In un mondo dominato dal pressappochismo e dalla ridondanza, la chiarezza e la sensibilità potente della parola scritta e detta da Daniel Pennac suonano così confortanti da far gridare al miracolo. Un miracolo di umanità, senza dover stupire con effetti speciali o, per dirla con Raymond Carver, senza «trucchi da quattro soldi».
«Journal d’un corps» («Storia di un corpo») nella forma del romanzo edito in Italia da Feltrinelli nel 2012, ha avuto un grande successo, tanto da confermare la formula alchemica che permette ai grandi scrittori di soffiare dolcemente sul cuore dei lettori.
L’intimità, la tenerezza e la complicità raggiunte da Pennac con la sua ultima fatica si sono rivelate tali da permetterne una messa in scena convincente. Una sceneggiatura minimalista: uno scrittoio, uno schermo dai toni caldi,che riproduce la calligrafia dell’autore come su un vero diario, e lo stesso scrittore che dona ai suoi ammiratori la sua capacità di lettura, così tanto assaporata in opere come la serie di Benjamin Malaussène, che in Italia ha superato i cinque milioni di copie vendute.
In ossequio ai «diritti imprescrittibili di ogni lettore», che proprio lui ha enunciato nel suo «Come un romanzo», Pennac seleziona dal libro i momenti più «densi di energia», espressione che torna spesso nel «Journal», donando la potenza e la dolcezza della sua voce. Un incantesimo che ha tenuto in ostaggio per poco meno di due ore un Petruzzelli pieno, eccezionalmente, di giovani orecchie e di portatori sani di quello che Gianni Rodari, collega nostrano di Pennac, non meno illustre, definiva «orecchio acerbo». Un particolare anatomico che riesce a far restare un po’ bambino ogni adulto. E che ha permesso, per una sera, di assistere a una rigenerante e appunto confortante onda emotiva percepibile a occhio nudo, che ha attraversato l’emiciclo dello storico teatro tra tensione, lacrime di gioia e risate di gusto.
Aver già letto sulla pagina della scoperta di un corpo, e degli altri corpi che lo circondano come fossero un unico corpo, attraversato da gioia e dolore, ma sempre accettato con amore e curiosità per sé stesso e per gli altri, non restituisce l’esperienza di ascoltare la stessa avventura dalla voce del suo autore, e nel suo francese, per giunta, così limato e lavorato al punto da risultare naturale e diretto. Una freccia, scoccata dritta al cuore dello spettatore.
Cosa accade accettando l’invito a questo banchetto intimo? Lison, rientrata dal funerale del padre, riceve da lui un ultimo e singolare dono: il diario che ha deciso di tenere riguardo al suo corpo. E sulla storia dei corpi con cui è entrato in contatto, per le carezze, da bambino, con la tata Violette come per la passione con Mona, sua moglie, o per un semplice viaggio in autobus.
Descrivere cosa accade al corpo rende automatica l’onestà, non si può mentire: e così allo spettatore non si risparmia nulla, dalla prostatite alle flatulenze, passando per le polluzioni notturne. E alle sensazioni che scuotono la carne, come il piacere fisico, la bellezza della prima volta o presunta tale; il dolore per l’assenza ormai irrimediabile di corpi amati: il padre, la tata Violette, il nipote Grégoire.
Allo spettatore il banchetto è offerto tutto, fino in fondo, fino a quando, dal punto di vista del corpo, la morte si rivela nella sua drammatica semplicità: cessazione, assenza. Il diario s’interrompe, dopo essersi «regalato» anche la minuziosa annotazione dell’agonia, per poi semplicemente non essere più. O proseguire, forse, nel sangue e nel cuore di chi ha amato quel corpo come rappresentazione e frontiera dell’essere e dell’esistere per donare amore a una figlia.
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