La guerra del petrolio tra Russia e Arabia Saudita

Continua la battaglia dei prezzi al ribasso sui bidoni di petrolio tra i più grandi produttori rimasti al mondo, Russia e Arabia Saudita.

L’ultima mossa di Riad è stata quella di aumentare il più possibile la produzione di petrolio in modo da ribassarne i costi e mettere in crisi i mercati, già in ginocchio per gli effetti del CoVid-19.

Non potevano restare indifferenti gli Stati Uniti, a questo punto, dato che il prezzo al barile è sceso al minimo storico dal 1991, anno della prima Guerra del Golfo, più basso del prezzo shock toccato all’indomani dell’11 settembre 2001 e del crollo della Lehman Brothers: 30 dollari al barile.

Insomma, una situazione di rischio mondiale che si palesa quando l’offerta supera di gran lunga la domanda, con l’avanzata delle fonti alternative, ma soprattutto con l’inutilizzo di grandi consumatori come gli aerei, che restano a terra per la chiusura degli aeroporti.

Questa situazione ha decretato di fatto il fallimento del vertice della scorsa settimana dell’Opec Plus (composto dai membri Opec più gli 11 paesi esterni al cartello) a Vienna. In questa sede, Mosca si è rifiutata di avallare il maxi-taglio complessivo di 1,5 milioni di barili al giorno che le era stato chiesto come sacrifico per risolvere la situazione.

La risposta dell’Aramco, la compagnia nazionale saudita di idrocarburi, è stata quella che ha determinato la situazione attuale: un incredibile ribasso dei prezzi sulle forniture di greggio.

Con uno dei suoi proverbiali tweet, è intervenuto Trump a fare la voce grossa: “L’Arabia Saudita e la Russia stanno discutendo sul prezzo e sul flusso di petrolio. Questa, insieme alle fake news, sono la ragione del crollo dei mercati”. In effetti “il cadavere squisito” di questi giochi al ribasso potrebbe proprio essere il potere economico delle compagnie petrolifere nordamericane, ma intanto tutto il mercato è in fibrillazione.

Secondo un’analisi dell’Ispi, il braccio di ferro tra le due potenze petrolifere potrebbe favorire Mosca, che “sembra nella posizione migliore per superare la tempesta. Mosca ha bisogno di un prezzo di 42 dollari al barile per far quadrare il proprio bilancio, mentre l’Arabia Saudita ha bisogno che i prezzi superino almeno il doppio di tale importo”. A questo vanno aggiunte le più ampie riserve di valuta estera di Mosca rispetto a Riad, costringendola nel medio-lungo periodo a non poter sostenere i costi di produzione.

*Pubblicato su Daily Muslim

La pandemia sveglia l’Europa

La Commissione Europea farà “tutto quello che può per sostenere” gli italiani e gli Stati Membri messi in ginocchio dal virus, ricorrendo agli strumenti della flessibilità contemplata dal patto di stabilità e agevolando l’erogazione di aiuti di Stato alle imprese, insieme a quanto gli Stati potranno fare per risollevare la propria situazione. Come nel caso del decreto atteso oggi in Italia proprio riguardo alle misure economiche per far fronte alla crisi sanitaria.

La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha dunque diffuso in un videomessaggio i contenuti che ci si aspettava di ascoltare almeno un mese fa. Ci sono voluti i numeri da pandemia sciorinati dall’Oms.

Il nuovo strumento finanziario mobiliterà 25 miliardi di euro “per far arrivare rapidamente liquidità dove serve”. Di questi, 7,5 miliardi saranno presi dal bilancio dell’Ue, attraverso i fondi strutturali e dovranno fare da leva agli altri investimenti. Il fondo si propone di promuovere misure “a sostegno del sistema sanitario, delle Pmi, del mercato del lavoro e delle parti più vulnerabili dell’economia”, ha dichiarato von der Leyen.

