Cerano, il nerofumo delle responsabilità


Dalle indagini dell’Enel risulta che non c’è nessun nesso scientifico di causalità tra la presenza della Centrale “Federico II” a Cerano e l’inquinamento atmosferico presente a Torchiarolo.

La centrale Enel “Federico II” di Cerano (Br) – la prima in Italia per emissioni di anidride carbonica – copre oltre un terzo del totale nazionale e accosta, ai continui allarmi per un futuro nero, una storia di occasioni perdute: dal biomonitoraggio mancato, alla metanizzazione mai avvenuta, fino alla messa in sicurezza del carbonile con undici anni di ritardo! L’Arpa pubblica i dati che confermano l’aumento di tumori ai polmoni nel Grande Salento e, nelle aree interessate, comincia la conta dei morti. Enel si discolpa, ma promette grossi cambiamenti per il futuro mentre gli ambientalisti sospirano: “Chi promette mantenga”.

Non si sa per quanto tempo ancora il Salento dovrà sopportare gli sfregi continuamente rivolti al suo territorio e le tragiche conseguenze riservate ai suoi abitanti. La centrale Enel “Federico II” di Cerano è una ferita sanguinante ormai da venticinque anni.
L’ultimo colpo in ordine cronologico risale alla fi ne di maggio, con la pubblicazione di “Dirty Thirty”, la “sporca trentina”, il rapporto sulle trenta centrali più inquinanti d’Europa realizzato dal Wwf. Nell’ultima classifica, la “Federico II” occupa il posto numero 25, grazie ai 15,8 milioni di tonnellate annue di anidride carbonica (Co2) riversate nell’atmosfera, oltre un terzo dei veleni scaricati in tutta Italia.

Essa occupa una superficie di ben 270 ettari. Si compone di quattro sezioni per la produzione di energia elettrica, compresi un parco combustibili liquidi e uno per il carbone, evaporatori e impianti di trattamento delle acque reflue. Oltre ad un nastro trasportatore scoperto lungo 13 km in grado di trasportare 2000 tonnellate di combustibile dal porto di Costa Morena.

Questo l’identikit del megamostro che rappresenta la sconfi tta più cocente nella storia dell’ambientalismo pugliese. Qualcosa si è mosso ad aprile, quando il Registro tumori ionico-salentino ha pubblicato i dati relativi all’incidenza di neoplasie alle vie respiratorie, che vede un trio degli orrori capeggiato, con inattesa sorpresa, da Lecce (11,8%), seguita dalle scontate città di Brindisi (9,3%) e Taranto (8,3%).

Le province e i comuni di Brindisi e Lecce hanno convocato un tavolo tecnico pretendendo garanzie da Enel. Dal canto suo, l’azienda si dichiara attenta alla questione ambientale, come si legge in un comunicato del 2 maggio scorso: “La nostra azienda è impegnata a raggiungere standard ambientali e di effi cienza sempre migliori e confermare la nostra leadership nelle fonti rinnovabili. Nei prossimi 5 anni – continua il fi rmatario del comunicato, Franco Deramo – Enel svilupperà un grande programma di investimenti, per oltre 4 miliardi di euro, di cui una parte importante destinata allo sviluppo delle fonti rinnovabili”.

Tutto ciò non è bastato agli enti locali, se persino le dichiarazioni EPER/INES(European Pollutant Emission Register/Inventario Nazionale delle Emissioni e loro Sorgenti), per il biennio ‘03-’05 evidenziano numerosi sforamenti della soglia annua consentita in aria e in acqua.
Su tali dati ha lavorato l’ingegnere ambientale dell’Università della Basilicata Angelo Semerano per la sua ricerca “Il polo industriale di Brindisi”. Lo studio ha vinto il premio “Carlo De Carlo” come migliore tesi dell’area ambientale e su Cerano si legge: “Se guardiamo soprattutto i dati riferiti alla centrale (…), notiamo che le emissioni totali (di mercurio e arsenico) risultano superare i valori soglia fissati all’UE”(salutepubblica.org).

Tra i principali impegni fatti assumere al colosso dell’energia in seguito al tavolo tecnico, spiccano le riduzioni delle emissioni di zolfo (So2), di ossido d’azoto (NOx) e di polveri sottili. Più delicata la questione del Co2, visto che la promessa dell’Enel riguardava l’esigua riduzione del 10%, mentre i parametri regionali prevedono riduzioni fino al 25%. Brindisi e Lecce sono andate oltre, uniformandosi alle tabelle ministeriali e alle pressioni dell’UE che, in linea con il Protocollo di Kyoto, prevedono per Cerano una riduzione del 33%.

Una dura contrattazione che rischiava di mettere in secondo piano questioni molto importanti come la ricerca sulla cattura di Co2 e la costruzione di un molo combustibili nel porto esterno per la movimentazione degli stessi. Molto importante, come vedremo in seguito nel caso Torchiarolo, l’impegno di affidare ad una rete pubblica il monitoraggio delle emissioni, mentre qualcosa già si è fatto per la copertura del carbonile, finora lasciato esposto ai venti ed alla dispersione delle polveri.  Si intravede il sereno sui cieli di Cerano?

