Veleni interrati nel Salento. Motta: difficile trovare i colpevoli

LECCE – Un altro ritrovamento di rifiuti speciali nel Sud Salento. La prima uscita pubblica sull’argomento da parte del procuratore Cataldo Motta, mentre infuriano le polemiche sui veleni nel tracciato della nuova strada 275.

«Si dovrà procedere con la massima cautela perché quello ambientale è un settore particolarmente difficile, per la scarsità delle norme del codice e per l’avvicendarsi di leggi in materia che rende difficile l’accertamento dei reati e lo sviluppo delle indagini». Non si sbilancia Cataldo Motta, procuratore capo di Lecce, durante il suo primo intervento pubblico per fare il punto a seguito degli ormai numerosi rinvenimenti di veleni interrati che si susseguono da più di un mese. Solo ieri, i carabinieri del Nucleo operativo ecologico hanno individuato un altro sito, il quarto, in contrada «Orie» nei pressi di Scorrano. Nel sottosuolo di parte dei quindicimila ettari analizzati sono stati ritrovati per ora lastre rotte di eternit, pezzi di tufo e altri scarti da costruzione. Il terreno è stato acquistato cinque anni fa da un’impresa immobiliare, che non è responsabile degli interramenti.

È ancora presto per stabilire se anche il sito di Scorrano presenti scorie che possano ricollegare il ritrovamento alle inchieste sui veleni scaricati dalle industrie dell’ex indotto del «tac». Laconico il commento di Motta: «In questa particolare indagine non abbiamo indicazioni che riportino ad attività della criminalità organizzata». I ritrovamenti dunque si devono discostare, per il momento, dalle inchieste sulla connivenza tra imprese, camorra e scu che tengono banco da novembre. Durante l’exploit economico degli anni novanta, infatti, le aziende che operavano nei settori del tessile, dell’abbigliamento e del calzaturiero (da cui l’acronimo «tac») avrebbero raggiunto accordi con i boss della Sacra corona unita per disfarsi dei rifiuti senza costi eccessivi.

Le prime indagini della procura guidata da Motta, ma seguita dal sostituto procuratore Elsa Valeria Mignone, hanno evidenziato che i conti di molte aziende non tornano: registri di carico e scarico fanno volatilizzare tonnellate di rifiuti speciali. I due filoni d’indagine già aperti nel solo Salento riguardano la contrada «Li Belli» tra Supersano e Cutrofiano, e le discariche rinvenute tra Patù, Alessano e Tricase, dove per altro i finanzieri hanno dovuto interrompere i lavori per i miasmi emanati dai resti chimici. I ritrovamenti hanno sconcertato perfino gli inquirenti, che avevano seguito le indicazioni del camorrista Carmine Schiavone, e del pentito della Scu Silvano Galati rese nel 1997 e desecretate soltanto lo scorso autunno. Galati aveva descritto il sistema, ma si era riferito con certezza soltanto alla contrada «Li Belli». A diciassette anni di distanza proprio Motta ha dichiarato di non voler «rincorrere fantasmi», lasciando così che ad aprire l’inchiesta fosse solo la procura di Bari con il pool guidato da Pasquale Drago. Le denunce della stampa e delle amministrazioni salentine che ne sono seguite hanno fatto costretto la procura al dietrofront.

È così che adesso è scoppiata anche una questione spinosa. Parte dei rinvenimenti si trova sotto il tracciato della strada statale in costruzione più discussa del territorio, la 275. Pensata ventotto anni fa proprio per rendere fluidi i traffici con le aziende del tac, la strada è stata al centro di furiose polemiche con gli ambientalisti e non solo, che ne contestano tuttora l’invasività e l’opportunità. «Le attività d’indagine-ha dichiarato Motta in merito alla polemica che si è aperta-non comprendono anche valutazioni sulla legittimità del tracciato della 275», ma subito dopo ha aggiunto: «Non si può costruire una strada sulle discariche portate alla luce con le indagini della procura». Dopo ventott’anni e 288 milioni spesi il progetto della strada dovrà restare ancora al palo. Le connivenze tra mercato e malavita vengono troppo lentamente fuori dall’ombra del barocco.

Andrea Aufieri per Medi@terraneo News

Eternit, sentenza storica. Fu disastro doloso

Arriva la condanna in appello per il processo Eternit: 18 anni di carcere per Stephan Schmidheiny. Il pm Guariniello si guadagna una tuta blu.

TORINO – A un certo punto la voce del giudice, Alberto Oggè, si è incrinata proprio come accade quando ci si commuove. Forse perché per lui era l’ultima sentenza della carriera prima della pensione, forse perché l’elenco dei malati e degli eredi dei defunti, 932 persone citate tutte per nome, cognome e anno di nascita, era troppo lungo. Qualcuno fra il pubblico, d’altra parte, non è riuscito a trattenere le lacrime mentre il magistrato leggeva lo sterminato dispositivo che metteva fine al maxi processo d’appello Eternit:

18 anni di carcere per Stephan Schmidheiny, miliardario elvetico che si accredita come paladino dell’ambientalismo e dello sviluppo sostenibile, 89 milioni di euro alle parti civili.

