

Striscia di Mauro Biani

 

Di Andrea Aufieri. Pubblicato su Palascìa_l’informazione migrante, Anno I Numero 3, Ottobre 2010-Gennaio 2011.
http://www.metissagecoop.org

L’Italia è un paese che racconta di oscillazioni migratorie in entrata e in uscita, da sempre. La misura doveva esser colma già ai tempi di Dante, che respingeva questa donna di bordello, troppo promiscua anche nel meticciato delle sue culture. Il poeta dovrebbe farsene una ragione: nonostante la facilità con cui il popolo abbia voluto seguire bandiere di qualsiasi colore, l’anima è rimasta una e molteplice, divisa e indivisibile. E preparata anche, d’istinto prima ancora che per legge, all’accoglienza, salvo poi dover dare anche un colpo al cerchio del mercato. Così l’orda, per dirla con Stella, i nuovi barbari e la costruzione mediatica del nemico, del capro espiatorio di malesseri sociali prima ancora che economici. E il tentativo d’innesto di modelli che poco hanno a che fare con questo paese. Da diversi anni si evidenzia una realtà senza equilibrio: è richiesta la presenza di lavoratori immigrati, eppure si rende difficile l’arrivo e la permanenza. Fino a quando potrà durare questa situazione, prima che il paese si abbandoni alla povertà e alla vecchiaia cui vuole condannarsi? In questi anni si giocano molte speranze. Siamo abituati a leggere la presenza immigrata sotto la lente della spesa pubblica, e non ragioniamo sulle possibilità di crescita che questa ci offre. Abbiamo provato a porre due domande urgenti agli attori nazionali  dell’intercultura, dalla politica all’arte, dal diritto ai movimenti, dal giornalismo all’università e alla ricerca. La fotografia è piena di contrasti, le potenzialità sono in mano ai cittadini.
Le nostre domande:

  1. Il VII Rapporto Cnel conferma che in Italia è forte la richiesta integrativa rivolta agli immigrati, dall’assistenza alla manodopera, al lavoro qualificato. Tuttavia, siamo ben lungi dal facilitare il loro ingresso e la loro partecipazione. Cosa ha fatto e cosa deve fare il nostro paese sul piano del riconoscimento delle identità perché possa presentare un modello interculturale valido in Europa?
  2.  Come valuta l’apporto che la sua categoria professionale ha dato finora allo sviluppo di un’Italia interculturale e quale potrà essere il suo peso nell’immediato futuro?
Ferruccio Pastore

Ferruccio Pastore_Direttore Fieri, Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione.

