Uranio impoverito, paura a Torre Veneri

 

I lavori della nuova commissione d’inchiesta sull’uranio impoverito (qui l’intervista a uno dei suoi membri, il senatore Mauro Bulgarelli) sembrano aprire uno spiraglio per la ricerca della verità, ma il lavoro è enorme e spesso scoraggiato dai vertici militari. Intanto il Salento vive l’angoscia di una possibile polveriera dentro casa: cosa è successo a Torre Veneri?

La matematica è un’opinione

Sono 1655 oppure 1780 i militari ammalati di cancro dopo aver prestato servizio nelle cosiddette missioni di pace e nei poligoni di tiro? La fonte di questi dati è sempre la stessa, il ministero della Difesa, nella persona di Arturo Parisi, che a distanza di due mesi ha ritrattato la prima dichiarazione (resa il 9 ottobre), ascoltato una seconda volta (il 6 dicembre) dalla commissione senatoriale d’inchiesta sull’uranio impoverito.

E quante sono le vittime, 37, 42 o 160? Il primo dato è quello reso dall’attuale ministro Arturo Parisi, il secondo dal precedente, Antonio Martino. Per l’Osservatorio militare, l’associazione che assiste gli appartenenti alle forze armate e i loro familiari, i morti sarebbero quattro volte di più.

Non deve stupire l’inclinazione dei governi a giocare con certi numeri, sempre meno eclatanti quanto più vicini all’ufficialità e dunque alla possibilità di ottenere risarcimenti. A sei anni di distanza dall’istituzione della commissione medico-scientifica presieduta dall’ematologo Franco Mandelli, cui è succeduta la prima commissione parlamentare d’inchiesta rappresentata da Rocco Salini e da Paolo Franco, ben pochi sono stati i risultati raggiunti.

L’attuale commissione del Senato, presieduta da Lidia Brisca Menapace, si trova dunque ad affrontare problemi incombenti, visti i numerosi casi di malattie o di decessi affioranti man mano che ci si allontana dalle date delle missioni in Somalia ed in Bosnia.

Problema individuato, soluzione in arrivo si potrebbe pensare, ma non è proprio così. Non siamo nemmeno in presenza di tamponi di comodo, perché dalle missioni nei Balcani a quelle post-11 settembre in  Afghanistan, in Libano ed in Iraq l’utilizzo di armamenti all’uranio impoverito è addirittura aumentato del 100 percento. Verrebbe da interrogarsi sul ruolo dell’Onu, sempre meno efficace ed in balia di stati guerrafondai. Caduta l’ipotesi di imputazione della Nato per crimini di guerra formulata nel 2001 da Carla del Ponte, allora presidente del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, la prima commissione sul disarmo dell’Onu, il 31 ottobre scorso ha deliberato in favore della redazione di un dossier sull’uranio impoverito che costringerà l’Assemblea generale a pronunciarsi entro il 2008.

Non solo Uranio

La situazione internazionale si fa dunque meno incerta ed i lavori della Commissione italiana potrebbero essere condotti con maggiore serenità, ma bisogna piantare dei paletti su terreni non troppo sicuri. Il riferimento riguarda proprio le condizioni di esposizione all’uranio e di infezione: ad oggi non si è ancora in grado di spiegare come possa il materiale raggiungere una temperatura sui tre-quattromila gradi, pur dotato di un alto potenziale di combustione. Nella relazione della commissione d’inchiesta del 17 novembre 2004 si sottolinea che anche a distanza di centinaia di metri dalle esplosioni di proiettili all’uranio sono stati ritrovati frammenti di stronzio, carbonio, zolfo, ferro, silicio, piombo e mercurio. Questi materiali non sono solo un rebus perché possiedono una diversa composizione chimica rispetto al materiale esistente, ma anche perché rappresentano un rischio per le conseguenze sanitarie e ambientali.