Le reazioni

Un quadretto a tinte fosche appena attenuato, questo il pensiero che riassume le reazioni di due storici rappresentanti di Legambiente, alla quale si deve la pubblicazione del prezioso dossier “Stop al carbone!”, che mette in fila i mostri carboniferi italiani.

Mario Fiorella, presidente della sezione leccese dell’associazione, è guardingo con pessimismo: “Ci sono ampi precedenti che dimostrano come l’Enel non rispetti gli impegni assunti: la Convenzione del ’96 prevedeva la metanizzazione e la chiusura della centrale Edipower di Brindisi nord e la graduale riconversione al metano della “Federico II”.

“Chi promette, mantenga – prosegue il magistrato – ma certo stavolta istituzioni e movimenti, questi ultimi mai considerati da Enel, sono vigili e forse la pressione servirà almeno a tenere in piedi l’attenzione al problema”.

Doretto Marinazzo, consigliere nazionale di Legambiente, è più categorico: “La copertura del carbonile, per come è andata, può sembrare una conquista, ma in realtà tutto ciò avviene con grande ritardo, essendo la questione in gioco sin dal 1996.

SO2 da 10.500 milioni di tonnellate annue a 8.500:
-19%;
NOx da 8.600 a 7.500
tonnellate annue: -13%;
polveri sottili da 1000 a 610
tonnellate annue: -39%
CO2 da 15,8 milioni di tonnellate
l’anno a 10, 59 – 33%

“Se poi si guarda a quanto scritto in quella famosa convenzione, non siamo proprio a posto. Ad oggi Enel nemmeno parla di metano. Questo è anche comprensibile, poiché tecnicamente la riconversione è difficile e costosa. Se ne deduce – spiega Marinazzo – che lo scopo reale dell’azienda nel ’96 era quello di ripartire e di sciogliere l’ordinanza sindacale che l’aveva bloccata.”.

Ancora più dura la Uil, che denuncia la decisione di Enel di basarsi sui dati del 2004, quando fi no al 2006 la produzione di energia è raddoppiata in ragione del consumo di carbone aumentato del triplo: fatti che non giustificano il licenziamento del 30% del personale diretto impiegato in centrale. Il territorio, secondo la Uil, non guadagna niente dalla presenza dell’azienda a Brindisi, perché Cerano è stata “ridotta ad una succursale di ditte esterne che si dividono gli appalti”.

Le risposte dell’Enel lasciano insoddisfatti soprattutto gli autori di alcuni dei numerosi studi che si sono susseguiti nel corso degli anni. È il caso delle analisi effettuate dalla Direzione qualità della vita del ministero dell’Ambiente e validate dall’Arpa, che hanno rilevato la presenza di pesticidi e metalli pesanti oltre i limiti consentiti nelle coltivazioni di ortaggi destinati alla vendita, nel sottosuolo e nella falda profonda del territorio compreso tra Brindisi e Cerano.

Franco Caiulo
è il coordinatore dell’associazione “Vittime del petrolchimico”: a partire dal 2000 ha raccolto le cartelle cliniche di 231 colleghi di lavoro deceduti per mali ascrivibili al loro impiego nel settore chimico di Brindisi.  Durante la sua ricerca ha avuto contatti anche con gli agricoltori della zona colpita dai fumi di Cerano: “Conosciamo i contadini che hanno terre da quelle parti e non possono coltivare piante dal fusto esile come piselli e pomodori, che si colorano di nero e non sono più buone. L’Enel porta i bambini in centrale per far vedere come sono lucidi i tubi e come funziona il processo di produzione, ma nessuno ha mai spiegato ai bambini come si anneriscono le foglie dei peschi e dei limoni”.

“Io – prosegue – ho portato quelle foglie ai giornali perché le vedessero: i contadini sono costretti a piantare barbabietole e carciofi , insomma piante dal gambo robusto, ma non so quanto queste siano buone. Eppure nessuno si muove, i contadini stessi non denunciano, anche perché quando si sapeva delle foglie annerite qualcuno faceva dei dispetti, come andare a bruciare o tagliare le piante contaminate”.

Tra gli studi effettuati sull’area sono importanti quelli eseguiti da Agenda21 nel 2003 e dal Comitato consultivo tecnico per il rispetto degli accordi della Convenzione del ’96. A entrambi ha partecipato l’oncologo Claudio Pagliara, che snocciola un lungo elenco derivante di suggerimenti indirizzato agli attori istituzionali.
“Stabilita l’emissione di sostanze nocive – esordisce il dottore – bisognava valutare l’entità dei loro effetti sulla salute. Per realizzare un calcolo realistico del rapporto tra costi e benefici del polo energetico brindisino, si suggerì di realizzare un registro mortalità-tumori. In relazione alla possibilità che tali inquinanti potessero combinarsi e produrre effetti sconosciuti si suggerì anche un biomonitoraggio”.

