Le lacrime di Bellanova non lavano le nostre coscienze sull’immigrazione

Le lacrime della ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova, lavano bene la coscienza di un’Italia che ha messo solo una pezza temporanea a una situazione vergognosa e tornerà presto a sprofondare nei suoi soliti problemi riguardo alle politiche migratorie.

Perché? Sebbene il lavoro del governo sulla regolarizzazione  e l’emersione del lavoro nero sia uno dei migliori momenti della legislatura, realizzato peraltro in contrasto con le opinioni dei “soci di maggioranza” dell’esecutivo, vedi Vito Crimi e i Cinquestelle, il nocciolo della questione sta proprio nella frase che ha suscitato la commozione nella ministra che la pronunciava:  «gli invisibili saranno meno invisibili». Tradotto: gli immigrati in Italia restano braccia e non persone, e soltanto, a quanto sembra, se si tratta di agricoltori, colf, badanti, baby-sitter. Che non diventeranno cittadini e cittadine, con i diritti che ne conseguirebbero, e che potranno godere temporaneamente di alcuni di questi diritti solo se sono impiegati o se sono in cerca di lavoro, per un tempo limitato dai tre ai sei mesi.

Che succede quando i “riflettori” della regolarizzazione e della sanatoria sono spenti? I migranti non avrebbero titolo per restare sul territorio nazionale. Ma ci rimangono, perché dove altro potrebbero andare? E perché comunque le risorse e la filiera per mandarli altrove è inceppata tanto per ragioni economiche, logistiche e politiche interne che per motivi esterni.

Quella che resta sempre ben visibile e chiarissima è la propaganda. Basti considerare le parole di Salvini e Meloni, che non presentano nemmeno un minuto di rispetto per le lacrime di Bellanova, da campioni del benaltrismo quali essi sono. Si regolarizzano (temporaneamente) circa duecentomila migranti, ma le famiglie italiane continuano a piangere. Argomento discutibilissimo, dato che le misure economiche, e persino quelle sociali, prendono in considerazione gli italiani solo in quanto parte di nuclei famigliari, a quanto sembra.

È chiaro che in tale contesto questa sanatoria striminzita è accolta trionfalmente, ma solo se i limiti sono quelli del sovranismo ottuso. Altrettanto si dovrebbe dire di fronte alle critiche dei liberisti di Forza Italia, come si capisce dal commento eloquente della capogruppo alla Camera, Mariastella Gelmini, che si oppone «a mini o maxi sanatorie, a tempo determinato o indeterminato per i migranti. L’agricoltura non si aiuta con la regolarizzazione degli stranieri, ma con i voucher, con contratti flessibili, con risorse a fondo perduto per le aziende in difficoltà».

Insomma, non è un problema di diritti e di persone, ma solo e sempre un problema economico, anche in mezzo alla tragedia. Soprattutto in mezzo alla tragedia.

*Pubblicato da Daily Muslim

La guerra del petrolio tra Russia e Arabia Saudita

Continua la battaglia dei prezzi al ribasso sui bidoni di petrolio tra i più grandi produttori rimasti al mondo, Russia e Arabia Saudita.

L’ultima mossa di Riad è stata quella di aumentare il più possibile la produzione di petrolio in modo da ribassarne i costi e mettere in crisi i mercati, già in ginocchio per gli effetti del CoVid-19.

Non potevano restare indifferenti gli Stati Uniti, a questo punto, dato che il prezzo al barile è sceso al minimo storico dal 1991, anno della prima Guerra del Golfo, più basso del prezzo shock toccato all’indomani dell’11 settembre 2001 e del crollo della Lehman Brothers: 30 dollari al barile.

Insomma, una situazione di rischio mondiale che si palesa quando l’offerta supera di gran lunga la domanda, con l’avanzata delle fonti alternative, ma soprattutto con l’inutilizzo di grandi consumatori come gli aerei, che restano a terra per la chiusura degli aeroporti.