Anche i deprecatissimi aiuti di Stato verranno dunque considerati utili dall’Ue, e “un ampio uso della flessibilità”, per quanto riguarda i conti pubblici. Lunedì 16 marzo ci sarà l’incontro dell’Eurogruppo e sarà possibile conoscere meglio i dettagli di tale dispositivo. La presidente von der Leyen ricorda che “saranno utilizzati tutti gli strumenti possibili per assicurarsi che l’Europa possa navigare questa crisi” e, dopo averlo detto in inglese, ripete la stessa frase in tedesco perché “è importante che questo messaggio arrivi ovunque”.

Non c’è solo la pur auspicabilissima Europa del portafogli, l’unione metterà presto in campo una sorta di dream team di epidemiologi e virologi con il compito di elaborare guide comuni europee, perché la risposta all’ormai pandemia deve essere rigorosa e quanto più possibile uniforme, almeno nei territori dell’Unione. Continua l’impegno sulla ricerca con lo stanziamento di fondi e bandi per lo sviluppo di un vaccino.

Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, ha sottolineato che la priorità principale dell’Unione e di tutti gli Stati Membri è “quella di proteggere la salute dei cittadini e di limitare l’espandersi del virus”, per questo sono state implementate le misure di coordinamento a livello Ue e ci saranno aggiornamenti giornalieri tra le istituzioni Ue e i ministri della salute e dell’interno europei.

Sulla delicata questione dei dispositivi medici, la Commissione è stata incaricata di proporre iniziative per fronteggiarne la carenza, e questo sembra il ruolo più importante di dialogo e coordinamento di cui si dovrà occupare, per l’Italia, il super commissario Arcuri. Ha continuato Michel: “non può essere tollerata nessuna limitazione al mercato interno”, significa che nessuno Stato può rifiutarsi di esportare il materiale necessario come respiratori e mascherine, per i quali è previsto un bando d’acquisto imponente.

*Articolo pubblicato su Daily Muslim

La tragedia dei migranti, il ricatto di Erdogan

Sono oltre diecimila i profughi provenienti dalla Siria e da tutto il corno d’Africa a cercare di raggiungere l’Europa dopo che la Turchia ha sbloccato le frontiere. Ed Europa per loro significa Grecia, tra Lesbo e le altre isole vicine. Una catastrofe umanitaria imminente, che ha provocato la rivolta degli abitanti delle isole, che appena tre mesi fa si erano distinti per la loro accoglienza. Questa volta i poliziotti che erano arrivati con le escavatrici da Atene per costruire o allargare i centri di accoglienza sono dovuti tornare indietro dopo una notte di scontri con i locali. Sulle rive dell’Egeo gli abitanti sono andati a mani nude a ricacciare indietro i disperati sui barconi.

“Da quando abbiamo aperto i nostri confini, il numero di migranti diretti in Europa è di centinaia di migliaia. Presto sarà nell’ordine di milioni”. Lo ha detto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan in un discorso a membri del suo Akp ad Ankara. “Il nostro consiglio di sicurezza nazionale ha deciso di innalzare a massimo il livello di protezione alle frontiere”, ha dovuto capitolare, invece, il premier Kyriakos Mitsotakis al termine di una riunione di governo.

Dov’è l’Europa quando non si tratta di affari? Prova a mobilitarsi: nei prossimi giorni i ministri degli Esteri dell’Unione hanno indetto una riunione straordinaria del Consiglio convocata dall’Alto rappresentante Josep Borrell.

I migranti che Ankara sta facendo transitare sulla sua frontiera sarebbero circa 15 mila, che si sommano ai 10mila già respinti che tenteranno di rientrare.

Perché Erdogan fa tutto questo? Da un lato esige una nuova riscossione oltre ai 6 miliardi già sborsati dall’Unione Europea nel 2016. La sua richiesta è di 3 miliardi, che l’Europa dovrà decidere entro fine mese se sborsare. Secondo il sito #truenumbers sarebbero ben 15 i miliardi che il vecchio continente ha regalato alla Turchia dal 2002.