Quest’ultimo avrebbe riguardato anche il controllo della qualità dei combustibili utilizzati, rilevando anche il rischio di un’eventuale radioattività. Nessuna delle possibilità è mai stata valutata.

Molto noti gli studi epidemiologici svolti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), riguardanti anche i comuni di Carovigno, S. Pietro Vernotico e Torchiarolo, nel quinquennio 1990-1994. Gli Standardized mortality ratio (Smr), rapporti decessi osservati /decessi attesi rispetto al trend pugliese, registrava preoccupanti eccedenze nella mortalità generale (+7%) e nella mortalità per cause tumorali (+13,6%).
Si notò come i dati risultassero sproporzionati per gli uomini,  maggiormente impiegati nel polo energetico e chimico brindisino.

Uno dei fattori fondamentali della salvaguardia ambientale è la prevenzione, che non va di pari passo con il progresso scientifico, necessitando di tempi più lunghi per confermare o ridimensionare la percezione del rischio avvertita dalla popolazione. Ciò di cui più si avverte la mancanza nell’area brindisina è l’esistenza di studi integrati, completi e indipendenti.

Il caso Torchiarolo
“Abbiamo conosciuto la gente di Torchiarolo: un paese castigato dai tumori”: la constatazione di Franco Caiulo introduce un aspetto recente delle tematiche connesse al problema Cerano.

La vicenda assume contorni vaghi, assumendo toni nerofumo se parliamo di responsabilità: un paese è ammalato e la colpa non è di nessuno. Per fortuna un gruppo di ragazzi ha deciso di denunciare questa situazione, giocandosi la carta del movimento, nella speranza che l’unione possa fare la forza. Giovanni Lettera, Vincenzo De Rinaldis e Giuseppe Perruccio stanno lavorando alla realizzazione di un comitato “No Coke”, contro il carbone, appunto, sulla falsariga dei successi ottenuti dall’omonima rete laziale. I rilevamenti dell’Agenzia per la protezione ambientale (Arpa) effettuati tra dicembre e febbraio scorsi rilevavano un aumento del pm10 e del monossido di carbonio nelle aree a sud di Brindisi, “evidente conseguenza delle attività degli impianti” brindisini.

L’Enel si è affrettata a smentire questa correlazione dimostrando di aver rispettato l’ambiente avvalendosi dei dati del monitoraggio effettuato dal Centro elettrotecnico sperimentale italiano (Cesi) di Milano.

L’inquinamento sarebbe dovuto ad una non meglio identifi cata “altra natura”, come si legge nel comunicato diramato il 18 maggio. La prima azione dei ragazzi del “No Coke” è stata quella di andare a controllare sul sito del Cesi chi fossero i soci azionari.

Sorpresa: gli azionisti di maggioranza dell’istituto di rilevamento sono Enel e Terna, produttore e distributore della rete elettrica nazionale. Tra i soci minoritari figura anche Edipower. Resta ancora il dubbio se dar retta al monitoraggio istituzionale o a quello indipendente.

STUDIO DELL’OMS

Per i dati dello studio OMS si ringrazia il prof. Emilio Gianicolo, Medicina Democratica, per averci fornito in anteprima il numero della rivista online SalutePubblica  (www.salutepubblica.org)

“L’eccesso delle malattie tumorali è spiegato in parte dal tumore polmonare (+18,8%). Si registrano valori in eccesso per il gruppo di cause del sistema linfoemopoietico”.  Questi tumori del sangue si presentano globalmente in eccesso statisticamente significativo: +32,8%, al loro interno i linfomi non Hodgkin in eccesso dell’84,6% mentre le leucemie mostrano un eccesso non significativo statisticamente del 30,7%. Quote percentuali in ordine decrescente *

*I dati sono aggiornati al mese di Maggio 2007

Il CESI è composto da:
ENEL S.p.A.
TERNA S.p.A.
Ansaldo Trasmissione & Distribuzione S.p.A.
Edipower S.p.A
ABB S.p.A
Endesa Italia S.p.A.
Siemens S.p.A.
Prysmian Cavi e Sistemi Energia S.r.l.
Nuova Magrini Galileo S.p.A.
Tirreno Power S.p.A.
SOGIN S.p.A.
AEM S.p.A. – Az. Energetica Municipale – MI
Edison S.p.A.
Bticino S.p.A.
Iride Energia S.p.A.
ITALCEMENTI S.p.A.
Passoni e Villa S.p.A.
Areva T&D S.p.A.
Seves S.p.A.
O-I Manufacturing Italy S.p.A.
IMQ S.p.A.

Andrea Aufieri, L’impaziente n.15 giugno/luglio 2007

Brindisi, processo al petrolchimico

Sono 231, di cui soltanto 14 ancora in vita. Sono le vittime del Petrolchimico di Brindisi. Il 19 ottobre è prevista quella che potrebbe essere l’ultima tappa della decennale odissea giuridica attraversata dai familiari e da quello sparuto numero di ex operai, i quali oramai si possono considerare solo dei “sopravvissuti”. Sarà quella l’ultima udienza preliminare, prima di un procedimento penale che può anche non aver luogo, vista la richiesta di archiviazione del pubblico ministero Giuseppe De Nozza. Le ipotesi di reato contestate a 68 dirigenti sono di strage, lesioni personali, disastro doloso, rimozione od omissione di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Le accuse più gravi si basano su ipotesi che la comunità scientifica non ha unanimemente confermato, per motivi non sempre legati alla scienza, almeno a vedere i committenti di alcuni di questi studi.