Questa situazione ha decretato di fatto il fallimento del vertice della scorsa settimana dell’Opec Plus (composto dai membri Opec più gli 11 paesi esterni al cartello) a Vienna. In questa sede, Mosca si è rifiutata di avallare il maxi-taglio complessivo di 1,5 milioni di barili al giorno che le era stato chiesto come sacrifico per risolvere la situazione.

La risposta dell’Aramco, la compagnia nazionale saudita di idrocarburi, è stata quella che ha determinato la situazione attuale: un incredibile ribasso dei prezzi sulle forniture di greggio.

Con uno dei suoi proverbiali tweet, è intervenuto Trump a fare la voce grossa: “L’Arabia Saudita e la Russia stanno discutendo sul prezzo e sul flusso di petrolio. Questa, insieme alle fake news, sono la ragione del crollo dei mercati”. In effetti “il cadavere squisito” di questi giochi al ribasso potrebbe proprio essere il potere economico delle compagnie petrolifere nordamericane, ma intanto tutto il mercato è in fibrillazione.

Secondo un’analisi dell’Ispi, il braccio di ferro tra le due potenze petrolifere potrebbe favorire Mosca, che “sembra nella posizione migliore per superare la tempesta. Mosca ha bisogno di un prezzo di 42 dollari al barile per far quadrare il proprio bilancio, mentre l’Arabia Saudita ha bisogno che i prezzi superino almeno il doppio di tale importo”. A questo vanno aggiunte le più ampie riserve di valuta estera di Mosca rispetto a Riad, costringendola nel medio-lungo periodo a non poter sostenere i costi di produzione.

*Pubblicato su Daily Muslim

C’è ancora chi crede alla bufala della Salentoterapia

LECCE – Come una frisa lasciata troppo tempo in acqua, così anche la «notizia» della pseudoscienza «salentoterapia» perde di sapore. Puntuale, dal 2009 a oggi, infatti, ritorna una bufala che è ormai divenuta di culto. Il fatto è che guide turistiche on line, quotidiani e newsletter di professionisti naturopati continuano a rilanciare il comunicato stampa firmato Repubblica Salentina.

La start-up avviata dagli allievi dell’istituto tecnico superiore «O. G. Costa» si è resa protagonista virale di una significativa operazione di marketing territoriale. Così comincia il comunicato diffuso ormai dappertutto: «Alcuni illustri scienziati» della fantomatica «Università teulandese di Dorckenstein» avrebbero condotto uno studio su un campione di 5250 turisti, fantomatici anch’essi, che avrebbero trascorso un periodo di vacanza nel Salento in ogni stagione dell’anno. Nel 98,8 per cento dei casi sarebbe dunque emerso che l’influsso di sapori, odori e colori salentini avrebbero influssi così benefici e particolari da giustificare una specifica cura naturale, la «Salentoterapia».

Il comunicato era in realtà il tesaser per pubblicizzare un opuscolo di Repubblica Salentina che illustra dodici modi per scoprire e assaporare le meraviglie del tacco d’Italia: i massaggi, l’arte, i profumi, i colori, la pizzica, il sole, la bellezza fotografica, il relax e l’acqua cristallina dallo Ionio all’Adriatico. Realtà tutte da scoprire e vivere con intensità. Ognuno di questi punti rappresenta un capitolo del libro con tanto di corredo fotografico e pubblicità turistica. Complimenti ai ragazzi di Repubblica Salentina, ma anche una sveglia per chi ancora pretende di «vendere» il Salento usando la presunta credibilità di uno studio scientifico.

Il Sole (24 Ore) scioglie la crisi?

I dati dell’associazione Accertamenti diffusione stampa, Ads, sono eloquenti: il quotidiano on line più letto a gennaio 2013 è stato Il Sole 24 ore, con più di 46mila copie vendute. Roberto Napoletano, direttore del quotidiano di Confindustria, ha analizzato il successo del giornale all’ateneo barese. In controtendenza perfino con il titolo dell’incontro, «Il giornalismo al tempo della crisi», sebbene questo fosse ispirato al libro «Promemoria italiano», raccolta dei memorandum domenicali del giornalista di La Spezia.

