WikiLeaks e la teoria del Caos

  pubblicato il 12 dicembre 2011 su duea.splinder.com

Un nuovo concetto di cittadinanza?
Esperti dei media e il caso Wikileaks: commedia delle maschere e connivenze con l’Ancien Régime mediatico, verso un nuovo paradigma?
Il problema serio di queste storie è sempre l’inerzia.
Che Wikileaks stesse facendo un trambusto colossale lo si sapeva ormai da circa tre anni.  Il mondo non è venuto giù.
Eppure con il Cablegate abbiamo ascoltato di tutto. Si è parlato addirittura di un’epocale destabilizzazione dei rapporti diplomatici sull’intero globo. Che sarebbe come dire che l’Italia dovrebbe venire giù a ogni inchiesta di Report o a ogni battuta di Berlusconi.
All’edizione appena conclusa del Public Camp 2010 non si è affrontato questo argomento in un seminario a sé, ma la questione ha tenuto banco in molti interventi, come si converrebbe a un convegno di comunicatori. Ho ascoltato Derrick De Kerckhove definire Wikileaks “la nuova commedia”, contrapposta alla tragedia di Ground Zero, come l’ascesa e la caduta mid-term di Obama. Stefano Cristante, che discuteva con il prof canadese, ha tirato fuori la teoria delle maschere di Goffman e Carlo Formenti ha chiuso il cerchio in maniera più esplicita leggendo il network come una lobby di altri poteri, non di contropoteri. I controllati restano sempre i cittadini boccaloni, nessuno dal basso gestisce niente, figurarsi la Rete.
Solo Nichi Vendola in quell’occasione si è dimostrato del tutto convinto del lavoro di Assange&Co.: lui, che negli anni Settanta è vissuto con l’idea di un Grande Fratello che dalle stanze del potere calava il suo occhio nella vita degli oppressi cittadini, ha potuto tirare un sospiro di sollievo vedendo che questo occhio è reversibile.
Ma alla fiera dello “sputtanamento” nessuno è democraticamente propenso a partecipare.
Ecco che mentre il giornalista Rai Pino Bruno propone un inquietante parallelo tra la vicenda Assange/Wikileaks e il capolavoro di Stieg Larsson, la trilogia tessuta intorno alla testata “Millennium”, al Tg3 Linea Notte Vittorio Zucconi insiste sull’oscurità dei finanziamenti percepiti dal network, e su Facebook Carlo Gubitosa fa notare che se certe informazioni non restassero clandestine, assisteremmo a una normalizzazione non rivoluzionaraia di Wikileaks.
Stefano Rodotà
plaude alla creazione di un nuovo paradigma per il potere digitale, non senza scandagliare le azioni del network, e fa notare come l’Ancien Régime mediatico sia andato comunque di pari passo con la diffusione dei cablogrammi, impedendo una vera e propria destabilizzazione che avrebbe certamente mietuto vittime:”Pure le rivoluzioni, lo sappiamo, hanno bisogno di una certa continuità”.
Intanto accadono cose concrete che non sono poste molto in risalto dalla stampa tradizionale: alcuni paesi liberalizzano un certo tipo di informazione, qualcun altro studia programmi più blindati. Solo in Italia il ministro degli Esteri si permette di fare intimidazione pubblica, diffidando i media dal commentare i cables, e prontamente i “cani da guardia del potere” hanno eseguito.