Un inno alla vita – «Ho avuto l’impressione che questa sentenza sia un inno alla vita, un inno all’esigenza di tutelarla e di tutelare la salute. Un sogno di giustizia che si avvera, e che spero possa avverarsi anche a Taranto e in tutti i paesi in cui si stanno consumando tragedie non meno gravi». Il pm Raffaele Guariniello scarica simbolicamente la frustrazione delle circa 6400 parti civili coinvolte nell’infinito processo contro l’Eternit. E in questo modo si guadagna una tuta blu da operaio della vecchia azienda. È il dono simbolico di Pietro Condello, 67 anni, ex operaio a Casale Monferrato, che fa il segno della vittoria.

Una storia infinita – Sono 69 le udienze cui hanno assistito vittime e famigliari dei morti di amianto. Alla fine è arrivata una condanna anche dalla Corte d’appello di Torino. Disastro doloso per il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, condannato alla pena di 18 anni di reclusione, due in più di quelli comminati in primo grado e due in meno di quelli richiesti dai pm. I risarcimenti dovuti ammontano a quasi 90 milioni di euro, dei quali circa 31 andranno al Comune di Casale Monferrato -l’occhio del ciclone Eternit – e 20 alla Regione Piemonte. All’industriale si contestano anche le responsabilità degli stabilimenti aziendali di Cavagnolo (Torino), Bagnoli (Napoli) e Rubiera (Reggio Emilia), esclusi dal primo grado.

La laurea di Schmidney – L’imprenditore miliardario, che può ancora fregiarsi di una laurea honoris causa a Yale per meriti industriali e ambientali, resterà l’unico a sobbarcarsi il peso della vicenda Eternit. Il comproprietario dell’azienda, infatti, il barone Luis De Cartier, è infatti deceduto a 92 anni, annullando così il diritto al risarcimento per oltre 2500 parti civili, dato che risultava nullatenente. Queste potranno intentare causa civile agli eredi.

Andare avanti! – Ha avuto un mancamento, Romana Blasotti. La donna-simbolo di questa battaglia, che non ha retto alle prime parole del giudice, che assolvevano Schmidheiny dai reati precedenti al 1966. Romana ha perso la figlia e altri quattro parenti per malattie direttamente connesse all’inspirazione di fibre di asbesto. «Sono esausta-ha dichiarato-ma vado avanti lo stesso!».

Sentenza di portata storica – È facile cogliere la portata storica di una sentenza molto attesa, e la possibilità che questo modello di giustizia possa estendersi nonostante la politica viaggi in altre direzioni. Un’ipotesi che traspare dagli applausi e dalle dichiarazioni di associazioni e cittadini riunitisi in tutta Italia a guardare la diretta streaming della sentenza. Così Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio nazionale sull’amianto (Ona): «Proseguiremo la nostra battaglia per avere giustizia per le altre vittime, quelle di Napoli, come quelle di Siracusa, come di ogni altra parte d’Italia cadute per via delle fabbriche di Eternit lì presenti così come nei confronti di ogni altro responsabile».

Tante piccole Eternit – Ma il problema dell’amianto ha una pervasività che può sfuggire di mano. Ci sono i siti industriali abbandonati non presi in considerazione dalla sentenza: la Fibronit di Pavia e Bari, oppure gli altri stabilimenti Eternit a Siracusa. Questi siti sono ancora in attesa di una bonifica che non sia quella della semplice messa in sicurezza. Giorgio Zampetti, responsabile dell’ufficio scientifico di Legambiente, ricorda che il Centro nazionale di ricerca (Cnr) stima in 32 milioni di tonnellate l’amianto non censito dalle regioni o disperso: quello presente nelle tubature delle case fino ai primi anni ottanta, per esempio. Per non parlare poi del fatto che i costi dell’isolamento dell’amianto s’impennano per la difficoltà di trovare siti di smaltimento o per l’invio all’estero. E quei costi ricadono quasi sempre per intero sui cittadini.

Disinnescare la bomba sanitaria – Da tempo si prevede che ci sarà un’esplosione di asbestosi (malattie legate all’esposizione all’amianto, il cui nome scientifico è, appunto, asbesto) entro i prossimi 25 anni. Lo Stato dovrà dunque dare una risposta, per quanto è possibile, sulla prevenzione, prima di ritrovarsi ad affrontare i costi sanitari e legali delle nuove malattie.

Andrea Aufieri per Medi@terraneo News.

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