Dall’altro lato Erdogan vuole sbloccare la situazione in Siria, chiedendo a Mosca e ai suoi seguaci europei di non difendere più Assad, quanto meno a Idlib, dove è in atto in queste ultime settimane una feroce escalation e dove sostiene altrettanti criminali di guerra che non si sa bene quale beneficio potrebbero portare a Damasco se non quello di realizzare una Siria accondiscendente e ancillare nei confronti di Ankara.

I migranti fanno così paura all’Europa da lasciare che Erdogan porti a compimento il suo piano?

* Articolo pubblicato su Daily Muslim

Noury (Amnesty): Egitto liberi subito Patrick Zaky

Amnesty International segue da vicino la vicenda di Patrick George Zaki, arrestato venerdì 7 febbraio all’aeroporto del Cairo, appena sbarcato da Bologna, dove frequenta come ricercatore i Master GEMMA sui diritti delle donne e sulle questioni di genere, per far visita ai genitori.
Sparito per oltre 30 ore, Zaki è stato condotto nella procura della sua città natale, Mansoura, dove si trova in stato di detenzione preventiva con l’accusa di aver cospirato contro il regime di Abdel Fattah al-Sisi.
Il ventisettenne deve restare in carcere almeno fino al 22 febbraio, quando ci sarà l’udienza in seguito alla quale si apriranno tre scenari: il rinnovo della detenzione per altri quindici giorni (più volte rinnovabili) in attesa di prove ulteriori – che è la prassi più consolidata -, l’improbabile rilascio, e l’ipotesi peggiore, quella di un rinvio a giudizio diretto che in caso di condanna potrebbe portare all’ergastolo, pena che in Egitto è commutata automaticamente a 25 anni.
Le notizie che giungono dagli avvocati della Ong di cui Zaki fa parte, Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr), danno per certo che il giovane sia stato torturato nelle 30 ore in cui si è persa traccia di lui. Alcuni giornali italiani riportano inoltre la notizia che gli siano state fatte domande circa i suoi rapporti con Giulio Regeni e i genitori del ricercatore friulano, ucciso proprio quattro anni fa dopo una prolungata sofferenza e numerose torture e senza ancora una spiegazione ufficiale.
Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty, ha rilasciato un’intervista a Daily Muslim per provare a chiarire alcuni aspetti della vicenda.
«Conosco Zaki indirettamente per la sua attività, ma non di persona. Non darei troppo peso alle dichiarazioni che collegano il suo attivismo a quello di Regeni, perché un conto è qualcosa che ti viene chiesto in un regolare interrogatorio e altro è ciò che ti viene urlato in faccia per spaventarti in modalità non convenzionali. Quello che è certo è che Patrick è stato ritenuto colpevole di cospirare contro il regime per aver dato sostegno alla manifestazione in piazza voluta dal costruttore Alì, in esilio in Spagna».
Mohamed Alì, imprenditore edile, si è opposto al regime di al-Sisi ed è dovuto scappare a Barcellona, aprendo l’account su Twitter @MohamedSecrets, dal quale ha raccontato molti segreti imbarazzanti del regime e chiedendo via internet ai suoi connazionali di manifestare in piazza il proprio dissenso. Così facendo ha ottenuto una risposta tale da far vacillare il governo, il 20 settembre 2019. Ne sono seguite dure reprimende, con almeno 150 arresti nell’immediato e un’attività di spionaggio per chi ha fomentato le proteste fuori dall’Egitto.
Non è un caso se il mandato di arresto contro Zaki risale proprio allo scorso settembre, intorno al 24. E qui troviamo uno dei punti più oscuri della vicenda, come nota Noury: «Fonti istituzionali italiane mi hanno detto in maniera informale che l’Italia non ha voce in capitolo. D’altronde l’appello di Amnesty, accompagnato dall’hashtag #freepatrick qui non ha avuto alcuna risposta, e nemmeno dall’ambasciata».
Il ragazzo, però, si trovava in Italia già da fine agosto per seguire il master a Bologna. Com’è possibile che le istituzioni si giudichino fuori da questa storia?
«Anzitutto non siamo nell’Ottocento, per cui disinteressarsi ai diritti umani che non sono rispettati in Egitto come in Turchia, Brasile o Venezuela per motivi diplomatici non può più essere considerata una scusa. Nello specifico, uno studente che vive in Italia, tra l’altro con un regolare visto di studio per il suo ruolo di ricercatore, dovrebbe essere tutelato dal dispositivo che gli inglesi definiscono ‘duty of care’, letteralmente un dovere di protezione».
Ma se il mandato di arresto è stato spiccato a settembre inoltrato, a insaputa del ragazzo e della sua famiglia, com’è stata monitorata la sua presunta attività sovversiva, sia online che offline? «Non ho prove, ma preoccupazioni sulle analogie con il comportamento del Cairo in altre vicende che coinvolgono egiziani della diaspora e lo stesso Ali, come documentato negli ultimi anni anche da giornali italiani».