In attesa delle rivelazioni (edulcorate?) sulla Federal Reserve, le cui quotazioni hanno subito intanto un vertiginoso tracollo, Assange viene arrestato con procedimenti da farsa colossale. Ma tutto questo fa parte di una possibile rivoluzione soffocata: il sistema informativo, la diplomazia degli stati e l’intelligence hanno unghie bene affilate. Risulta però difficile credere che l’interesse ultimo delle fondazioni che finanziano Wikileaks, proprio quelle criptate dalla Wau Holland Foundation, blindata dalle leggi tedesche, sia di liberare le menti ed estendere i diritti grazie all’informazione. Perché diversamente la rivoluzione sarebbe di rottura, e forse fallirebbe miseramente.
La possibilità di mettere in scacco gli stati è una prodigiosa prova di forza da parte di una lobby di corporation che mostrano di poter avere un forte tornaconto da uno stato potenziale di disordine mondiale.
Un po’ come certi aerei nel 2001.
Sarebbe forse più produttivo investire e credere in un giornalismo di servizio che faccia un paziente lavoro, sostenuto dai cittadini, come può essere quello di ProPublica, premio Pulitzer 2010, perché l’alternativa sembra troppo vicina alla profezia del film “Network-Quinto potere”: stati dissolti in corporation, cittadini trasformati in sudditi il cui unico diritto è quello di consumare e di consumarsi.Per evitare questo sbilanciamento falsamente rivoluzionario occorrerebbe una vera rivoluzione: bisognerebbe che i fruitori del flusso informativo si mangino Wikileaks, che lo comprendano, che lo costringano a “trattare” informazione con loro, che rendano umano ciò che le relazioni internazionali, i media tradizionali, il mercato hanno volutamente allontanato, che gli e-citizens in primis e i giornalisti stessi, quelli che un tantino di deontologia ce l’hanno ancora (non quella deontologia spacciata per tale che è in realtà un guinzaglio) contribuiscano al battito d’ali della farfalla che regge la teoretica del caos. E che tutti prendano parte al nuovo paradigma che ne dovrà scaturire.

150 occasioni di farsi stato

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Pubblicato su DueA martedì 15 marzo 2011

Ma io non conto, eravamo tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava; la lotta dovevamo cominciarla quando ne uscimmo. Noi, dolce parola. Noi credevamo… (Anna Banti, Noi credevamo, Mondadori 1967)Il link è alla scena finale di “Noi credevamo”,  adattamento cinematografico del libro di Anna Banti per la regia di Mario Martone (2010).

Quello che poteva essere e non è Stato, per le colpe diffuse che ormai ci portiamo dietro da un secolo e mezzo.
Ho riportato la frase conclusiva del romanzo di Anna Banti, ripresa per intero dal film apocrifo Noi credevamo di Mario Martone, che se ne è discostato tantissimo, ma che ha mantenuto intatta la forza dirompente del discorso conclusivo.
Ho scelto proprio quel libro perché, come scrisse Enzo Siciliano su “L’Espresso” del 23 aprile ’67, qui si legge con sanguigna tensione un “Risorgimento raccontato con rabbia”.
E la rabbia, l’inquietudine, l’incertezza sembrano essere state le tremende compagne di viaggio di un percorso unitario sbagliato. Perché lontano dal popolo, che pure con tattiche differenti, come rimugina il protagonista del libro Domenico, avrebbero potuto essere al seguito della causa, quella giusta, quella garibaldina e repubblicana.
E invece fu guerra civile, la più odiosa possibile, che arrivò a far dire a Garibaldi di voler maledire il suo sbarco, perché fu sinonimo di carneficina, trasformò il re borbone Franceschiello in un martire e Murat nell’ultimo eroe romantico di cappa e spada.
E poi i briganti: un capomafia in carcere dice a Domenico che i garibaldini avrebbero dovuto affidarsi alla loro rispettabilità per coinvolgere la gente del Sud. Parole verissime, ma pericolose altrettanto.
In tutto questo spariglia e vince il bottino l’invasore VIttorio Emanuele, che con una grande Anschluss conquista l’Italia, fa voltare un attimo Napoleone III, prende Roma e…diventa il re di Sardegna con appendice italiana.
Una radice malpiantata, malnata eppure ormai nel terreno. Ma a quale costo?
E che cosa è possibile festeggiare oggi?
Forse, l’italianità d’averla fatta franca, dal monarchismo poco illuminato dei Savoia, dagli scherani neri del Ventennio, dalla minaccia comunista, dagli anni di piombo? Ma stiamo sicuri che in qualche modo ci saremmo arrangiati, adattati infine.
E allora, in barba ai mala tempora che corrono, questo vuole essere un omaggio a gente come Giovanni Falcone da Palermo, per esempio, e a tutti quelli che hanno creduto in qualche modo nella possibilità di un gioco democratico, pulito. In un posto felice che potesse avere nome Italia e vantarsi di essere uno Stato formato da un’idea.
E un pensiero al futuro, in cui spero che possano cadere responsabilmente tutte le bandiere, fuori dai regionalismi pseudoidentitari che non portano da nessuna parte.

