Nei dintorni di piazzale Cadorna è così. Mettiamo che Trenord ci metta uno sproposito di tempo per inviare da qualche parte le tessere degli abbonamenti. Entrate sul sito e, dopo aver compilato moduli non proprio veloci e intuitivi, se non avete dovuto ripetere nessuna operazione, vi apprestate a inserire la foto migliore che avete nei terabyte di memoria stipati nei vostri 200 hard-disk. O meglio, in previsione di una sessione di internet così complessa, la foto o ve la siete scattata sul momento (per poi scartarla perché l’aria di Milano a voi, abbrustoliti all’estate del sud, vi ha screpolato velocemente il faccino e, a prescindere, se siete a Milano avete l’aria stanca) oppure l’avete accuratamente selezionata, da quella volta in cui la rotazione dell’asse terrestre, la congiuntura lunare e le tempeste solari vi permettevano di sfoggiare un bel sorriso, in un ambiente neutro, e magari non troppo recentemente: nessuna ruga, capelli dal colore omogeneo, niente pancia. Ecco, avete fatto. Un bel click e buonanotte. Perché la tessera, che vi serve domani, arriverà tra un mese.
Così il giorno dopo, incazzati, andate a parlare con l’operatrice della compagnia, che è delle vostre parti, è più abbronzata di voi e vi guarda accondiscendente. Prima che le facciate pesare il fatto di aver pagato il biglietto secondo la tariffa intera giornaliera, vi dice che lei può solo vendere i biglietti o ricaricare tessere già esistenti. Nel giro di pochi minuti, invece, l’abbonamento che vi serve sarà immediatamente disponibile in quel gabbiotto in fondo. Ci andate, controllate, è vero.
Compilate tutti i moduli al volo, eppure erano gli stessi che su internet sembravano complicati. Vabbé mettiamoci il gap dell’effetto-apprendimento. L’impiegato ha stampato la tessera, ne annusate la plastica, fate per arraffarla e lui ve la sventola sul naso con segno di biasimo: «Eh no, signore, occorre la fotocopia dei documenti d’identità». Alle sue spalle c’è una stampante grande quanto la Morte Nera di Star Wars, lo guardate con sussiego e infine con invidia. Niente:«Serve per il back office». Non è quello il back office? Vabbè, vi dicono che proprio fuori c’è la fotocopiatrice della cartoleria.
Aspettate che il titolare prenda con molta calma il caffè con il suo bel tesserino, senza foto, da Spizzico. Foto? Non è che adesso…Sì, al rientro dal vostro impiegato preferito, quello vi fa: «Bene, ora manca solo la fototessera. Se non l’avete con voi…-Posso aggiungerla a casa?-chiedete-No, c’è una macchinetta automatica proprio a fianco alla cartoleria». Dai, su. Tutto sommato è l’inizio della giornata, il lavoro vi costringe a usare una camicia e una giacca, si può fare, non ci vuole nulla, non c’è neanche fila. Perché dovrebbe esserci la fila?
Siete dentro, avete tirato la tendina, neanche un secondo per concentravi con voi stessi: il neon che si accende è spersonalizzante. Strano per una foto in cui in sostanza si mostra la vostra persona. Ma tant’è. Poi notate che il tempo è poco, i tentativi sono solo tre e voi state avendo davvero molta difficoltà a entrare nella silhouette che delimita il fuoco della macchina. Perché? È il disagio esistenziale che affiora in momenti come questi? Il caffè a colazione vi ha dato fastidio? L’aria della metropoli fa affiorare il vostro riflusso? No, è che il seggiolino della postazione è rigidamente inarcato in avanti. Per questo motivo state per buttare via “cinque euro cinque”. In due tentativi siete finiti fuori fuoco e avete annullato il risultato. Al terzo tentativo la macchina mangerà i soldi sputando per forza fuori l’ultimo tentativo che avrete fallito.
Alla meno peggio il risultato vi vede con gli occhi a palla, nello sforzo di sostenere il vostro peso a mezza altezza simulando una comoda seduta. Insomma, comoda: sembrate seduti sul cesso nell’atto di espiare la colpa di giorni di carboidrati. E sembra anche che abbiate la chierica, perché un pezzettino della vostra zazzera è stato tagliato fuori dall’inquadratura.
È tardi e dovete andare a lavoro: va bene così. Ma il tempo libero che vi rimane, sul percorso fino al lavoro, lo impiegate a valutare le condizioni dei seggiolini di ogni macchinetta in giro per la città. Sono tutti inarcati allo stesso modo, quelli che vedete. È chiaro che si tratta di un complotto. Ma non ne avete le prove, per di più non le volete trovare, diranno che siete paranoici.
Poi una sera avete fatto tardi in giro con gli amici, tra una risata e l’altra giù fiumi di birra. Avete perso il tram che vi riporta in stazione e la metro è chiusa o non trovate l’ingresso giusto perché siete brilli. Gli amici vi hanno salutato da un bel pezzo e voi vagate, anime perse, tra una traversa e l’altra, pensando ogni volta che sia quella giusta. Scampate all’agguato di un cane che vi ha valutati come un’enorme e gustosa polpetta. Siete sudati, disperati e in preda al panico. Per di più fa pure freddo in pieno settembre. Imboccate una viuzza fetidamente illuminata.
È allora che lo vedete: dopo aver rabbrividito al suo ghigno. Quel suono che vi ha tolto l’idea che fosse un gatto a passarvi sui piedi. È una specie di folletto, di sicuro un nano. È tutto verde, ha una scarpa con le ghette e un piedone scoperto. In testa al posto del cilindro del cappello ha un panettone. È il Bagonghi! Qualche giorno prima in redazione hanno tirato fuori la storia del folletto che avrebbe dovuto rappresentare Milano a metà degli anni novanta. Subito scartato e dimenticato. Univa la Milano povera con quella ricca, la bellezza sopraffina e l’immediatezza corposa e sincera del popolino. Però brutto era brutto.
Lo inseguite e notate di aver espresso un giudizio pesante, nei suoi confronti. Per vendicarsi del giudizio di ciascuno il Bagonghi vaga nel cuore della notte tirando calcioni col suo piede nudo e dal pelo irto. Colpisce sempre i seggiolini delle macchine per le fototessere: non potete esprimere la vostra bellezza perché non sono belli coloro che escludono. Il folletto non perdona e sarà difficile fargli cambiare idea, perché è difficile che la cambiamo noi.
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