Ci fosse l’interesse della politica nostrana a tutelare questa situazione sarebbe necessario fare luce su queste modalità, ma l’ottimismo sembra essere smorzato anche da quanto hanno dichiarato i genitori di Giulio Regeni circa gli affari che il governo italiano sta conducendo con gli egiziani. Nello specifico si parla di affari complessivi intorno ai nove miliardi per fornire mezzi militari a un paese che appoggia il generale Haftar in Libia, cioè colui che si oppone al governo di Sarraji, ufficialmente sostenuto dall’Ue, Italia compresa.
«Al di là della specifica situazione, è innegabile che Italia ed Egitto intrattengano da sempre ottimi rapporti bilaterali, per cui quando mi sento dire che è un momento poco opportuno per mettersi di punta, posso obiettare che c’è sempre qualche legittimo affare in ballo, ma questo non può mettere in secondo piano il rispetto dei diritti umani».
Intanto sul caso si sono accesi anche i riflettori del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), l’organismo che gestisce le relazioni diplomatiche dell’Ue con altri Paesi al di fuori dell’Unione: «Le dichiarazioni di attenzione sono ben accette – commenta Noury -, ma sia dall’Italia che dall’Unione Europea mi aspetto una presenza fisica quantomeno all’udienza del 22 febbraio, affinché si tutelino le garanzie procedurali per il ragazzo».
Noury rimarca, inoltre, un giudizio complessivo sulla fase politica attraversata dal Delta del Nilo: «Zaki fa parte della generazione di ricercatori, pensatori, imprenditori e poi anche attivisti che cercano di aprire un dibattito sulla società e la politica egiziana e il loro Paese non si apre al pluralismo, sacrificando quelle che sono le personalità migliori e pregiudicando di conseguenza il suo futuro».

*Articolo pubblicato da Daily Mulsim

Trump, o la percezione del grande pacificatore

“The Great American comeback” è lo slogan già pronto per dare seguito a quel “Make America Great Again” che aveva fatto trionfare Donald Trump contro ogni pronostico alle presidenziali del 2016. Ed è stato anche il mantra che il tycoon ha ripetuto con cadenza ipnotica al suo discorso sullo Stato dell’Unione del 4 febbraio, riscuotendo un consenso granitico che lo pone concretamente in vantaggio su chiunque possa essere il suo sfidante interno nei Repubblicani – onore al merito del kamikaze Romney per il suo voto a favore dell’impeachment – ed esterno nei Democratici.