La discussione, a tratti davvero appassionata, non ha potuto certo fugare i dubbi sul futuro della stampa in Italia. E non sono poche le obiezioni accoglibili sulla possibilità reale che un quotidiano, finanziato dalla grande industria privata, possa restare sempre fedele alla visione classica del giornalismo come cane da guardia della democrazia.

Il Sole prosciuga la crisi. L’introduzione di Giuseppe De Tomaso, direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, ha permesso a Napoletano di ricordare un periodo importante della sua carriera. La Gazzetta dell’allora direttore Lino Patruno lo ha chiamato a collaborare quando, nonostante le importanti inchieste realizzate per Il Mattino, si è ritrovato disoccupato. Una posizione che gli ha fatto imparare cosa significhi essere una specie di appestato, perché intorno a lui si è fatto il deserto. Da cui è uscito bluffando, perché apparire forte, nel suo caso, lo ha aiutato a convincersene e a indurre gli altri a pensarlo.
L’approdo al Sole gli ha fatto invece capire come un giornale può costruirsi un avvenire solido. In questo modo Napoletano ha compiuto uno slalom sull’argomento della crisi del giornalismo. «Contro la crisi – esclama perentorio -, occorre offrire informazione tecnica, specialistica e autorevole!». È l’elogio della specializzazione: cronisti e analisti che da trent’anni scrivono su argomenti specifici rappresentano una sicurezza in termini di affidabilità, e ciò ha permesso al quotidiano di rinnovarsi puntando sempre sul suo passato. «Questo è un fatto riscontrabile subito sul sito – spiega – perché nella correlazione degli articoli a un determinato fatto, è possibile ricostruirne la storia senza contorno, senza le chiacchiere». D’altronde, il faro intorno al quale si muove la sua esperienza lavorativa, è «l’ancoraggio fortissimo al giornalismo comparativo compilativo, quanto mai documentato, correndo anche il rischio di sbagliare, tornando allora a studiare e documentarsi».

«FATE PRESTO». Ha titolato così in apertura il Sole il 10 novembre 2011. Un titolo a caratteri cubitali insolito per il quotidiano economico. Preso in prestito dal celebre: «FATE PRESTO per salvare chi è ancora vivo, per aiutare chi non ha più nulla», che il 23 novembre 1980 Roberto Ciuni del Mattino di Napoli titolava a tre giorni dal terremoto in Irpinia.
Cos’è successo? Gli analisti del quotidiano hanno riscontrato, sempre ancorati a quello che il direttore ha chiamato «semplice rigore algebrico», che i titoli di Stato a brevissima scadenza hanno cominciato a essere scambiati sul mercato secondario a un valore superiore di quelli a lungo termine. E che lo spread Btb-Bund è arrivato a 550 punti.
In parole semplici, la credibilità dello Stato italiano stava scomparendo in un grosso buco finanziario. Quindi la riflessione che ha portato a chiedere un governo tecnico con una credibilità internazionale e, poi, la pubblicazione del libro.
Perché il rischio corso è stato rimosso solo per il fatto che il governo Monti è riuscito a modificare le cose.
Contro la proverbiale memoria corta degli italiani, il memorandum:«Memorandum è un pro-memoria, per aiutare la buona memoria. Nessun paese ha un futuro se non conosce la propria storia».