Una storia troppo lunga

“Il processo è ormai antico, parliamo di preistoria”. L’avvocato Stefano Palmisano, 38enne di Fasano, si occupa di diritto penale del lavoro, dell’ambiente e di colpa medica. Segue il procedimento da quando è cominciato, essendo il rappresentante di numerose vittime e familiari. Ed è lui stesso ad illustrarci le tappe salienti.
“Era il 1996 – racconta – quando Luigi Caretto, ex operaio di Brindisi e di Porto Marghera, inviò un esposto a Felice Casson, il magistrato veneziano che istituì il primo maxi processo al Petrolchimico di Porto Marghera. Casson dovette rinviare a Brindisi la causa di Caretto, che lì aveva lavorato per gran parte degli anni. Il processo venne dunque istruito da Nicola Piacente e, nel 2000, passò a Stefano Bargero e De Nozza. I due pm disposero il sequestro degli impianti di Brindisi nel novembre dello stesso anno”.

“Nel 2002 – prosegue Palmisano – in seguito al trasferimento di Bargero e all’affi damento dell’intero corpus delle indagini all’attuale pm, venimmo a sapere, tramite indiscrezioni di stampa, che De Nozza avrebbe chiesto l’archiviazione”. Il motivo che sta alla base della richiesta è “un nervo scoperto di gran parte del diritto penale del lavoro”, ovvero la mancanza di prove del nesso causale tra esposizione al cancerogeno principale, il pvm/pvc (monovinilcloruro o polivinilcloruro, secondo la fase di produzione in cui si trova), e l’insorgenza delle malattie, relazione dimostrata solo nel caso del rarissimo angiosarcoma epatico. A Brindisi, però, non si è registrato nemmeno un caso di questa malattia, cosa che motiverebbe la richiesta di archiviazione. È partendo da ciò dunque che Palmisano muove le critiche alle scelte ed ai metodi del pm. “Tra le falle delle indagini preliminari – spiega il legale – c’è l’attribuzione di un ruolo marginale a tutte le altre cause di tumore, viene cioè ignorata la circostanza palese che il Petrolchimico fosse un ricettacolo di nocività tra le più micidiali, cancerogene e tossiche. E questo non perché non vengano riconosciute la pericolosità e la dannosità, ad esempio, dell’amianto. Al contrario: siccome l’amianto lo si ritrova dappertutto a Brindisi, non si può provare che il mesotelioma che ha ucciso gli operai derivi dall’esposizione professionale”.

Pertanto, secondo Palmisano, “la Procura della Repubblica di Brindisi non ha fatto quanto avrebbe dovuto nell’assolvimento di alcuni fondamentali passaggi processuali. Siamo riusciti ad opporci – sottolinea l’avvocato – all’archiviazione solo un anno e otto mesi dopo averlo saputo dai giornali, e soltanto dopo che il comitato Vittime del Petrolchimico aveva fatto il diavolo in quattro, con sit-in, convegni e appelli alla cittadinanza”.

La presunta indimostrabilità

Un’altra forte critica mossa dal legale è che per “individuare il vero scoglio di questo processo, basta vedere come si relaziona il pm con la comunità scientifi ca”. Il rinvio del processo dal 15 giugno al 19 ottobre è motivato dall’esito di certi studi che dovrebbero essere resi pubblici a Lione, al Congresso dello Iarc, l’International agency for research on cancer. Tuttavia, sull’esito del processo, è in dubbio la rilevanza ed effi cacia di tali rilievi. De Nozza, infatti, ritiene che non si possa arrivare ad una condanna per omicidio colposo in quanto la comunità scientifica non è unanime sulla questione del nesso causale. “Il punto è – precisa Palmisano – che la stessa è fatta di uomini. Con ciò voglio dire che certi luminari non sono immuni dalle lusinghe del vil danaro, del potere e delle gratificazioni che non siano prettamente scientifiche.Spesso questi uomini hanno rapporti strettissimi con le imprese”.

A questo punto il legale fa un esempio: “Nella requisitoria Casson citò il caso dell’epidemiologo Richard Doll, che aveva dimostrato l’unico nesso ammissibile tra esposizione a cvm e angiosarcoma. Nel corso della  requisitoria finale di Casson, durata nel complesso 40 ore e riportata sul libro pubblicato a settembre da Sperling & Kupfer La fabbrica dei veleni, si fece presente che Doll aveva sempre lavorato per i produttori di cvm, ma in alcuni suoi studi del 1988, riconosceva, oltre al rischio di angiosarcoma, anche quello del tumore ai polmoni e i rischi per la popolazione, assunti negati successivamente, come il pm di Venezia riuscì a dimostrare citando un documento acquisito per rogatoria internazionale dall’Inghilterra. Da questo risultava che Doll era sul libro paga dell’Enichem con il preciso mandato di confutare l’esistenza del nesso causale”.