Gli anni 2000 rappresentano un cambiamento rispetto agli indirizzi di ricerca tradizionali sui modelli d’interazione e dialogo da parte delle nazioni europee. Gli esempi all’avanguardia di tali sistemi erano i paesi del fordismo come il Regno Unito, poi affiancati dai paesi come la Francia e l’Olanda, che realizzavano un’assimilazione laica a oltranza, mutuando l’esperienza canadese, per arrivare al forte welfare della Germania, sistema più rigido nell’assimilazione culturale. Gli ultimi 15 anni d’immigrazione, però, passando dal 2001 e dagli attentati di Madrid e Londra, che bisognerebbe stabilire quanto abbiano a che fare con la presenza immigrata in Occidente, hanno messo in crisi i vecchi sistemi, rimandando a una sorta di mitologia o stilizzazione di tali modelli anche sul piano normativo. Ed è accaduto che nazioni prima molto aperte come l’Olanda e la Svezia affrontassero una deriva securitaria, mentre la Germania si ammorbidiva sulla questione della cittadinanza. In mezzo a tutto questo l’Italia naviga a vista con repentini cambi di rotta dall’80 a oggi: si frammentano gli approcci a seconda delle proposte avanzate dal privato sociale, dal terzo settore, dalle Regioni e dagli enti locali, relativizzando l’importanza di un modello. I modelli europei dei Duemila si confondono, e rischiano di sfaldare l’Europa unita, perché i sistemi risultano fragili rispetto agli obiettivi da raggiungere. Così si calma l’opinione pubblica introducendo i flussi e assicurando che gli immigrati “cattivi” si rimpatriano e che qui arrivano solo quelli che servono. In realtà il reato di clandestinità, pur rappresentando una politica tra le più pesanti in Europa, sortisce pochi effetti concreti, così come se già c’è una crisi di assorbimento dei cervelli italiani, che emigrano, è utopistico pensare che possano essere richiesti solo stranieri qualificati. Il problema è più complesso se introduciamo la questione delle migrazioni circolari, perché non è detto, anche se razionalmente parrebbe così, che gli immigrati ritornino in patria se non hanno la certezza di trovare una situazione adeguata né quella di poter emigrare nuovamente: manca una progettazione internazionale in tal senso.
La cultura_Parlerei di produttori di conoscenze e di opinioni. La rappresentazione che la società fa di sé quando sta cambiando è di tipo scientifico, giornalistico, autoriale, eccetera. L’Italia è partita da una buona base di ricerca sull’emigrazione, e ci ha messo un po’ per ottenere l’attenzione di sociologi, antropologi e demografi sulle questioni dell’immigrazione. Ancora più tempo, per un percorso che ancora non ritengo concluso, c’è voluto per economisti, studiosi del diritto e della politica. I livelli attuali sono ancora insufficienti rispetto all’importanza della sfida, anche se sia Istat che Banca d’Italia hanno adottato da anni questo filone di ricerca. Mancano soprattutto le risorse. La ricerca è fondamentale per costituire anticorpi contro slogan e strumentalizzazioni. Per una serie di motivi i media vi si approcciano strumentalizzando, per contro c’è chi vede tutto rosa. Capire le trasformazioni profonde e spesso problematiche che l’immigrazione porta con se è possibile se la ricerca consente riferimenti chiari e oggettivi su bisogni e implicazioni.

Franco Pittau

Franco Pittau_Coordinatore “Dossier statistico immigrazione” Caritas/Migrantes.

L’immigrazione fa parte strutturalmente di un paese pregiudicato nel suo sviluppo da un andamento demografico negativo, che si ripercuote sul mercato occupazionale. Inoltre, il Rapporto Cnel mostra le diverse potenzialità d’integrazione riscontrabili nelle varie regioni e province d’Italia. Tutti gli studi statistici, a partire da quelli del’Istat, sono di segno univoco circa l’importanza dell’immigrazione nei futuri scenari del paese. L’anomalia italiana, purtroppo in contesto europeo che è andato anch’esso diventando più ostile all’immigrazione, consiste nell’elaborare una sorta di “mistica pubblica” che mal si compone con questa realtà di fatto. Parlare di un modello italiano è presuntuoso in questa situazione caratterizzata dalla divaricazione tra la realtà effettiva e il suo inquadramento concettuale. Sono, invece, possibili approcci corretti o scorretti agli “stranieri” (che poi, in realtà, tali non sono in quanto destinati a vivere e a morire da noi). Sono positivi il riconoscimento dell’utilità degli immigrati a livello demografico e occupazionale, la curiosità rispetto alla loro diversità culturale e la disponibilità al confronto, il rispetto della loro diversità religiosa; sono negativi, invece, i pregiudizi sullo straniero clandestino, delinquente, persona di secondo rango destinata a mansioni inferiori e non meritevole di godere di pari opportunità. Fin quando non si arriverà a considerare gli immigrati compiutamente “i nuovi cittadini” è fuori posto parlare di un modello interculturale italiano, per giunta valido in tutta Europa.
La ricerca_ La strategia seguita da Caritas/Migrantes in vent’anni di studi statistici si può così riassumere: per convivere, italiani e immigrati insieme, bisogna conoscersi a vicenda; per conoscere correttamente gli immigrati sono di fondamentale utilità i dati statistici; le statistiche vanno interpretate dall’intrinseco e non secondo idee preconcette; il risultato di queste analisi non va limitato a una ristretta cerchia di studiosi e di operatori bensì partecipato all’opinione pubblica; seguendo questa impostazione, bisogna esigere coerenza nei politici, negli amministratori, negli uomini di cultura e nelle persone comuni, così da poter fare pace con il nostro presente e specialmente con il nostro futuro.

