Show me something I don’t know! (apparizioni dal giro di giostra milanese)

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Show me something I don’t know. L’esperienza di due mesi a Milano, nella redazione di un grande quotidiano, ha avuto caratteri rizomatici. E tra le possibilità di racconto, sottotesto e rigenerazione, mi è venuta in mente una delle espressioni che più sono risultate simboliche nell’esperienza del master in giornalismo, finora. La frase è ripresa dal film «Cosmopolis», diretto da David Cronenberg, Del film avrei voluto parlarne, quando è uscito nel 2012, perché mi aveva scioccato il fatto che il protagonista, Eric Parcker/Robert Pattinson, a un certo punto esclama qualcosa del tipo che siccome ha ventott’anni, allora la sua vita è praticamente finita. E io, chiaramente, avrei compiuto 28 anni a giorni, oppure li avevo appena compiuti, non ricordo.

Tutt’altro, dopo. Per esempio di lì a un anno me ne sarei andato a giocare al giornalista a Milano e a giugno del 2012 neanche lo immaginavo.

E così, quando qualcosa assume uno sguardo vergine, resta scolpito nella mente e nel cuore. Un imprinting emozionale indelebile. Per la paura a MIlano, il primo giorno ho avuto le seguenti manifestazioni cutanee: indolensimento del collo per la rigidità delle spalle, sangue dal naso (non mi accadeva da quando avevo dodici anni) e balbettìo. Ma poi le cose sono andate meglio. La prima cosa da dire è che sono rimasto allibito perché i milanesi s’incazzano per dieci minuti di ritardo di un treno o di un tram. Viaggiate sulle Ferrovie Sud-Est, dico io, e ne riparliamo.  Per il resto, essendo uno che di natura tende a essere più o meno silenzioso, anche se comunque per ingombrare ingombro, e sporco anche, mi va di fare una lieve carrellata di volti e persone, a volte con nomi di fantasia, che ho incontrato nella Gràn Milàn. Non ci sono amiche, amici, parenti e colleghi: il mio rapporto con loro è stato sincero, intimo o parentale, a seconda, e sanno tutto quello che c’era da sapere. Alla «verginità dello sguardo» di cui dicevo sopra andrebbe anche aggiunto che c’erano qualcosa e qualcuno che mi facevano danzare su un filo di seta. Una cosa raffinata, proprio, al punto che pensare che me la sono meritata mi fa rabbrividire di piacere. Andrebbe introdotto il concetto di biografia romanzata, maledetta influenza del diario di Anais Nin. Ma ci arrivate da soli, no? I pop corn, caldissimi, sono già sul bracciolo. Per le bevande pensateci voi, io ho potuto provvedere solo alle diapositive e al whisky.Silenzio in sala, prego. La musica è solo strumentale e potete dormire, ecco qua.

Marianna ha due occhi che sono il mondo. Ma il fatto di avere due grosse cuffie sulle orecchie glieli svuota. Mi avvicino per chiederle un’informazione, ma non avendomi «percepito», sussulta. La cosa fa ridere entrambi. Saliamo sulla stessa linea della metro. Restiamo non troppo distanti, ma lei è ancora assorta nella musica, mentre il dinamismo della sua capigliatura castana m’incuriosisce e diverte. Mi viene in mente quella canzone di De Andrè sulle passanti. Lei si appresta a scendere a Cairoli, una fermata prima della mia. Non lascio che questo accada senza fermare il momento. In altri tempi lo avrei fatto mentalmente. Questione di carattere. Le sfioro lievemente la spalla destra, si volta incuriosita. La saluto e le regalo uno dei sorrisi più dolci che abbia fatto in questi anni. Ricambia. Le chiedo se non abbia il tempo di scendere alla fermata successiva e di ritornare a piedi. Ce l’ha. Ha una voce di un tono che a Milano è raro sentire, una dolcezza non troppo affettata e un acuto non troppo compiuto e tendente alla profondità. Una delle migliori chiacchierate, ancora molti sorrisi, e un racconto che prosegue verso altre trame rizomatiche.