La peggio gioventù*

pubblicato su duea.splinder.com il 15 novembre 2010
Nel suo “Manifesto per un nuovo teatro”, Pier Paolo Pasolini proponeva di far godere gratuitamente gli spettacoli ai fascisti al di sotto dei 25 anni. Sai mai che li ripigli.

La vicenda umana di Ezra Pound, prima ancora che del suo vitalismo poetico, e l’esperienza futurista, paradigmatica, violenta, inaspettata. Italiana. Questi sono i riferimenti culturali di Casa Pound Italia. E poi c’è la vita del Cutty Sark pub di Roma, ritrovo dei giovani della destra, e l’esperienza musicale degli Zetazeroalfa, il primo gruppo musicale non di sinistra ad aver suonato in un carcere, che con la sua “cinghiamattanza” non rappresenta certo un inno all’amore universale. Il loro leader, Gianluca Iannone, è anche presidente dell’associazione che su Wikipedia è definita senza smentita come “neofascista” e tra i punti del suo programma enuncia la realizzazione di uno stato etico, che nella storia è stato sinonimo di “totalitario” perché pensa al posto dei suoi cittadini, e di un’Europa autarchica.

Sul sito nazionale fa bella mostra di sé la citazione scelta dal gruppo di Lecce, una frase del soldato

Rasczak, tra i protagonisti di “Fanteria dello spazio”, pietra miliare di un genere che funziona soprattutto al cinema, quello spazialmilitaresco: “Una cosa regalata non ha alcun valore. Ma quando votate, esercitate un’autorità politica, una forza. E la forza è violenza, l’autorità suprema da cui deriva ogni altra autorità”.

La vita come lotta, inni alla violenza, virile goliardia.

Iannone, con le sue provocazioni a mezzo stampa si è anche costruito un’aura epica tra i suoi amici e i suoi nemici. Personalmente ricordo la proposta di sostituire l’ora di religione con quella di mistica fascista. O l’allegria perché “l’italietta democristiana” (anacronismo voluto, per il 2011?) ha scelto di rappresentare “Bella Ciao” nella sua più alta manifestazione “popolare” (con prime file e biglietti esorbitanti): Sanremo. Ecco a cosa è ridotto l’inno della resistenza, simbolo di una scelta e di un sacrificio che, malgrado sforzi revisionistici molto potenti, mai sarà possibile assimilare alle scelte di Mussolini e dei repubblichini.

Ma su queste cose gli associati di Casa Pound non potranno che farsi quattro risate.

Sebbene sia comprensibile evitare di avere a che fare con chi porta avanti idee e valori di questo genere, allo stesso modo in cui i comunisti, nonviolenti, terzomondisti, altromondisti e pacifisti mettono comunque paura, come tutti quelli che in Italia compiono scelte nette, voglio portare alcune riflessioni alla stessa sinistra.

Le dichiarazioni di Iannone su “Bella Ciao” hanno un taglio ben preciso. Il titolo del pezzo in cui argomenta prosaicamente è:”Bella ciao? Brano adatto a italietta che delocalizza”. Della visione dell’italietta abbiamo detto. La riflessione è sulla delocalizzazione, dalla Fiat a Lecce:”Quanto a Gianni Morandi-scrive Iannone-, potrebbe festeggiare devolvendo il suo compenso e quello dei cosiddetti vip ai 420 operai delocalizzati della Bat di Lecce: questa sì sarebbe vera rivoluzione e continuità ideale col Risorgimento, altro che teatrini e burattini”.