Gli applausi scroscianti ottenuti parlando della bandiera americana presto conficcata sull’aspro suolo di Marte, mentre tentavano di raggiungerlo le urla e il pianto del parente di una vittima delle tante sparatorie da far west, che si verificano anche grazie all’eccesso liberale sul possesso delle armi negli Usa, resta un’immagine cinica e agghiacciante della china intrapresa dalla massima potenza occidentale, che sembra qui davvero esibirsi in un terribile canto del cigno.

Perché la settimana appena conclusa è stata ricca di simboli e fatti che anticipano una quasi ineluttabile riconferma del presidente il prossimo novembre, a dispetto di una rappresentazione mediatica italiana ed europea che lo dipingono come inadatto a guidare gli Usa. E in parte questo risultato è stato ottenuto con una radicalizzazione dello spirito americano che lascerà una totale devastazione, ma finché il suo attuale interprete sarà in scena, il suo popolo si godrà lo spettacolo.

Senza contare che, al pari del fumo negli occhi dei fruitori gettato dai media senza un reale costrutto, resterà l’altra proiezione, quella di un’opposizione imbarazzante.

L’impeachment per fatti gravissimi (abuso di potere e ostruzione nei confronti del Congresso) atti, tra l’altro, a subordinare la bandiera a stelle e strisce a quella dei rivali storici della Russia, con il riflesso dell’Ucrainagate, si è svolto senza la possibilità di far parlare testimoni chiave e si è concluso molto in fretta e in sordina con l’assoluzione del presidente.

La trionfale decantazione dei suoi successi, il 4 febbraio, ha raccolto un fermo immagine strepitoso: quello della dem Nancy Pelosi, rispettata speaker della Camera, che strappa la copia del discorso del presidente. Un gesto di dignità che è stato letto, però, come il riottoso capriccio di chi non ha altri argomenti degni.

Che dire, poi, delle primarie dei dem? Sono iniziate con il clamoroso fiasco del sistema elettorale al caucus dell’Iowa, generando un clima di rassegnata umiliazione. Forse peggio di quel che è accaduto, poi, con i risultati, perché il più “istituzionale” Joe Biden ha preso un’imbarcata in favore dell’outsider Pete Buttigieg e del radicale Bernie Sanders, ritenuto troppo “di sinistra” per poter ingaggiare l’elettorato. Ma era estremo anche Trump, si potrebbe obiettare. Certo, con grosse differenze sulla “percezione” della ricchezza possibile di ciascun individuo. Ciascuno, ovviamente, a scapito del prosssimo.

Abbiamo conosciuto Trump per i presunti disastri diplomatici, ma vediamone qualcuno alla lente.

L’amicizia con Putin. I due giocano a un ruolo delle parti che lascia di fatto la Russia libera di battere strike su alcuni settori geopolitici ed economici molto interessanti: dalla Siria al petrolio, al gas e alle rinnovabili, con un assetto interno che andrebbe analizzato nello specifico. I battibecchi tra i due vanno letti né più né meno come gli scambi al vetriolo di Peppone e Don Camillo.

La Corea del Nord. Trump ha blaterato e cinguettato tantissimo contro il folle Kim Jong-un, ricambiato dal dittatore. Ma l’americano resta il miglior antidoto alle follie del coreano, sempre che l’alleanza di Cina e Russia non riesca a trovare gli argomenti giusti per spostare questo equilibrio. Lo stesso Kim, però, sa bene che contrattare con gli americani gli lascia maggiore spazio di manovra.

L’Iran. L’uccisione di Solemaini doveva scatenare l’esplosione della polveriera mediorientale. Eppure il sanguinario pasdaran sembrava essere diventato un po’ troppo ingombrante per l’ayatollah e per i paesi che dialogano con l’Iran, che hanno scelto il basso profilo, come, inaspettatamente, i nemici del paese sciita, creando un insolito clima non ostile nell’area.