Jean-Lèonard Touadi

Jean-Lèonard Touadi_Parlamentare del Partito democratico.

Questi dati sono l’ennesima conferma che il volto del paese continua a cambiare di anno in anno nelle sue strutture sociali, assorbendo sempre più al suo interno persone con culture differenti. L’immigrazione è un momento epocale di trasformazione per questo paese, un dato riscontrabile in tutti i settori, dall’industria al welfare, eppure questo paese stenta a prendere atto del carattere stabile e organico di questo fenomeno, visto che ancora non si fanno i conti con questa realtà dal punto di vista della cultura, della comunicazione, dell’ordinamento giuridico. È evidente la sfaldatura tra i dati che leggiamo e la totale assenza di politiche strutturali. Dobbiamo decidere se possiamo permetterci di considerare gli immigrati, nuovi cittadini, come una casuale presenza spaziotemporale, lasciando che la comunità italiana e quelle straniere vadano per conto proprio. Servono delle politiche mirate a favorire un processo lento ma pianificato di questo pezzo di popolazione. Adeguare una legislazione che ora guarda allo straniero solo come lavoratore, così se questo elemento decade non ha più senso la sua presenza qui. Modellare la legislazione sulla persona, riconoscere le specificità culturali degli stranieri, dando al contempo la possibilità di conoscere l’Italia. E questo processo si completa se si favorisce la partecipazione del soggetto alla vita pubblica: anche senza passaporto, se le persone vivono qui da dieci o quindici anni hanno il diritto di usufuire dell’elettorato attivo e passivo almeno a livello amministrativo. Questo avrebbe il doppio significato dell’inclusione e della responsabilizzazione. Credo si debba lavorare per riconoscere la cittadinanza italiana ai figli degli immigrati sin dalla nascita, accompagnarli poi nella quotidianità come si fa con tutti, perché siamo lontani ormai dalla fase emergenziale per cui gli stranieri erano solo bocche da sfamare, occorrono al più presto, perché siamo in ritardo, politiche complementari.
La politica_Dal 1980 la politica italiana ha fatto grandi passi avanti verso la consapevolezza della presenza degli immigrati, sfociando poi nella legge Martelli, per arrivare al decreto Dini e alla legge Turco-Napolitano, comportandosi come un paese che prende sempre più atto della presenza di nuovi cittadini. Ma con la Bossi-Fini del 2003 la classe politica si è irresponsabilmente rifiutata di governare e gestire la questione, illudendosi di poter garantire una vita a immigrazione zero. Questa è una grave colpa della classe politica italiana, che deve ora ripartire quanto meno da quel 9% del Pil di sola provenienza immigrata, deve prendere atto del rinnovamento demografico che gli immigrati apportano alla nazione. Deve infine, come compito morale prima ancora che politico, diradare le nubi della paura, esaminare ed eliminare con la costruzione di esempi positivi tutta una simbolica messa in piedi nella designazione del nemico. La consapevolezza culturale e politica dell’inevitabilità del fenomeno deve portare la nostra società ad aprirsi: società che non sono lontane anni luce dalla nostra, (Usa e Germania) essendosi aperte all’altro, sono divenute più giovani e floride.

Ernesto Maria Ruffini

Ernesto Maria Ruffini_Avvocato dell’ associazione A buon diritto.