Sulla bufera leccese ho letto solo dichiarazioni poco convincenti. Mi ha colpito solo un comunicato di Saverio Congedo, che rimprovera il Pd (le Fabbriche di Nichi era scontato che protestassero e da “certa” sinistra non ci si può aspettare nient’altro, nevvero sonnacchiosi leccesi?): quando persino l’oscurantista Birmania libera la San Suu Kyi, il centrosinistra leccese fa una cosa anacronistica che riporta il clima agli anni Settanta. E ricorda dell’appello firmato a maggio 2010 da Sansonetti, Colombo e “Gli Altri”: “Manifestare è un diritto. Anche per il Blocco. Da Sansonetti a Colombo, l’appello della sinistra”, che così scrivevano: “Il diritto di manifestare liberamente e pacificamente è una pietra angolare della democrazia: deve essere difeso e garantito sempre, indipendentemente dal giudizio che si dà sui contenuti o sui promotori delle singole manifestazioni. Pertanto riteniamo grave e ingiustificato l’aver vietato il corteo del Blocco studentesco del 7 maggio, nonostante la distanza che ci separa da quella organizzazione e chiediamo che quel divieto venga tempestivamente revocato”.

Questa cosa è stata maldigerita da tutti, anche per via della violenza sui manifestanti di sinistra a opera di alcuni esponenti di Casa Pound. Sansonetti è stato accusato di seguire interessi editoriali e, in sostanza, di essere un “rafaniello”,per usare il gergo dei 99 Posse, uno rosso fuori e bianco dentro.

La mia domanda è: ma la sinistra le ha trovate le famose “nuove parole”?
Come l’intervento di Sansonetti & Co. dimostra, c’è scarsa compattezza nelle opinioni. Forse è meglio così. Però leghisti, fascisti, futuristi, tutti riescono a parlare agli operai. Tutti tornano in piazza a parlare alla gente, a “educare” i giovani con la scuola allo sfascio e le famiglie implose.

Le Fabbriche non rischiano di farsi ghetto? Si può smettere di nascondersi dietro la panacea dell’incostituzionalità dell’apologia del fascismo e affrontare questa gente sul piano dei contenuti, della cultura, del lessico, del metodo? L’incostituzionalità è una cosa gravissima, ma abbiamo visto quanto sia stato difficile impedire che si ritornasse a parlare di fascismo a più di mezzo secolo dalla sua caduta. E poi, loro lo dichiarano apertamente di essere fascisti, mentre molti esponenti politici di primo piano agiscono subdolamente e con opportunismo: è l’esempio del regalone che il ministro della Gioventù Giorgia Meloni stava per fare proprio a Casa Pound quest’estate, il finanziamento ai suoi circoli, bloccato per un pelo con tanto di botte al deputato Idv Francesco Barbato. E poi la “Festa del Popolo di Roma”, che sancisce il connubio di aspiranti e nostalgici fascisti del Pdl e dei circoli della nuova Italia.

Un modo di fare critica, a mio avviso, che arriva a tutti, senza barbe e in modo anche convincente potrebbe essere quello delle pesantissime metafore a fumetti di Alessio Spataro, che proprio la Meloni ha preso di mira con la sua “Ministronza”, o le invenzioni del programma web Tolleranza Zoro, che rappresenta invece un modo per portare argomenti a sinistra: magistrale la puntata in cui Zoro va fisicamente incontro al Paese, una cosa impensabile col Pd che ci si ritrovava. Cattivo gusto o critica di costume, e informazione?

