Valle dell’Idro: meraviglia, mistero, memoria

Forse un luogo fondamentale per la storia e la cultura di un popolo non avrebbe bisogno di tante presentazioni. Però capita di faticare a ricordare cos’è la Valle dell’Idro, fonte di ispirazione per Antonio de Ferrariis detto il Galateo e per le scoperte del Cosimo De Giorgi. Capita, pure, che uno sforzo in più lo si debba fare per comunicare la valle ai turisti, ammaliati dal litorale idruntino e dall’eloquente impatto di Punta Palascìa, primo bacio all’oriente dal Sudest. Ma a ovest di Otranto c’è il letto del fiume che ha dato il nome alla città. La valle è un luogo di culto per gli amanti del trekking e delle escursioni in bici, con le sue salite, le cripte importanti per la storia del territorio e non solo. Il Galateo si meravigliava dell’abbondanza di acqua e dei pozzi dai quali si poteva attingere con le mani, senza usare i secchi. Sembrava di stare, scriveva, in un luogo trapiantato qui dal Peloponneso. Secoli più tardi il De Giorgi si ritrovava in una situazione diversa. La povertà estrema dei coloni e l’aria malsana facevano della zona un ricettacolo di malattie. Dovevano ancora passare diversi decenni prima che la bonifica restituisse la valle com’era ai tempi dei monaci basiliani. In fuga perenne, vuoi dagli iconoclasti bizantini, vuoi dal sacco della città, a loro si devono gran parte degli insediamenti e delle cripte che costeggiano il letto. E il grande mosaico sul pavimento della cattedrale. E il lavoro degli amanuensi di Càsole.

Oggi «La valle è splendida, ma è sporca e poco curata». Sono le parole che troppo spesso i turisti stranieri rivolgono a Salvatore Inguscio, biospeleologo con trent’anni di esperienza sul campo, che con la moglie Emanuela cura Avanguardie, un’agenzia di guide turistiche per il trekking e altre modalità di escursionismo. Sul tema si sono battuti in tanti, soprattutto il Parco Otranto-Santa Maria di Leuca e Bosco di Tricase e poi l’associazione Gnosis, che ha promosso tre settimane di convegni sul territorio con il patrocinio del Comune di Otranto, cui è stato presentato anche un progetto di riqualificazione che la presidente Eliana Masulli descrive così: «Auspichiamo un’indagine archeologica con un approccio multidisciplinare. Dal punto di vista naturalistico speriamo di poter fare una pulizia profonda della valle e recuperare i reperti storici e archeologici anche grazie a una sinergia con i contadini che la rendono sempre rigogliosa e fertile».

Aspettando una rinascita possibile, si può abbozzare un itinerario per godere della meraviglia che la valle sa esprimere. La vegetazione è magnifica, con le querce vallonee, gli alberi di fico che resistono all’edera, le orchidee spontanee, la macchia mediterranea e la formazione di rocce da studiare. E poi anche le specie sconosciute, come il gambero Gammarus niphargus salernianus che Inguscio ha scoperto nei pressi dell’acquedotto di Carlomagno. La sorgente è quasi irraggiungibile, perché si trova nell’area che tutela rare famiglie di pipistrelli, sotto l’impervio costone sul quale si erge il campo che nel 1917 servì agli aviatori inglesi per costruirvi un acquedotto parallelo a metà strada tra la Zona Artigianale e il letto dell’Idro.  

Provenendo dalla città dei martiri, una prima tappa può essere la Masseria di santa Barbara, con il muro megalitico che riporta incisioni di navi (ricorrenza che si ripete nell’omonima grotta) dalle finalità non chiare, probabilmente di avvistamento e di difesa, e con la torre colombaia, anch’essa avvolta da un velo di mistero sul suo impiego. Il mistero ricorre spesso, a Otranto, e per questo la città e la sua storia hanno ispirato numerosi capolavori. Lo troviamo anche nella Grotta della Spiga, ancora sulla sponda destra del fiume, probabilmente un simbolo spirituale inciso nella pietra. E poi il Monte Piccioniere, con le cellette scavate all’interno della roccia.

Sulla sponda opposta, non senza difficoltà, si raggiunge lo splendido Monte Lauro Vecchio. Vi si possono ammirare la già citata Grotta delle Navi e la Grotta del Turco, dove c’è una netta riproduzione di un soldato che brandisce una scimitarra. Entrambe le iscrizioni sembrano risalire all’età del Sacco di Otranto, avvenuto nel 1480. L’ultima tappa è la Selva del Turchese, che precede la meravigliosa vista dal Monte sant’Angelo, dove si trova l’omonima chiesa rupestre nella quale il De Giorgi ritrovò alcune iscrizioni votive in greco, probabilmente realizzate dai basiliani. In questo modo saranno passate tra le quattro e le sei ore e l’imbrunire invita a un ultimo bagno nell’Adriatico per ritemprarsi.

*Pubblicato da Salento Review, primavera 2017

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