Tamara ha la pelle scura, le labbra morbide e una silhouette molto…milanese. Ma è egiziana. Possiede una simpatia naturale, trascinante. E a ogni pausa del respiro ti guarda con i suoi occhi verdi e sembra sempre di essere lì ad aspettare che la baci. Giochi a vedere se perde la pazienza e lo fa lei. E succede. Di Mara si possono apprezzare tante cose. Anche il fatto che la incontri per caso a un aperitivo con gli amici e lei ti metta subito a tuo agio, come ti conoscesse da sempre. Anche il fatto che poi ti dice di essere una prostituta e che il primo giro te lo offre la casa. Tu dici no grazie, e la reincontri in un altro bar, a far colazione con le guance infreddolite, tremante. Non è sempre una passeggiata, ti dice e vorrebbe fare l’amore. L’amore, dice.

Guenda in realtà si chiama Fatma. Fa parte di trecento siriani in stazione. Sembra una modella, è giovanissima, con un top che le valorizza un seno molto generoso. Dice di avere diciannove anni. Sono simpaticissima e mangerei volentieri una pizza, dice sorridendo. Prende una coperta di lana e se ne fa un turbante. Quando la pizza arriva la mangia compostamente. Solo dopo scende dalla passerella e tira fuori una storia magica: ci sono minareti, cannoni, eroi di guerra,benefattori reali e benefattori fasulli. Fa una preghiera per quelli veri. Ci sono i datteri, parecchi. Poi c’è il papà che fa il meccanico e le dà i soldi. C’è una barca, c’è il mare, c’è l’attenzione e il rispetto degli amici, che si prendono cura di lei quando uno scafista prima, e poi un poliziotto a Lampedusa, e ancora uno che non era in barca con loro, e poi due siciliani e alla fine uno della polfer e un altro  milanese provano a metterle le mani addosso. Sentiamoci, dice, ma poi le consigliano di non darmi il numero. Le do il mio, ma non l’ho più sentita.

Vincenzo sta ogni giorno con delle cianfrusaglie all’angolo delle poste. Se devi capire qualcosa di Milano, i giorni che non è ubriaco, e dopo aver provato a venderti anche le mutande, può raccontatela lui, con qualche licenza. Impiegato delle poste, dice, ma il dubbio che proprio quella sia una licenza ti viene. Ha visto la gente nella vicina piazza Mezzanotte, arrivare in giacca e cravatta e andarsene con le brache calate. Lui, mai fatto distinzione: una sigaretta scroccava quando andavano e una quando tornavano. Gli piace tanto, lo fa ridere ogni volta, il dito di Cattelan all’alba, se si vede il sole, se no se lo immagina.

Marco fa il barman dalle parti della Centrale, cammina a un passo dalla velocità insostenibile. Si è fermato solo due volte quando l’ho conosciuto. Una volta per grattarsi in testa e guardarsi intorno disorientato, un’altra perché l’accendino ha fatto una fiammata che lo ha impressionato. Pensavo si fermasse una terza volta quando gli si è incastrata la lampo della giacca, ma ha risolto in corsa. Trentadue anni, una moglie diciottenne, già sedici anni di contributi. Hai sbagliato tutto nella vita mi dice, ma questo pensiero lo avevo fatto molto più velocemente di lui.

Mary va ogni giorno da Bovisio Masciago a Domodossola, una fermata prima del capolinea a Cadorna. Ha lavorato fino a settembre per Google Italia, nelle mense. Mangiano bene tutti lì, puoi inventarti un macdonalds o fare un pranzo da ristorante. Ma adesso ha un business di cui parla in inglese ogni volta con la sua amica di Bruxelles. Una volta è venuto con noi anche un signore di Glasgow. Lei, sessantenne, era scocciata per la sua presenza, un pretendente di cinquant’anni. Abbiamo chiuso la cucina, ormai, dice.

Dodi dice tre cose nel viaggio che è costretto a fare per una settimana fino a Milano. Ho fame e che vita di merda. Poi passa sei giorni a parlare con la sua fidanzata di Cesano. Ha vent’anni più di me, dice la terza volta. E svapa come un asiatico.

Quanto cazzo era più facile sfanculare i marocchini quando ti davano il grano per i piccioni in piazza Duomo, dice Carmine. Prima era allergico e lavorava per una ditta di costruzioni. Adesso è in pensione e ha molto più tempo per essere importunato. E vi si dedica volentieri.

La campanella è suonata, but I don’t want to be awake.

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