Israele. La più grande operazione diplomatica, diciamo così, di Trump è stata la presentazione del “Deal of the century”, che offrirebbe una soluzione a suo avviso duratura alla questione arabo-israeliana. Una spartizione territoriale che avvantaggia gli isrealiani, ma che non ha provocato le reazioni dure che ci si sarebbe aspettati dai nemici dei sionisti e dagli antiamericani. L’Iran sembrerebbe essere il sacrifico più grande per il silenzio sulla Palestina.

Insomma la polveriera mediorientale sembra avere le polveri bagnate, anche se il presidente Usa piuttosto che eliminare il barile potrebbe avergliene affiancati diversi e ben asciutti.

Cina. Con scarso tempismo sull’esplosione del nuovo coronavirus, gli Usa hanno siglato di recente gli accordi che dovrebbero calmare la guerra dei dazi con il Sol Levante. I critici hanno ritenuto che il contenuto fosse un po’ povero, ma l’attesa fase 2 potrebbe dare agli americani un largo vantaggio su un’economia messa in ginocchio dai devastanti effetti economici dell’epidemia.

Unione Europea. Trump ha dato fin troppo l’idea di come intende gestire i suoi rapporti con l’Europa: a suon di ricatti, perché questa è una regione ampiamente ricattabile, in preda a paure spesso infondate che stanno decretando l’ascesa dei sovranismi populisti. Il suo “divide et impera” con il Regno Unito ha portato alla Brexit, con la conseguenza di avvicinare molto di più gli inglesi ai cugini oltreoceano. Dazi minacciati, virtuali ed effettivi sono il principale argomento di discussione, invece, con l’Unione Europea: hanno lamentato la situazione alcuni europarlamentari messi alle strette per far saltare gli accordi sul nucleare iraniano; più o meno quanto accaduto su ferro e alluminio e soprattutto sui diritti delle big corporations che depredano i diritti intellettuali europei lasciando le briciole sulle royalties. Un modus operandi che sembra dare i suoi frutti senza troppa rappresaglia.

Economia interna. Come spesso accade negli States, però, i motivi che lasciano presagire una rielezione quasi scontata sono soprattutto interni, e troppo poco indagati dalla nostra stampa.

La Federazione usciva da un periodo di recessione che richiedeva soprattutto una decisa crescita in economia, perché con Obama questa aveva risposto in modo efficiente alla grande crisi del 2008, riassorbendo la disoccupazione generata, ma come le storiche dinamiche Usa pretendono, occorreva dare un forte impulso alla locomotiva.

Tutto questo è successo sotto Trump? Sì, rielezione vicina. Perché? Un difficoltoso lavoro di relazioni diplomatiche (molto spinose) ha portato a una sostanziale rinegoziazione dei rapporti di commercio internazionale. Per farlo è stato necessario incarnare la maschera che meglio gli riesce: quella del toro che forza i limiti senza guardare in faccia a nessuno e per l’esclusivo interesse del popolo americano. I frutti saranno raccolti nel breve periodo, lasciando aperta l’ipotesi di manovre militari che come sempre danno impulso alla motrice a stelle e strisce, sebbene tradirebbero in questo modo l’assunto di fondo del neutralismo trumpiano. Di facciata, se rileggiamo quanto detto e anche in base ai nuovi accordi firmati dal presidente, che hanno poi portato a effetti come un aumento sostanziale di bombe sganciate, soprattutto in Afghanistan, e attacchi di droni.

Gli altri aspetti di maggior successo in economia interna sono senz’altro l’alleggerimento fiscale e la deregolamentazione del dirigismo economico, che hanno fatto lievitare il sistema americano, in particolare nell’incremento deciso della produttività. Insieme con la Federal Reserve, Trump ha lasciato intendere che il piano per i prossimi quattro anni sia quello di lasciare i tassi sotto zero, finanziare la liquidità e rimonetizzare il debito.

Il migliore acquisto, insomma, nel breve periodo, per gli americani dal reddito medio-alto, con conseguenze non troppo rosee per il resto del mondo.