“Secondo De Nozza – contesta Palmisano – il dottor Doll è soggetto al di sopra di ogni sospetto”. Ed a marzo il pm ha portato dodici nuovi studi scientifici in materia di esposizione al cvm/pvc, che sembrano rafforzare la non unanimità della comunità scientifi ca. “Pm e consulenti sono arrivati a conclusione basandosi unicamente sugli abstracts, cioè il riassunto del contenuto integrale di tali studi”. “A giugno – annota ancora Palmisano – grazie alla competenza di Medicina democratica, ho ottenuto gli studi integrali e ho constatato che, tra questi, solo cinque negavano il nesso tra esposizione al cvm e l’insorgenza di tumori ai polmoni”. Da quanto emerso dagli approfondimenti fatti dall’avvocato, in quattro casi su cinque tali studi esaminerebbero situazioni del tutto dissimili da quella di Brindisi, come quella di Baltimora, dove il cvm era marginale nel ciclo di produzione. Inoltre, sono stati considerati anche due studi commissionati proprio dalle industrie della plastica: è il caso del lavoro dell’eminente epidemiologo Gary Marsh e altri suoi colleghi, sulla cui intestazione si legge a chiare lettere che il committente è l’Iisrp, l’International institute of synthetic rubber producers, un’associazione commerciale internazionale non profit, formata da 39 corporation situate in 21 Paesi, che producono il 95 per cento della plastica mondiale. Tra le compagnie affiliate c’è anche l’italiana Polimeri Europa srl, un’istituzione scientifica di proprietà dei produttori di plastiche i cui studi sono da prendere quantomeno con le molle.

Questa non è un’eccezione: la dubbia credibilità di certe analisi, anche se condotte da luminari della scienza, è stata addirittura teorizzata. Valerio Gennaro, di Medicina democratica, e Renzo Tomatis, direttore per un decennio dell’International agency for research on cancer, con lo studio Business bias, distorsioni nel mondo degli affari Come gli studi epidemiologici possano sottostimare o fallire nell’individuare accresciuti rischi di cancro e altre malattie (International journal occupational and environmental healt, 2005) hanno analizzato 15 fattispecie. Gli autori spiegano come “malgrado dichiarino la prevenzione primaria come loro scopo, gli studi di potenziali fattori di rischio occupazionale ed ambientale per la salute finanziati, sia direttamente che indirettamente, dall’industria, è probabile che abbiano risultati negativi”.

Sempre dell’autorevole Iarc è uno studio del ’91, condotto dal professor Lorenzo Limonato, liquidato perché “per diverse cause, la mortalità è stata significativamente inferiore alle attese”. Eppure lo stesso studio rimarca “l’incremento di mortalità per tumore del polmone tra gli addetti alla produzione di cvm”. L’aggiornamento del 2001, operato dal dottor Jerry Ward, conferma il dato, attribuendone le cause sia al cvm che al pvc. “La teoria Gennaro–Tomatis – conclude Palmisano – contrasta con l’assunto giuridico seguito da De Nozza, in base al quale nella comunità scientifi ca non esiste unanimità tale per cui si possa affermare la responsabilità piena degli imputati. Questo assunto segnerebbe la morte di un pezzo del diritto del lavoro. L’autore di tale assunto, però, è Federico Stella, coordinatore della difesa degli imputati al processo di Venezia, ulteriore evidenza che prima di applicare le teorie dovremmo conoscere i loro autori”.

Un “sopravvissuto”

“Produrre, consumare, morire! È questo che bisogna fare qui”. Con queste parole i superiori avrebbero schernito gli operai del petrolchimico di Brindisi, che denunciavano le scarse condizioni di sicurezza e l’inesistente attenzione alla loro salute. Tra quegli operai c’era anche Franco Caiulo, coordinatore del comitato Vittime del Petrolchimico.

Lo abbiamo incontrato a Torre Rinalda, dove il suo primogenito Antonio, 33 anni, può giocare e socializzare con i ragazzini: “Io, mia moglie Anna e la sorella minore ci prodighiamo per non fargli pesare la vita”.  Le crisi epilettiche e il ritardo mentale di Toti sono state per l’ex operaio una prova che gli è costata molto sul piano umano ed economico, e che lo ha posto in condizione di accettare sempre ciò che gli veniva proposto in fabbrica.

“Quando nel 1973 mi ha assunto l’Eni – Enichem – osserva Caiulo – pensavo di continuare a fare il mio mestiere, l’elettricista montatore. Invece mi hanno mandato a fare la pulizia di autoclavi nel reparto P18A, dove si polimerizzava il cvm per la plastica bianca. Ogni sei o sette ore bisognava pulire, scendendo dentro, perché spesso quella roba si incrostava. Quando andava bene, bisognava eliminarla con un martello, altrimenti si lavorava anche otto ore per le fasi di scrostamento. Tutto quel tempo inalando cvm poteva dare diversi effetti: in una mezzora ci si sentiva su di giri, un po’ di tempo in più per l’effetto taurina, ancora un po’ e si sveniva. Svenire era una seccatura anche per i colleghi che si calavano nelle autoclavi con le corde e tiravano su i malcapitati”.