La domanda. Il libro ripercorre la storia italiana, attraverso l’esempio e la testimonianza di «uomini di Stato e uomini del fare».
Essi rappresentano il lato luminoso di un’Italia produttiva e ne sono il faro che dovrebbe alimentare i valori da rimettere al centro per riprendere la buona strada. Alcuni nomi su tutti: Donato Menichella, Gabriele Pescatore, Giuseppe Di Vittorio, Angelo Costa, Ezio Vanoni. Erano i tempi della ricostruzione umana, civile e industriale del Paese, e l’Economist poteva scrivere della «lepre della Cassa del Mezzogiorno», che poteva fare del Sud quello che la Germania ha fatto poi con l’Est, dopo la riunificazione. Non è stato così.
Bisogna riprendere da dove è stato lasciato il discorso, ma con uno sguardo glocale sulle cose. Riprendere il discorso sulla cultura, sul lavoro, sulla cultura del lavoro e sull’indice di esportazione della cultura.
La chiusura del direttore è un tiro a effetto:«Sono solo “noccioline vergognose” gli sprechi della politica e i suoi costi, sui quali ci scagliamo con l’onda dell’antipolitica. Valutiamo invece l’esplosione della spesa pubblica italiana, senza che questo possa aver portato benefici». Napoletano si riferisce all’aumento in pochi anni di più del 50 per cento della tassazione regionale, che non è coincisa con una diminuzione delle tasse a livello centrale. Queste sono aumentate, anzi, del 30 per cento. Il risultato del pallottoliere segna una cifra impressionante: 150 miliardi di euro di tasse destinate alla spesa pubblica produttiva.
Dove sono andati a finire questi soldi? Prima che l’effetto della chiusura porti il pallone in curva, e dunque provando a centrare lo specchio della porta con una deviazione opportuna, si può girare la stessa domanda al quotidiano economico. Il Sole 24 ore monitora attentamente l’andamento dell’economia italiana, fungendo quasi da osservatorio privilegiato della spesa pubblica e privata, degli investimenti e della finanza.
Dunque, secondo la massima alla base del giornalismo: «follow the money!» sembra quasi obbligatorio chiedere dove è più opportuno volgere lo sguardo.
Contattato tre volte per email in sei giorni, il direttore ha risposto chiedendo di rinviare la risposta per via degli attuali «giorni duri», politicamente ed economicamente parlando. Riceverà altri promemoria.

Aeroporti, Acierno eredita le ali di Puglia

Un cambio nella torre di controllo della società Aeroporti di Puglia. A guidarla sarà il quarantaquattrenne Giuseppe Acierno, che ha accettato

Giuseppe Acierno
Giuseppe Acierno

formalmente l’incarico di amministratore unico proposto da Nichi Vendola. Il 25 marzo, nel corso di una vivace assemblea dei soci, il presidente della Regione ha auspicato «una società di volo e una società d’industria». Pronta la risposta del brindisino, che è anche direttore del distretto aerospaziale:«Lavorerò alacremente e sarò giudicato per i risultati che otterrò». Il nuovo amministratore percepirà uno stipendio di 120mila euro lordi l’anno, più altri 30mila se saranno raggiunti gli obiettivi strategici.

E in quanto a prospettiva, Adp vola alto. La Regione punta alla privatizzazione. Un socio industriale potrà arrivare migliorando i numeri già competitivi del bilancio 2012, approvato dall’ultima assemblea. Più di un milione di utili (1.015.676), il 10 per cento in più del 2011. E un incremento di traffico dello 0,72 per cento. Un numero che aumenta di valore se accostato alla media nazionale, in passivo dell’1,3 per cento. Il dato si può esprimere anche nella cifra dei quasi sei milioni di passeggeri che quest’anno sono transitati dagli scali delle quattro sedi aeroportuali della regione (Bari, Brindisi, Foggia e Taranto).

Dalla gestione Acierno ci si aspetta un mucchio di altre cose. Maggior collegamento con il distretto aerospaziale del territorio, cui farebbero comodo l’ampliamento del aeroporto di Bari e la realizzazione del collegamento shuttle di Brindisi. E ancora, l’ampliamento dell’aeroporto industriale di Grottaglie (Taranto), e l’estensioni delle reti di collegamento con le agenzie low cost. Nella sua recente visita, il magnate di Ryan Air Michael O’Leary ha promesso investimenti. E dal 4 aprile Dolomiti, la low cost per l’Italia di Lufthansa, ha annunciato il raddoppio delle tratte per Monaco.