*Articolo pubblicato su Daily Muslim

Obama riapre alla green economy

GEORGETOWN (Usa)-«Il 97 per cento degli scienziati riconosce l’esistenza e gli effetti del cambiamento climatico. La Terra sta cambiando e gli Usa devono muoversi». Un futuro verde attende-di nuovo-l’economia più potente del mondo. Nel discorso del 25 giugno a Georgetown, Barack Obama ha ripreso il filo interrotto della riconversione industriale del Paese. Tutto incentrato sulla green economy.

Il presidente degli Stati Uniti ha ridotto di cinque anni, e di cinque punti percentuali, l’obiettivo della sua prima campagna elettorale. Secondo le previsioni del 2008, agli albori della crisi economica globale, entro il 2025 l’America del Nord avrebbe potuto raggiungere il 25 per cento della sua produzione energetica solo da fonti alternative. Almeno secondo i democrats. Il rallentamento dell’economia e la crisi del mercato automobilistico, in particolare, hanno rappresentato una pietra d’inciampo verso questo risultato.

Oggi il presidente, la cui fama è offuscata dal Datagate, non lascia passare un giorno senza una dichiarazione che ne ristabilisca la credibilità. In che modo? Ritornando alle origini della sua ascesa. Il piano «verde» prevede tre dei punti cardinali che si leggevano sui volantini riassuntivi del suo programma. Investire nell’energia pulita e rinnovabile: il 20 per cento di energia da fonti rinnovabili entro il 2020, anzitutto. Poi investimenti sulla ricerca e lo sviluppo di tali energie, e nella loro manutenzione. Infine il vero nodo della questione: contenere e ridurre i consumi, una sfida quasi impossibile per lo stile di vita della nazione che ha inventato lo spreco pianificato.

Davanti alla platea di studenti della celebre università dello Stato di Washington, incantati da un discorso immaginifico, Obama ha snocciolato la sua strategia. Con un’importante premessa:«Lo dobbiamo a voi, che siete i nostri figli. Abbiamo bisogno di scienziati-ha proseguito- che mettano a punto nuovi combustibili, abbiamo bisogno di ingegneri che individuino nuove fonti energetiche e di aziende che le producano e le vendano; abbiamo bisogno di lavoratori che gettino le basi per un’economia pulita. Questa è una sfida che riguarda tutti».

La riconversione delle centrali a carbone è la prima e più importante battaglia: le emissioni di anidride carbonica sono crollate in modo vertiginoso dal 2006. Ma non basta. È ancora fresco il senso di frustrazione che gli ambientalisti hanno provato a Durban nel dicembre 2011, e poi a Rio un anno fa. Prima del Datagate, insomma, sembrava che la competitività energetica degli Stati Uniti contro i diritti arrogati dalle potenze emergenti facesse perno sul conservatorismo dell’industria pesante.

Cos’è cambiato, allora? È crollata la fiducia degli statunitensi nella loro massima carica rappresentativa. Che si è decisa a dare un segnale più forte. Il Congresso ha reagito con freddezza al discorso di Obama, ma le strade che lui sceglierà di intraprendere non riguarderanno più di tanto l’organo legislativo. Spetterà, infatti, all’Environmental Protection Agency (Epa) proporre le nuove norme antiemissioni tanto per le vecchie quanto per le nuove centrali. Oltre ai nuovi standard, sempre all’Epa toccherà monitorare gli investimenti in tecnologie pulite.

Un segnale forte è arrivato con la messa in discussione dell’oleodotto di Keystone, che dovrebbe congiungere Usa e Canada. «L’interesse nazionale sarà salvaguardato-ha spiegato Obama-, ma solo se questo progetto non esaspererà gli effetti dell’inquinamento. Il mio governo valuterà se andare avanti con la costruzione solo su queste basi».