Nel 1978 Caiulo riuscì ad ottenere l’incarico sperato sin dall’inizio. Tuttavia “in questo modo – rimarca l’uomo – giravo continuamente per tutti i reparti ad operare controlli, manutenzione e riparazioni, esponendomi ad ogni tipo di sostanze”.

Interrotto un attimo il racconto, sospirando, Caiulo mostra le macchie che ha per tutto il corpo, dovute alla chemio. “Lo stesso anno – riprende – durante una delle visite mediche trimestrali, mi riscontrarono tracce di sangue nelle urine. Per vent’anni è andata avanti così, con quelle perdite, fi nché nel 1998, con una visita medica fuori dalla fabbrica, ho scoperto di avere un tumore grande 2,5 cm alla vescica”.

Oggi Caiulo non si arrende, continuando l’opera di Luigi Caretto, morto nel 2002. L’ex operaio del Petrolchimico ha messo su il comitato, composto dai parenti delle 231 vittime, compresi quei pochi rimasti ancora in vita, col quale ha intrapreso il procedimento penale. E adesso, se il processo non dovesse aver luogo, “tutta la fatica – afferma tristemente Caiulo – sarà inutile, vorrà dire che non contiamo niente per nessuno”. E chiude: “L’opinione pubblica se ne infischia, moriremo in silenzio”. Intanto però per ora c’è un numero, il 231, che parla da sé.

 

Andrea Aufieri L’imPaziente n.16, ottobre/novembre 2007

Teatro Astràgali, fisiologia mitralica

Terza e momentaneamente ultima puntata del viaggio tra le realtà che hanno fatto la storia del teatro a Lecce. 

“L’attore è un’atleta del cuore” scriveva Antonin Artaud, a sottolineare il doppio sforzo di ogni uomo di teatro, tutto teso a conoscere e senti­re attraverso il corpo, un corpo senza fronzoli, decostruito ed essenziale. Da questo pensiero prende le mosse “Il corpo minimo”, workshop inter­nazionale a cura di Astràgali Teatro, che si terrà in tre tranches tra ottobre e dicembre (dal 20 al 24 ottobre, dal 10 al 14 novembre e dall’1 al 5 dicembre).

Ma l’attenzione ed il lavoro rigoroso sul corpo sono ormai al centro della ricerca artistica, ed il contributo personalissimo di Astràgali è evidente in ogni spetta­colo e se ne potrà leggere anche sull’ultimo numero del “Melissi” di Besa, significativamente intitolato “Il corpo in azione: dall’antropologia al teatro”.

Intervistiamo Fabio Tolledi, regista e direttore artisti­co della storica compagnia.

Tolledi
Fabio Tolledi

Direttore, perché una riflessione sul corpo minimo?

“Il lavoro organico che svolgiamo ruota attorno al con­cetto del “corpo dell’arte”: affronteremo con le basi della nostra esperienza le tecniche fondamentali del teatro contemporaneo, dove il corpo assurge a ruolo centrale, senza che questo possa definirsi una moda. Perché la poesia di questo inizio di secolo, nella sua relazione con la contemporaneità più spinta, si espri­me attraverso il corpo. L’attore è un corpo danzante, sente e vive corporeamente. E per questo, perché la vita dell’attore è nell’apprendere attraverso il corpo, è necessario lavorare con impegno costante e l’ausi­lio di tecniche dell’estremo oriente, ma anche, direi, dell’estremo occidente. Un processo duro e rigoroso per arrivare ad una concreta conoscenza della pratica teatrale. Si lavora molto, ma ci si diverte anche”.

Quale indirizzo di ricerca segue Astràgali?

“Qualcuno dice che siamo off o underground, ma con coerenza lavoriamo sulla decostruzione applicata al teatro: molti citano Artaud e noi cerchiamo di lavorare a partire da lui.  La nostra riflessione trova applicazione sul terreno di confine che sta tra teatro e poesia, che non dà luogo ad un teatro di parola ma di immagini. Seguendo questo corso abbiamo cercato di capire quale possa essere una linea meridiana del teatro, incontrando il pensiero di Franco Cassano, che è anche un frequentatore del nostro teatro”.

Cosa caratterizza la linea meridiana del teatro?

“Anzitutto noi non ci dimettiamo dal sud, ma rilanciamo una nuova soggettività, che è meridiana e questo parte dalla costruzione di una rete comune che non serve a fare progetti per guadagnare qualche soldo, ma è una linea coerente e organica di lavoro. La tragedia, ad esempio, è una forma di poesia, non fa male ricordare questo, ed è anche una delle radici comuni del mediterraneo come lo è la comicità, non cabarettistica, ma corporea al limite dell’osceni­tà. In questa linea comune al patri­monio del mediterraneo offriamo il nostro percorso”.