Agli applausi, cui si aggiungono quelli di una Finmeccanica entusiasta per la scelta, si contrappongono non poche critiche. Anzitutto per la sostituzione del manager che in dodici anni ha portato l’Adp a ottenere i risultati di cui si è detto. Domenico Di Paola ha «sbattuto la cappelliera», precisando di aver saputo della decisione ufficiale solo all’assemblea. E la legge come una contromossa al suo no alla privatizzazione. Gli esponenti del Pdl regionali, su tutti Rocco Palese, lamentano una scelta imposta senza concorso. Insomma, nella storia del trasporto aeroportuale pugliese, le turbolenze non mancano mai.

Raitano: l’economia alternativa e le profezie di Seattle

 

«Siamo disposti a pagare di più una mela biologica perché lo troviamo giusto come valore aggiunto rispetto a chi la coltiva, ma la stessa cosa non si fa per l’informazione. Peccato, perché in realtà una democrazia potrebbe fare a meno di mele biologiche, ma non di un’informazione libera». Lapidario, dissacrante, Pietro Raitano è il direttore del mensile «Altreconomia», grossi numeri per un giornale che racconta di botteghe equosolidali, scelte consapevoli ed economia per tutti, ma che non nasconde la difficoltà di fare informazione controcorrente.

Perchè «Altreconomia» è un mensile che esiste dal 1999 ed è arrivato al 146esimo numero, ha 12mila fan su Facebook e 6mila followers su Twitter e magari meriterebbe di più.

Un’informazione e un modello di gestione alternativi. È una giusta sintesi per descrivere Altreconomia?

Sì. La rivista nasce dall’esperienza di Altromercato, la principale realtà del mercato equosolidale in Italia. Altre sei realtà dell’alternativa economica italiana hanno realizzato questo progetto con l’intento di gettare una luce sulle politiche commerciali delle multinazionali e per raccontare pratiche economie solidali. Il sistema di gestione scelto è quello del consorzio di soggetti fondatori, poi allargato a 17 nel 2002. Nel 2008 il passaggio alla forma cooperativa: chiunque può essere oggi possessore di Altreconomia. Si tratta di una specie di azionariato popolare, di proprietà diffusa, caso unico in Italia, molto raro in Europa. Per scelta, la rivista non riceve finanziamenti pubblici ed è distribuita solo nelle botteghe equosolidali (250 in Italia) e opera una selezione degli inserzionisti su base etica.

Il superamento dei cliché giornalistici e dei criteri di notiziabilità, caratteristiche evidenti di Altreconomia, sono ancora possibili nell’attuale sistema editoriale?

Abbiamo compiuto una scelta difficile: parlare di economia a chi non la intende e non è appassionato, fornendo una lettura economica dei fatti e insieme una chiave di lettura della vita. Non lavoriamo, però, sulle opinioni, ma sui fatti, e i fatti economici richiedono rigore estremo. Non selezioniamo i fatti in funzione di un pregiudizio, ma tentiamo di dar conto della complessità dei fenomeni. Complessità in senso etimologico: un tessuto di fatti che si intrecciano e imbastiscono la realtà. Così vengono fuori le storture del sistema economico e le responsabilità. Più in generale viene fuori un meccanismo che raccontiamo attraverso storie esemplari. Raramente ci occupiamo di cronaca, se non per collezionare notizie e impiegarle come punto di partenza per un approfondimento. Una scelta che rientra tra le caratteristiche di un mensile che non può rincorrere l’attualità, ma al massimo cercare di anticiparla. Questo vuol dire che in genere ci occupiamo di temi globali e complessi, magari con un respiro più ampio. Un pezzo scritto su Altreconomia un anno fa ancora oggi è valido.

A che prezzo si ottiene tutto questo? La vostra scelta paga in termini di vendite?