Se gli studenti hanno risposto con un grande applauso, altrettanto entusiaste sono state le prime reazioni. Su tutte quella del presidente della Commissione europea José Barroso. «L’Unione europea è un leader climatico fiducioso-ha detto-, abbiamo una legislazione ambiziosa in atto. Stiamo riducendo notevolmente le nostre emissioni, ampliando la produzione di energia da fonte rinnovabile e massimizzando il risparmio energetico. E ci stiamo preparando per il passo successivo: un quadro energetico e climatico per il 2030».

Qui il video completo del discorso di Obama a Georgetown.

Elezioni in Israele: il Likud vince a metà

TEL AVIV –  Con le ultime elezioni in Israele si è scongiurata la deriva dell’ultradestra e garantito il rinnovamento nella knesset, il parlamento israeliano. Si è infatti registratoil boom di voti per il centrismo e la ripresa per la sinistra. La star è Yair Lapid, anchorman che somiglia a Clooney.

Si attendeva un’imponente conferma per il Likud del premier uscente Benjamin Netanhyau, con il preoccupante appoggio del partito di estrema destra Bayit HaYehudi di Naftali Bennett. Ma all’indomani della giornata elettorale, Tel Aviv si è svegliata più democratica: la knesset sarà divisa tra la coalizione della destra moderata guidata dal Likud e il centro moderato, la cui leadership passa da Kadima alla neoformazione Yesh Adit.

La coalizione di centrodestra si aggiudica 31 seggi, ben 11 in meno rispetto alle ultime elezioni, mentre la coalizione di centrosinistra, contando anche i seggi ottenuti con una buona prova dai partiti di rappresentanza araba, hanno raggiunto le 29 poltrone necessarie a garantire la possibilità di formare un nuovo governo.

Sono 19 i posti che occuperà il partito Yesh Adit (C’è futuro), formata proprio in vista delle elezioni e guidata dal presentatore televisivo Yair Lapid, uomo di successo, figlio d’arte e vagamente somigliante a George Clooney. La sinistra, data per morta, ottiene invece 27 seggi, contando i 15 dei Labors e i 6 di Meretz e Hatnua. Solo alle loro spalle, con 11 seggi, gli ultranazionalisti di Bennett, per i quali si prevedeva una funesta affermazione.

Il presidente della Repubblica, Shimon Peres, ha avviato le discussioni per formare la coalizione di governo. La costituzione non lo obbliga a nominare premier il leader del partito più suffragato, ma ci saranno di sicuro poche sorprese e Netanyahu presterà nuovamente giuramento entro i prossimi gironi.

La politica estera, come da tradizione, è il primo pensiero di Netanyahu. Il nemico numero uno, nello specifico: fermare l’Iran sarà la marca distintiva del suo nuovo mandato. La questione palestinese resta sullo sfondo delle prime dichiarazioni, ma proprio la decisione dell’ Onu di permettere all’Autorità Nazionale di presenziare alle assemblee come osservatrice sembra essere costata al Likud quegli 11 seggi assegnati al «Focolare ebraico». Il partito che più di tutti ha incarnato le paure dell’opinione pubblica mondiale è quello che ha meglio interpretato la volontà dei coloni israeliani in terra palestinese.

Gli ultranazionalisti resteranno comprimari, perché la scena è tutta per Yair Lapid. In questi giorni si sono succeduti i complimenti al Clooney israeliano, ma i timori nei suoi confronti sono molti e provengono per lo più dalla sua coalizione. L’unico modo che ha Lapid per svolgere un’azione coerente sembra quella di negoziare ogni cosa con il Likud, senza accettare alcuna delega da Netanyahu, che ne farebbe il suo subalterno. Dal quotidiano Ha’aretz, di area riformista a sinistra, la critica più secca al risultato elettorale: i suoi lettori avrebbero preferito un exploit degli ultranazionalisti per guadagnarsi gli occhi del mondo di fronte alla tragedia palestinese. Ma ha vinto la normalità, nel bene e nel male.

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