Di sicuro si eviterebbe il grottesco “anacronismo”, sotto il quale gli ingenerosi quotidiani hanno fatto passare la manifestazione del 13 novembre, superando del tutto il nodo della questione, portato avanti dal Pd e da Sel, quello, appunto, del divieto costituzionale. Dialogare con queste realtà significa soltanto legittimarle? E poi, una Costituzione che sancisce la libertà di pensiero e di manifestazione può impedire che un pensiero torni a circolare o si ammanti di modernità? Cos’è stato da sempre con il Msi?  Se Sansonetti, Colombo, ma anche Michele Placido e altri hanno ritenuto di confrontarvisi, sono da ritenere dei pericolosi avanguardisti che sbagliano strategia o dai loro comportamenti possiamo apprendere qualcosa?
È vero anche in politica, o meglio tra gli elettori, che poli opposti si attraggono. Sarà forse questo l’intimo terrore della sinistra di schiacciare ogni manifestazione cromatica cupa invece di lasciarla crogiolare nella sua utopia?

Io credo che difficilmente ignorare o sciogliere queste realtà possa portare a risultati positivi. Anzitutto perché, per una mera questione di sicurezza e individuabilità, è meglio che siano in un gruppo definito. E poi perché la società italiana saprebbe accogliere le loro istanze migliori solo se queste concorressero al bene comune. Se così accadesse, sarebbe chiaro a tutti che tali istanze potrebbero essere raggiunte senza diffondere una cultura della violenza, della quale i neofascisti purtroppo non sono gli unici propalatori. Sarebbero anche uno stimolo al governo per la realizzazione di una “buona politica”, perché possa vedere apertamente in che modo può soccombere una nazione che ha avuto in seno importanti costruttori di pace, che bisognerebbe tornare a studiare. Prima di avvincere i giovani a slogan putrescenti.

  *La Peggio Gioventù è il nome di un altro gruppo musicale legato agli ambienti dell’estrema destra italiana

Gli italiani

“sono radicalmente cambiati, i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali ma sono i valori dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernista di tipo americano. L’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, al suo posto c’è un vuoto che aspetta di essere colmato da una completa borghesizzazione americaneggiante falsamente tollerante”   
Pier Paolo Pasolini _10 giugno 1974 .”Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia”_in Scritti corsari_Garzanti

All’indomani del referendum che respingeva l’abrogazione della legge sul divorzio, primo gradino di una rivoluzione mica tanto silenziosa dei costumi italiani che di lì a poco sarebbero approdati all’aborto volontario, Pasolini realizzava l’ennesima pagina corsara, ancora estremamente attuale, a più di trent’anni dalla sua formulazione: tra i pochi intellettuali di sinistra schierati contro quel cambiamento epocale, ebbe l’onestà di leggere nel modo più sensato quel risultato che il Pc interpretava come una grande vittoria dell’ideologia di partito sul clericalismo della Dc fanfaniana.

I valori degli italiani stavano decisamente sfumando nel riflusso, ripiegandosi sull’edonismo consumista.
L’idea dell’estensione del benessere, dunque dei diritti personali, stava assomigliando sempre più ad un tritacarne relativista. Relativista nel modo meno intelligente, portando in seno la dissoluta  “libertà del sé”, che altro non è che  l’asservimento  al feticcio, l’affronto diretto del tabù, che genera superficiali conclusioni.
Così ora il divorzio è doveroso, guai se no, e  la 194 è necessaria, è una pietra miliare dell’emanicpazione.
Emancipazione di una società da sé stessa.
E guai se così non fosse, perché dinamiche complesse all’orizzonte designano la sua eventuale abrogazione come una china dalla quale non si risalirebbe più.
Giusto difenderla, dunque.

Perché ancora una volta la strumentalizzazione è politica, ammicca al Vaticano che governerà con Veltrusconi, mira ad ottenere i consensi di una lobby sempre più radicale e potente.
Non se ne discute nemmeno di tarare la bilancia del dibattito su qualcosa lontanamente simile a quanto scritto da Pasolini 34 anni fa.
Come dire: ormai al largo, si resti a galla.

Andrea Aufieri,
mercoledì 26 marzo 2008 9.56

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