In questo momento l’Italia è un caso da non prendere a esempio. Lo squilibrio è la dimostrazione di come l’immigrazione sia declinata, letta e affrontata ipocritamente solo per fini elettorali e non per una reale costruzione di modello che comunque si imporrà alle nuove generazioni indipendentemente dalla nostra volontà di arginare il fenomeno. La domanda di forza lavoro è tale che il mondo del lavoro non può fare a meno dell’apporto immigrato. Pensiamo alle badanti che consentono alle famiglie italiane di continuare ad avere ritmi di vita alti, senza preoccuparsi dell’innalzamento dell’età media. Lavori che ormai non sono più appetibili dai giovani italiani, nel mondo dell’agricoltura o in talune fabbriche, perché il rapporto ora/lavoro non alletta nessun italiano. Questo lo stato dell’arte. Forse il superamento della situazione verso un sistema d’integrazione, parola né brutta né bella in sé, ma forse più utile è condivisione della nuova società italiana, avverrebbe consentendo agli immigrati di essere parte della formazione di un nuovo modello societario. Permettere la partecipazione verso una società che comunque, nostro malgrado, si creerà, perché di fatto, per la natalità, andiamo a ritmo incalzante verso la multietnicità e il mutamento fisiologico della nostra identità nazionale. O costruiamo prendendone atto o ignoriamo senza risolvere il problema, senza ostacolare lo straniero che ha trovato il lavoro in nero dal datore di lavoro italiano.
Il diritto_ Il mondo della giustizia è rimesso alla lungimiranza del legislatore e alla sua generosità, nel momento in cui un operatore si trova dinanzi a una normativa chiara, netta e ostativa rispetto al fenomeno immigratorio. Certamente il giudice non ha grandi spazi di manovra: questa potrebbe essersi creata nei mesi scorsi in relazione alla domanda di costituzionalità della legislazione attuale. Rispetto al permesso di soggiorno, invece, la difesa è quasi impossibile. L’unico spazio di difesa è quello di provare a scardinare la figura di reato introdotta sollevando eccezione di costituzionalità. Gli immigrati accusati d’immigrazione clandestina, poi, possono avere altri gravi problemi, e permettono di intraprendere altre tutele nei loro confronti.

Laura Boldrini

Laura Boldrini_Giornalista, portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unchr).

Bisogna capire che esiste sviluppo locale anche attraverso i rifugiati, che per la loro presenza si riaprono le botteghe, si ristrutturano i borghi, le suole si riempiono. Semplicemente perché ci sono i rifugiati. Ci sono buone pratiche che però non sono sostenute, c’è la tendenza a rendere la vita dei migranti molto complicata. Penso che si possa fare decisamente di più, ma per farlo c’è bisogno di una visione politica e di convincere i cittadini che dall’immigrazione c’è da guadagnarci tutti, non è trascurare il disoccupato italiano, è consentire più diritti a tutti, perché erodendo i diritti cominciamo con gli immigrati, poi con i rifugiati, poi con le minoranze, le donne, già stiamo erodendo quelli dei lavoratori italiani. Su questo punto la politica dovrebbe avere il coraggio, nell’interesse collettivo, di prendere atto del male che si fa al paese cavalcando l’illegalità. L’Italia è tristemente famosa nel mondo per la malavita organizzata e l’italiano medio, se intervistato sull’illegalità e l’insicurezza, risponde che la prima causa di questo è l’immigrazione. La politica ha lavorato stancamente su questa equazione, pochi si son presi la briga di capire quali altri temi possono essere lanciati. Non si esce più da questa cosa. Chi ha una visione dovrebbe ragionare nel lungo e nel medio termine.
I media_ In quanto giornalista, pretendo di comunicare, che è la cosa più importante, perché bisogna dire alla gente che non si deve sottostare al grande equivoco della paura, grande catalizzatore di consensi. Forze politiche ci marciano. Non risolveremo i nostri problemi cacciando i nostri immigrati. Internet ci fa capire che siamo tutti in movimento, noi il mondo ce l’abbiamo a casa e la migrazione è la stessa cosa, non si possono bloccare, ma al massimo regolare e gestire questi fenomeni. L’Italia ha un ruolo di primo piano nello scacchiere europeo, noi abbiamo nel nostro dna una carta in più, siamo il risultato del crocevia, ma oggi diamo precedenza all’imprenditoria della paura. C’è un’Italia che non si vede, degli impegnati e degli insegnanti che fanno lezione gratuitamente alle persone, quella degli avvocati che fanno valere i diritti, così come c’è l’Italia dei medici che curano senza voler nulla in cambio e che non denunciano gli “irregolari”. Questa Italia non trova sempre spazio sui media, perché i media sono innamorati del modello cattivo, quello del coltello tra i denti. Mia figlia mi chiede perché i ragazzi in tv ci vanno quando fanno i bulli e non quando fanno le cose per bene. Perché, le rispondo, voi non siete trendy, studiate, fate volontariato, non fate notizia. Il cattivo è destinato a non farcela. Dare voce a questa società vincente, orfana anche politicamente, perché la politica trova grande convergenza sul tema della tolleranza, ma poi non compie l’atto pratico, si coniuga sempre e solo la paura e la sicurezza, si respinge in mare, si respinge culturalmente, e rischiando l’isolamento culturale. Andrea Camilleri, che è un mio amico, mi parla spesso della sua formazione e dice sempre che è un bastardo, perché ha rubato da russi, francesi, arabi, persiani. Oggi abbiamo anche noi questa opportunità, senza perdere niente. Il mio lavoro è in concorrenza rispetto al sistema che pone una cappa sul nostro paese.