L’informazione di qualità costa. Qualsiasi discorso rispetto alla gratuità dell’informazione, e alla diffusione di contenuti gratuiti su internet, non è sostenibile. Perché in realtà i soldi che pensiamo di non spendere per l’informazione, raggiungono chi sfrutta i contenuti giornalistici. Il lavoro lo svolge il giornalista e il guadagno arriva a provider come Google o Apple. Essere convinti che sia il mercato a giudicare se una testata può sopravvivere o meno, sappiamo che è una stupidaggine. Perché il mercato non è garanzia di sopravvivenza delle cose migliori o più indispensabili. In questo modo potrà continuare a fare informazione solo chi potrà permetterselo, e produrrà informazione di pessima qualità e indirizzata. Applicando questo principio al mercato equo o all’agricoltura biologica, scopriamo che il filtro critico è passato.

Dopo 14 anni di esperienza, quali considerazioni è possibile effettuare sullo stato attuale del microcredito e dei movimenti?

L’attenzione generale alla sostenibilità ambientale è dirompente in questo momento, molto più di quando ne parlavamo noi nel ‘99 o nel 2005. Permane ancora il problema di come certi argomenti vengano trattati dai media, con quali finalità, competenze e risultati. Anche per altri ambiti: non è più possibile evitare di parlare di biologico, così come non è possibile pensare che i cittadini non sappiano come promuovere un gruppo di acquisto solidale. O che la finanza venga ancora concepita come qualcosa di buono, e si estende dunque la necessità di una finanza etica. Sono tutti temi ormai alla ribalta. Un esempio clamoroso: nel 2001 i manifestanti che erano a Genova venivano manganellati quando chiedevano la cosiddetta Tobin Tax (la tassa sulle transazioni finanziarie, ndr); oggi questa tassa è presente anche nel programma dei partiti di destra europei. Tuttavia, nel mondo dell’economia alternativa, la crisi ha colpito più forte che per l’economia tradizionale, perché è un mondo di per sé fragile, spesso sostenuto dal volontariato. Il paradosso è che questa crisi, era stata anticipata da quelli che manifestavano, che l’avevano capito da tempo. Chi da sempre costruisce alternative sa che questo non è un sistema in crisi, ma che è una crisi di sistema. È la risposta che il sistema vigente dà a una contingenza. La contingenza ha tante forme: l’esaurirsi delle risorse, l’aumento della popolazione, l’esplosione del debito. Il paradigma è piuttosto banale: chi provoca le crisi, il potere, ne resta fuori. Non si tratta di teoremi nascosti, ma di regole ben precise, dall’Fmi alla Bce: il sistema resta in piedi e la distribuzione delle ricchezze è più polarizzata. Il costo della crisi è ricaduto su lavoratori, famiglie e meno abbienti.

Se il popolo di Seattle aveva dunque ragione, come mai non è rimasto in piedi e unito?

Dura poco l’apparenza momentanea di un movimento, che si chiami Indignados, Occupy o altro. La realtà è che certe idee continuano a diffondersi. E oggi i giovani hanno anche più coscienza, dell’esistenza di un sistema economico fortemente ideologico. In questo senso è l’ideologia più riuscita, quella che sostiene di non esserlo. Il sistema è ideologico perché postula cose non vere: che le risorse siano infinite, che la crescita sia la leva che migliora il mondo e che la mano libera del mercato porti uguaglianza. Di sicuro non ci sono più grandi gruppi di riferimento come partiti e sindacati. Questo è il successo del sistema: disaggregare. E poi l’immunizzazione, l’aver esonerato dai doveri, e ha funzionato. Non vuol dire che questi temi non vengano percepiti. La consapevolezza, che ci siano o meno movimenti visibili, è sempre più radicata. Bisogna al più ragionare sui tempi di questa consapevolezza: se sia o no veloce quanto le conseguenze create da questo sistema economico. Quello che sta accadendo alle ultime generazioni, in termini di sradicamento delle sicurezze, della fiducia nel futuro, è inaccettabile: stiamo crescendo una generazione che non sa cosa vuol dire poter mettere su famiglia. La cui precarietà è incredibile, la cui flessibilità è indegna, la cui disoccupazione aggiunge ulteriori preoccupazioni. Questa condizione comune, anche se non c’è una sigla sotto la quale riconoscersi, unifica tutte queste esperienze e porta le persone a ragionare sulle cause.

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