Febbraio 2011. Il treno espresso da Lecce per Roma era arrivato alle sei di mattina e il seminario sarebbe cominciato soltanto dopo le due di pomeriggio. «Libertà d’informazione in Europa», molto interessante. Non lo sapevo ancora, ma mi avrebbero dato conto dello tsunami che presto avrebbe coinvolto Murdoch nel Regno Unito.
Intanto, però, c’erano otto ore da riempire. Uno dei bar di piazza Cavour si era rivelato molto ospitale. Portavo con me uno dei libri che aspettavano di essere letti da anni. Ma quel giorno di inizio febbraio era il preludio di una delle primavere più intense e calde e gioiose che avrei mai passato. E io neanche questo sapevo ancora, ma se il sole ti sorride mica gli neghi la risposta.
Così, dopo un caffè necessario- e sicuramente una pasterella-, cominciavo a girare nei dintorni della chiesa valdese, cercando e trovando una biblioteca, che però restava chiusa. Avevo passato almeno un’ora in una libreria antiquaria, e trovato anche una libreria specializzata in diritto. Cercavo e trovavo un po’ troppe risposte ad alcune semplici domande.
A proposito di risposte, in quei giorni c’era nella mia casella privata di facebook, una timida discussione appena iniziata con una certa persona. Ancora non lo sapevo, ma quella lì sarebbe diventata il mio tsunami personale e prevalente degli anni a venire.
A un certo punto, un negozietto di una signora romana verace, coltissima. Una gran chiacchierona. Dopo, per riprenderemi ho dovuto bere un altro caffè. Aveva ricami fatti a mano, tazzine di porcellana finissima e una quantità di spezie, tè, aromi, cioccolate e biscotti che ci sarebbe voluto un anno a farne l’inventario.
Per fortuna quasi tutte le mercanzie erano fuori della portata delle mie tasche, e così mi limitavo a far domande sul modo in cui si preparava questo o quel manicaretto, e a farmi chiedere di annusare questo o quell’aroma. Poi il mio olfatto si è innamorato di un semplicissimo tè nero aromatizzato alla vaniglia. Un pacchettino di carta alimentare sottilissima e l’etichetta francese completavano un’esperienza sensoriale che, io non lo sapevo ancora, ma potrei dire che sarebbe stata la prima epifania di un modo di attivare i sensi. Quando uno strano calore parte dalla base della nuca e scende, rilassando la schiena, spesso in tensione, e dando agli occhi, alla testa, al cuore e al respiro una sorta di realtà aumentata, lucida e vogliosa.
Una roba vagamente proustiana, insomma, ma Proust non l’avevo ancora…audioletto. Poi l’incontro, poi gli amici, la vita, il ritorno in treno, e il ricordo di quell’0dore a coprire il puzzo dei compagni di viaggio al ritorno, sull’espresso di mezzanotte da Roma per Lecce.
Io ancora non lo sapevo, pensavo di aver preso un tè pregiatissimo che avrei consumato però in men che non si dica. Due anni è mezzo è durato. I primi esperimenti, senza il colino per il tè, prevedevano il sacrificio, a rotazione, di un canovaccio di casa. L’etichetta e la carta si sono sciupate col tempo. Ne ho trasferito il contenuto in un barattolo di vetro.
Poi tante cose sono maturate, evolute, spostate come mai negli anni che avevano preceduto l’arrivo del tè nella credenza di casa. Di casa mia, di un’altra stanza, poi di un’altra stanza ancora. E, per finire, di un’ulteriore stanza. Pochi giorni fa ho bevuto la sua ultima tazza. In tutto ne avrò bevute, da solo oppure no, una cinquantina.
Ho pensato che questo fosse un buon modo per rendere onore al tè proustiano. Il pensiero, questo un po’ cinico e decisamente antiproustiano, della bellezza di bere un tè, da beati ignari.
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