Mandiaye N’Diaye

Mandiaye N’Diaye_Regista e attore teatrale, curatore del progetto Takku Ligey (Qui l’audiointervista che riporta la sua esperienza in Italia).

Io oggi mi considero un italiano, perché qui ho vissuto la parte più importante della mia vita: avevo 20 anni quando sono arrivato e ne ho 44 ora e sono felice di aver vissuto una vita così. La mia esperienza con il Teatro delle Albe, oggi con Ravenna Teatro, coincideva con l’uscita della legge Martelli, che consideravo come un passo fondamentale nella garanzia dei diritti di tutti. Oggi l’Italia ha messo da parte questa intelligenza, che le proveniva storicamente dall’aver saputo inserire il cristianesimo in Europa, garantendole un grande ruolo. Oggi dovrebbe essere molto più avanti e invece è tornata indietro. C’è un senso d’integrazione a senso unico, e oggi i miei figli vivono in Senegal, ma in futuro dovranno essere i mediatori e traghettatori tra le culture, potranno essere italiani solo a 18 anni, e questa credo sia una mancanza di rispetto. Coinvolgere l’essere umano a far parte della società dovrebbe essere un dovere di una comunità: i figli degli immigrati dovranno divenire cittadini italiani.
L’arte_ Faccio un esempio: nel 2006 con il progetto di “Takku Ligey” (“darsi da fare insieme”,ndr) nel mio villaggio, Dioll Kadd, abbiamo preso un testo di Aristofane, Pluto, il gioco della ricchezza e della povertà. L’abbiamo ambientato nella stagione delle piogge, quando si semina il miglio e l’arachide, e nel nostro villaggio, spopolato da 1500 a 500 abitanti perché tutti sono andati a Dakar o in Europa, le 500 anime litigano perché la tradizione dice che per seminare il miglio bisogna aspettare certi segni di animali che volano e le ombre che cadono in un certo modo: quindi abbiamo riprodotto uno scontro tra conservatori e progressisti, come certi dialoghi tra Cremilo e Carione. Ambientare tutto in un rito antico, simile a quello greco, ha avvicinato due culture in apparenza lontanissime: molti autori e gente di cultura come Marco Martinelli, Gianni Celati e Antonio Aresta hanno apprezzato molto questa riscrittura, apparentemente lontana e antica, rimodulata per l’attualità a fare un ponte tra due culture, questo è intercultura. Oggi in Italia molti gruppi musicali e teatrali fanno intercultura. In più di tre anni trecento italiani sono venuti a Dioll Kadd, dal sud al nord, il nostro piccolo teatro riesce a unire l’Italia. Abbiamo anche partner che ci sostengono da Lecce alla Svizzera grazie al progetto di meticciato che abbiamo realizzato. Il teatro fa incontrare le persone, al di là delle volontà secessioniste di qualsiasi spinta. Noi riuniamo degli amici intorno a un teatro, un progetto di sviluppo.

Marco Bersani

Marco Bersani_Coordinatore nazionale Attac Italia, Associazione per la tassazione delle transizioni finanziarie e per l’aiuto ai cittadini.

