
Andrea Aufieri. In quinta elementare scrissi una tesina finale per gli esami sulla Seconda guerra mondiale. Per l’italiano c’era il commento di una poesia di Salvatore Quasimodo, la celeberrima Alle fronde dei salici. Il poeta ermetico lamenta l’impossibilità dei poeti di cantare sotto l’orrore dei bombardamenti e di fronte al sangue dei fratelli, all’urlo nero delle madri.
Proprio Quasimodo giustificò il senso di quel componimento presentandolo come ispirato al salmo 137:
«La poesia è stata scritta alla fine dell’inverno del 1944 nel periodo più credule della nostra storia. Nasce da un richiamo a un salmo della Bibbia, precisamente il 137°, che parla del popolo ebreo trascinato in schiavitù a Babilonia. È un riferimento culturale. Il poeta non canta, dico io nel primo verso; e questo lo dicevano gli ebrei perché il canto è la rivelazione più profonda del sentimento dell’uomo. “Al lamento / d’agnello dei fanciulli” , da questo sterminio non è stata risparmiata nemmeno l’infanzia. Basta ricordare l’episodio di Marzabotto dove sono stati fucilati e bruciati 1800 italiani. Fra questi, anche bambini di due anni»
Crescendo non ho più condiviso quel punto di vista. Non ho neanche più condiviso le scelte del poeta, soprattutto sotto il fascismo,perché sembravano sconfessare quell’opera di cui mi ero innamorato. A meno che non mettessero il poeta sotto la luce cruda del collaborazionismo, ma dubito che ci fosse tanta autocritica in quel testo.
In questi giorni si parla, invece, di qualcuno che ha dimostrato che le «cetre» non venivano appese nemmeno nel momento estremo. E proprio dagli ebrei, che componevano musica che fosse loro da sollievo, cura, espiazione, lamento, condanna e preghiera.
Francesco Lotoro è un pianista concertista nato nel 1964 a Barletta, ma la sua storia l’ha raccontata per primo il quotidiano francese Le Monde. Eppure Lotoro, anche essendosi formato a Budapest, non ha mai lasciato né la città né l’accento. Nessuno è profeta in patria, évidemment.
Francesco e la sua compagna, Grazia, hanno abbracciato l’ebraismo, e nel 1990, in occasione di un concerto a Tel Aviv, scoppiò la scintilla tra il pianista e la musica di Gideon Klein. La sonata che Lotoro eseguì in quell’occasione fu composta a Terezin. Klein fu trasferito poi ad Auschwitz ed eliminato. Il suo corpo non fu mai ritrovato, Francesco volle ritrovarne la musica. La bibliotecaria della Comunale di Praga, oltre ad accompagnarlo nella sua ricerca, gli suggerì di ampliarla a tutti gli uomini vittime della follia dei loro fratelli.
Da quel momento nacque il progetto dell’Istituto internazionale di Letteratura musicale concentrazionaria, che ha una sede temporanea proprio a Barletta. Il nucleo del progetto è quello di raccogliere ogni spartito musicale o bozza che abbia a che fare con la partenza o la detenzione nei campi di concentramento da Dachau a Praga, per arrivare all’India, al Giappone e ai gulag. Le opere riscoperte dal pianista sono pubblicate dall’etichetta KzMusik.
È emblematico il caso di Rudolf Karel, ucciso a Terezin, che non aveva diritto alla carta perché musicista ebreo, ma soffriva di dissenteria e per questo scrisse la sua musica sulla carta igienica. Un lavoro a metà tra l’investigatore, lo storico e l’artista è la missione di Francesco, qualcosa che ha del sacro. O comunque ragiona sul rapporto tra la spiritualità dell’arte e la volontà umana di opporsi all’oblio. Le Monde, ad esempio, racconta della sua come di una corsa contro il tempo.
Una ricerca che forse non porterà la musica a salvarci, come gli ho chiesto su Facebook, ma che «intanto-risponde- abbiamo salvato noi, da un bug temporale di ben 70 anni».
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