Gli studi della celeberrima dottoressa Maria Antonietta Gatti offrono una parziale giustificazione del fenomeno come conseguenza dei processi di fissione e di fusione nucleare, ma introducono la possibilità che le cause dell’insorgere di malattie derivino anche dall’esposizione alle numerose polveri ultrafi ni che si sprigionano durante un conflitto o un’esercitazione. Il problema non sarebbe solo il materiale ma anche il processo: le esplosioni, di proiettili o bombe, all’uranio o al tungsteno, solo per citare un materiale diffuso, creano nebulose spesso contenenti cocktail micidiali di sostanze, inalate in quantità differenti, che provocherebbero l’insorgere delle malattie.

Pur comprendendo una significativa estensione del problema, gli studi della dottoressa Gatti sono criticati perché incompleti nei dossier di Falco Accame: per il presidente di Ana-Vafaf, l’associazione nazionale assistenza vittime arruolate nelle forze armate e familiari, non si può non tener conto di malattie che si presume siano sopraggiunte da contatto “a freddo”, che giustificherebbe l’insorgenza di tumori contratti dai militari che hanno prestato servizio presso depositi munizioni.

L’attenzione non si può concentrare solo sull’uranio, dunque, e per ora la soluzione proposta dalla presidentessa Menapace, che a RaiNews24 dichiarava di non fidarsi di studi spesso pilotati, è quella che in attesa delle risposte della scienza si aiuteranno i militari malati ad affrontare le spese burocratiche per il riconoscimento della causa di servizio.

Torre Veneri: da luogo ameno a bottega degli orrori

Quando si parla di militarizzazione della Puglia non ci si riferisce solo alle presenze un po’ troppo ingombranti di sedi e servitù militari, ma anche all’amara constatazione che oltre un terzo dei militari italiani sia composto da giovani di origine pugliese che hanno trovato lavoro in questo modo e che la stessa proporzione sia rispettata nell’impiego in missioni all’estero.

Ne consegue un altissimo prezzo di sangue ed un inquietante computo delle patologie presumibilmente insorte per l’esposizione all’uranio impoverito, sia in missione che nei poligoni e nei depositi: le cifre ufficiali, del Ministero della difesa (sottostimate, secondo altre fonti) indicano sedici casi e cinque vittime.

Anche il Salento conosce storie terribili di militari che hanno visto scivolare via la gioventù ed il vigore consunti da un nemico invisibile. Dal 9 ottobre scorso, però, l’orrore ha assunto connotati ancora più preoccupanti perché troppo vicini alla vita dei salentini, anche dei civili: il luogo interessato è Torre Veneri, uno splendido ed isolato scorcio di mare di Frigole che, quando non è chiuso al pubblico per le esercitazioni militari, è frequentato dai bagnanti. La data del 9 ottobre è invece quella della pubblicazione della lettera di Luca Giovanni Cimino che ha prestato servizio al poligono di Frigole per un anno fino al 1999, dove senza alcuna protezione maneggiava “bersagli e bossoli esplosi di ogni tipo”. Attività che potrebbe essere la causa del suo male: un “emoblastoma mandibolare”, tumore osseo alla bocca.

Pochi giorni prima, il 25 settembre, una delegazione della commissione d’inchiesta sull’uranio ha effettuato un’ispezione presso il poligono provocando l’esplosione dell’insicurezza nella popolazione della piccola marina, da pochi anni protagonista di un picco d’insorgenza di neoplasie. Le istanze sono state raccolte dagli onorevoli Teresa Bellanova e Antonio Rotundo, che hanno inoltrato richiesta di maggiori chiarimenti al ministro Parisi ed hanno sottolineato la necessità di condurre un’indagine epidemiologica sul territorio.

In attesa di sviluppi la paura permane e ci si chiede se non sia il caso di chiederne la chiusura.

Andrea Aufieri, L’imPaziente n.17, dicembre 2007-gennaio 2008

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