L’Italia deve guardare alla propria storia, siamo una terra d’immigrazione dopo essere stati migranti, portatore di una storia e di una cultura, il problema va preso di petto. Non si può separare l’utilizzo di manodopera e professionisti che arrivano dal mondo migrante chiedendo loro di essere presenti in campo lavorativo, ma escludendoli da tutto ciò che non attiene a quella sfera. Questo è un problema politico: usare migranti per abbassare il livello di diritti dei lavoratori italiani, cosa che ha creato conflitti orizzontali. Fasce deboli della popolazione sono caduti nell’ideologia della paura e della sicurezza. Eppure i reati di microcriminalità sono minimi rispetto al totale, aumentano invece le violenze familiari. Problemi nelle relazioni affettive significano che si rompono i legami sociali, si costruiscono meno relazioni, e sulle poche che ci sono gli italiani giocano tutto e se si rompono accade un crack. Invece vogliamo distrarci col nemico esterno diverso culturalmente, religiosamente. Un capro espiatorio fortissimo. Credo che si debba considerare l’Italia una terra di accoglienza, un elemento di ricchezza materiale, contribuiscono all’aumento dei livelli di ricchezza e di cutlura. Appartenenze e identità sono sempre più piccole e spesso fasulle, come la Lega che nasce dall’appartenenza a un mito che non ha fondamenti nella storia.
I movimenti_ Associazioni e movimenti, soprattutto quelli gemmati dal movimento dei movimenti costituitosi a Genvoa e poi radicato con alterne vicende nei territori, hanno fatto un buon cordone intorno alla questione dell’affermazione dei diritti degli immigrati. Ora faticano nel trasportare l’attenzione da un’errata concezione residuale delle politiche immigratorie nell’agenda politica, verso un’affermazione centrale. Sforzarsi di leggere la società dal punto di vista del migrante perché questa non ha un suo andamento e poi, a margine, ha un problema sugli immigrati: la società non funziona e un’ottima cartina tornasole sono i migranti. Le persone sono schiacciate dalle logiche di mercato. Associazioni e movimenti dovrebbero riuscire a dare una lettura complessiva del fenomeno come parte della complessità della società italiana e mobilitarsi, perché se no dobbiamo prepararci a cedere terreno nel campo dei diritti di tutti. Devo registrare un’insufficienza dei movimenti stessi perché un conto è solidarizzare e un altro costruire una cultura maggioritaria, dentro le persone non direttamente attive sulla questione per una diversa consapevolezza su chi arriva dall’altra parte del mondo. E certo bisogna fare i conti poi con una campagna mediatica pesante che instaura la paura nel cittadino medio: è facile immaginare che ci sono problemi di sicurezza rispetto alla disfunzione dello stato sociale, magari attribuibili a certe comunità piuttosto che criticare un modello economico, sociale, ecologico che va contro i reali bisogni delle persone.

Intercultura all’italiana?

Imbastendo le interviste viene fuori un abito di difficile vestibilità per gli italiani. Ci si chiede se sia effettivamente utile allestire un modello stabile dinanzi a un fenomeno costante nei suoi dati oggettivi, ma aleatorio riguardo alla qualità. E pare ormai scontata l’impossibilità di allestire politiche migratorie a sé stanti, come se fossero slacciate dai problemi trasversali che attraversano e mettono in crisi ogni aspetto della società italiana. Non contrastato né tanto meno rivisto da una politica responsabile a livello comunitario, il mercato economico, finanziario e del lavoro del sistema in cui viviamo prende con ferinità il sopravvento su ogni aspetto della vita sociale. Questa situazione dà adito a una precarietà che fa impressione per la vastità e la profondità raggiunte. Incapace in questo momento di dare risposte di fronte all’Europa, se non sul piano dei respingimenti, e al contempo lasciata sola a gestire il crocevia dall’Europa stessa, l’Italia ha delle lillipuziane speranze. I singoli esempi e progetti di inclusione e socializzazione per tutti, la possibilità di rendere più ampia la partecipazione degli immigrati, la ricostruzione giornaliera, costante di un nuovo tessuto sociale che dia nuove basi al concetto di identità attraverso l’educazione e la formazione. Ripartire dai comuni: sono questi gli esempi che vanno incoraggiati e strutturati.
Per un’Italia capace di futuro.

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