Noury (Amnesty): Egitto liberi subito Patrick Zaky

Amnesty International segue da vicino la vicenda di Patrick George Zaki, arrestato venerdì 7 febbraio all’aeroporto del Cairo, appena sbarcato da Bologna, dove frequenta come ricercatore i Master GEMMA sui diritti delle donne e sulle questioni di genere, per far visita ai genitori.
Sparito per oltre 30 ore, Zaki è stato condotto nella procura della sua città natale, Mansoura, dove si trova in stato di detenzione preventiva con l’accusa di aver cospirato contro il regime di Abdel Fattah al-Sisi.
Il ventisettenne deve restare in carcere almeno fino al 22 febbraio, quando ci sarà l’udienza in seguito alla quale si apriranno tre scenari: il rinnovo della detenzione per altri quindici giorni (più volte rinnovabili) in attesa di prove ulteriori – che è la prassi più consolidata -, l’improbabile rilascio, e l’ipotesi peggiore, quella di un rinvio a giudizio diretto che in caso di condanna potrebbe portare all’ergastolo, pena che in Egitto è commutata automaticamente a 25 anni.
Le notizie che giungono dagli avvocati della Ong di cui Zaki fa parte, Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr), danno per certo che il giovane sia stato torturato nelle 30 ore in cui si è persa traccia di lui. Alcuni giornali italiani riportano inoltre la notizia che gli siano state fatte domande circa i suoi rapporti con Giulio Regeni e i genitori del ricercatore friulano, ucciso proprio quattro anni fa dopo una prolungata sofferenza e numerose torture e senza ancora una spiegazione ufficiale.
Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty, ha rilasciato un’intervista a Daily Muslim per provare a chiarire alcuni aspetti della vicenda.
«Conosco Zaki indirettamente per la sua attività, ma non di persona. Non darei troppo peso alle dichiarazioni che collegano il suo attivismo a quello di Regeni, perché un conto è qualcosa che ti viene chiesto in un regolare interrogatorio e altro è ciò che ti viene urlato in faccia per spaventarti in modalità non convenzionali. Quello che è certo è che Patrick è stato ritenuto colpevole di cospirare contro il regime per aver dato sostegno alla manifestazione in piazza voluta dal costruttore Alì, in esilio in Spagna».
Mohamed Alì, imprenditore edile, si è opposto al regime di al-Sisi ed è dovuto scappare a Barcellona, aprendo l’account su Twitter @MohamedSecrets, dal quale ha raccontato molti segreti imbarazzanti del regime e chiedendo via internet ai suoi connazionali di manifestare in piazza il proprio dissenso. Così facendo ha ottenuto una risposta tale da far vacillare il governo, il 20 settembre 2019. Ne sono seguite dure reprimende, con almeno 150 arresti nell’immediato e un’attività di spionaggio per chi ha fomentato le proteste fuori dall’Egitto.
Non è un caso se il mandato di arresto contro Zaki risale proprio allo scorso settembre, intorno al 24. E qui troviamo uno dei punti più oscuri della vicenda, come nota Noury: «Fonti istituzionali italiane mi hanno detto in maniera informale che l’Italia non ha voce in capitolo. D’altronde l’appello di Amnesty, accompagnato dall’hashtag #freepatrick qui non ha avuto alcuna risposta, e nemmeno dall’ambasciata».
Il ragazzo, però, si trovava in Italia già da fine agosto per seguire il master a Bologna. Com’è possibile che le istituzioni si giudichino fuori da questa storia?
«Anzitutto non siamo nell’Ottocento, per cui disinteressarsi ai diritti umani che non sono rispettati in Egitto come in Turchia, Brasile o Venezuela per motivi diplomatici non può più essere considerata una scusa. Nello specifico, uno studente che vive in Italia, tra l’altro con un regolare visto di studio per il suo ruolo di ricercatore, dovrebbe essere tutelato dal dispositivo che gli inglesi definiscono ‘duty of care’, letteralmente un dovere di protezione».
Ma se il mandato di arresto è stato spiccato a settembre inoltrato, a insaputa del ragazzo e della sua famiglia, com’è stata monitorata la sua presunta attività sovversiva, sia online che offline? «Non ho prove, ma preoccupazioni sulle analogie con il comportamento del Cairo in altre vicende che coinvolgono egiziani della diaspora e lo stesso Ali, come documentato negli ultimi anni anche da giornali italiani».

Ci fosse l’interesse della politica nostrana a tutelare questa situazione sarebbe necessario fare luce su queste modalità, ma l’ottimismo sembra essere smorzato anche da quanto hanno dichiarato i genitori di Giulio Regeni circa gli affari che il governo italiano sta conducendo con gli egiziani. Nello specifico si parla di affari complessivi intorno ai nove miliardi per fornire mezzi militari a un paese che appoggia il generale Haftar in Libia, cioè colui che si oppone al governo di Sarraji, ufficialmente sostenuto dall’Ue, Italia compresa.
«Al di là della specifica situazione, è innegabile che Italia ed Egitto intrattengano da sempre ottimi rapporti bilaterali, per cui quando mi sento dire che è un momento poco opportuno per mettersi di punta, posso obiettare che c’è sempre qualche legittimo affare in ballo, ma questo non può mettere in secondo piano il rispetto dei diritti umani».
Intanto sul caso si sono accesi anche i riflettori del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), l’organismo che gestisce le relazioni diplomatiche dell’Ue con altri Paesi al di fuori dell’Unione: «Le dichiarazioni di attenzione sono ben accette – commenta Noury -, ma sia dall’Italia che dall’Unione Europea mi aspetto una presenza fisica quantomeno all’udienza del 22 febbraio, affinché si tutelino le garanzie procedurali per il ragazzo».
Noury rimarca, inoltre, un giudizio complessivo sulla fase politica attraversata dal Delta del Nilo: «Zaki fa parte della generazione di ricercatori, pensatori, imprenditori e poi anche attivisti che cercano di aprire un dibattito sulla società e la politica egiziana e il loro Paese non si apre al pluralismo, sacrificando quelle che sono le personalità migliori e pregiudicando di conseguenza il suo futuro».

*Articolo pubblicato da Daily Mulsim

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