Dalle pagine di questa rubrica cerchiamo di far dialogare gli attori, in senso lato, della scena leccese. Qual è la sua opinione ri­guardo alla “rete comune”?

“Tutte le strutture hanno traiet­torie diverse: Astràgali fa ricerca teatrale, scrittura, produzione, ricerca visiva e sonora. Abbiamo poco interesse a dirci unica real­tà esistente sul territorio come altri fanno. Questo territorio ha costantemente bisogno di atten­zione, di relazioni, e il teatro vive con la capacità di relazione. Ad esempio, con la residenza teatra­le che realizzeremo tra Calmiera e Zollino, progetto speciale del Teatro pubblico pugliese, cerche­remo di fornire passaggi struttu­rali in un territorio significativo. Vogliamo contribuire alla crescita dell’animazione territoriale, per­ché riconoscere l’altro è vitale nelle pratiche culturali. Le realtà grandi e piccole del territorio con­tribuiscono a rendere organico il sistema: un griot canta che anche i rami secchi fanno una foresta, ma l’approccio ministeriale dice di tagliarli, e a volte chi ha fatto il nostro stesso percorso dimentica che il teatro ha bisogno di capaci­tà relazionale e non di concorren­za economica”.

 Luoghi_Astràgali, il gioco del teatro vivo

Astràgali, il cui nome rievoca l’antesignano del gioco dei dadi, è il più longevo gruppo teatrale leccese, fondato nel 1981 da Marcello Primi­ceri e Carla Petrachi, riconosciuto dal Ministero per i Beni e le attività culturali come compagnia teatrale d’innovazione, ed è anche membro cooperante dell’International theatre institute dell’Unesco. Nonostan­te tutto ciò non beneficia di contributi stabili da parte degli enti pubbli­ci, men che meno dal Comune di Lecce.

Di strada ne ha fatta tanta solo a livello artistico, perché in 27 anni ha cambiato sede solo una volta, trasferendosi da via Dogali, presso via Leuca, nell’attuale sede di via Candido. Un trasloco che Primiceri fece appena in tempo a festeggiare, prima di morire nel dicembre ’87, di ritorno dai pellegrinaggi baresi per il riconoscimento della compagnia che ancora oggi sono una piaga della programmazione e della pro­gettualità pugliese. Il primo progetto di Astràgali, realizzato nel 1984, è “Rito Tragedia Rito”, un incipit del dialogo sulle pratiche teatrali che riesce a fare arrivare a Lecce anche l’equipe “L’Avventura” di Jerzy Grotowski. Un’importante attività del teatro è stata quella di rivisita­re i luoghi architettonici più affascinanti del Salento rendendoli par­te integrante della scommessa del teatro vivo, come la realizzazione dello spettacolo “Sulle tracce di Dioniso – i porti del mediterraneo”, realizzato con allestimenti speciali a Marina Serra di Tricase e nei porti vecchi di Zakynthos (Grecia) e di Limassol (Cipro). Dal 2002 parte il progetto “Il corpo dell’ar­te”, che esplora le relazioni tra teatro e live art performance, nell’ambito del pro­gramma dell’Unione europea Cultura 2000 in collaborazione con teatri, università, musei, gallerie di Italia, Grecia, Belgio. Nel 2003 comincia un percorso tra le culture che attraversano il Mediterraneo, iniziato con lo spettacolo “Antigone- anatomia del­la resistenza dell’amore” e culminato ne “Le rotte di Ulisse – per una critica della violenza” che coinvolge Grecia, Cipro, Malta, Turchia, e vede rappresentati diversi episodi dell’Odissea e dell’ Ulisse di Joyce, per arrivare allo spettacolo finale di sei ore “Ulysses’gramophone – the Wake”.

Oggi è in corso il progetto “Fronte/frontiera-dinamiche dell’inclusione dell’altro nel teatro”, sostenuto dal programma dell’Unio­ne europea Cultura 2007, in cui la possibilità di un teatro multilinguistico, che emer­ge dall’incontro di lingue ed esperienze diverse, si pone contro l’idea di frontiera e separazione, come principi di conflitto.

Andrea Aufieri, L’impaziente n.20, ottobre/novembre 2008.

Le altre due puntate della rubrica sul teatro ospitata dall’imPaziente:

Puntata 1 – Fondo Verri
Puntata 2 – Cantieri Teatrali Koreja

 

È già passata l’università del futuro

 

Il governo Prodi bis, caduto dopo soli due anni, aveva raggiunto l’obiettivo di far approvare lo statuto degli studenti, anticamera dell’approvazione dell’agognata Legge sul diritto allo studio. Il racconto di uno splendido fallimento nell’intervista al sottosegretario al Miur Nando Dalla Chiesa lo potete leggere qui.

Grind House. Questo potrebbe essere il titolo dell’operazione “università del fu­turo” che viene delineandosi con il Berlu­sconi-quater. Come nel film di Quentin Tarantino, omaggio ai capannoni improvvisati che proietta­vano b-movies negli Usa dei 70’s: caos, sangue e carne di porco di certi punti fermi che abbiamo, leggi concetto di università, appunto, che diverrà davvero una roba di serie b.

Si possono fare due obiezioni a questa conside­razione: non c’è molta differenza con il passato, anzitutto, e poi i film del virtuoso del Tennessee sono pure belli.

A contestare la prima obiezione è dedicato que­sto approfondimento. Per quanto riguarda la se­conda, a parte il detto de gustibus eccetera, non si può obiettare: sarà molto bello soprattutto per chi ci guadagnerà su. E con la neoministra alla Pubblica istruzione, all’università ed alla ricerca scientifica (Mipiur la nuova sigla) Maristella Gel­mini, nipote dei controversi fratelli ecclesiastici Pierino ed Egidio, non è tanto difficile capire chi godrà della festa splatter.

Il giovane avvocato di Leno (Brescia) è apparsa inesperta ai più, ma non è così se si considera­no la sua vicinanza agli ambienti storicamente schierati per l’istruzione privata, e soprattutto la sua proposta di legge presentata in parlamento lo scorso 5 febbraio, che di fatto determinerà  il programma del Popolo delle libertà per il prossimo lustro.

Principio cardine del programma è la pie­na applicazione dell’autonomia scolastica e universitaria attraverso il rafforzamento dei poteri organizzativi e disciplinari di presidi e rettori, la distribuzione di “voucher formati­vi”, cioè bonus alle famiglie da spendere nelle scuole pubbliche o private.

Se questo non bastasse, si prevedono la li­beralizzazione della professione di docente attraverso la convocazione da parte de­gli istituti (scuole e università) e la conseguente possibilità,per ogni istituto, di stipulare con i singoli docenti contrat­ti integrativi di tipo privatistico a compensare l’abolizionedi contratti a tempo indeterminato, ma rinnovabili ogni trien­nio a seguito di un test.

I fuoricorso pagheranno una sorta di morosità per il tempo che perdono e saranno introdotti i prestiti d’onore per i meri­tevoli. Il tutto nel contesto della privatizzazione di tutti gli isti­tuti pubblici di ricerca e la soppressione degli enti pubblici ina­deguati e nella “libera, graduale e progressiva trasformazione delle università in fondazioni associative, aperte ai contributi dei territori, della società civile e delle imprese” ed il rafforza­mento della competizione tra atenei.

Lo statuto degli studenti. Rimpianto o resistenza?

È troppo presto per valutare tutti gli effetti di tali proposte e soprattutto per discernere tra possibilità e fantasie. Quello che è certo è che gli studenti non vogliono tutto questo e che il Gelmini-pensiero contrasta con il lavoro svolto finora. A partire dall’approvazione dello Statuto degli universitari.

È dagli anni Ottanta, quelli della Pantera, che si cerca di racco­gliere l’eredità delle lotte studentesche cercando di organiz­zare dal basso quei diritti che l’articolo 34 della Costituzione sancisce come fondamentali. Dopo quasi trent’anni il dibattito è giudicato maturo dalle istituzioni: l’ex ministro Fabio Mussi prende atto della discussione in seno al Consiglio nazionale degli studenti (Cnsu) ed incarica il sottosegretario Nando dalla Chiesa di redigere lo statuto attenendosi alle proposte degli studenti. Nel giugno 2007 è tutto pronto per le sperimentazio­ni pilota, anche se il sottosegretario è molto criticato: “Spesso i rappresentanti non rappresentano veramente – commenta intervistato da L’imPaziente prima di analizzare lo statuto – se è vero che tutti gli studenti cui ho enunciato i contenuti dello statuto si sono sempre dichiarati soddisfatti”.

Federica Musetta, coordinatrice nazionale per l’Unione degli studenti universitari (Udu), sottolinea il ruolo importante as­sunto dalla sua associazione nel dibattito: “L’Udu si è sempre battuta per i diritti degli studenti, è comunque positivo che si cominci un percorso concreto. Ci aspettavamo l’approvazione per legge, ma il governo è caduto”. Alla luce delle elezioni po­litiche le critiche si ammorbidiscono in confronto alle vacche magre che arriveranno, “ma le divergenze maggiori -continua Federica, confermando quanto dichiara Dalla Chiesa- riguarda­vano soprattutto oneri economici che lo Stato ancora non ha il coraggio di assumere”.

Abbandonando la diplomazia la studentessa di Matematica a Pisa prosegue: “lo scenario non è idilliaco, stando ai pro­grammi. L’università dovrebbe essere impostata in modo diverso da quanto da noi previsto. Non condividiamo anzitut­to la competizione tra atenei/imprese e nemmeno la promessa assegnazione di un bonus per far scegliere alle fami­glie tra scuola pubblica e scuola privata quando sarebbe stato utile destinare quei fondi ad altro impiego. Le urgenze sono tante”.

Intanto ora c’è un testo composto di 58 articoli organizzato in 11 titoli dal qua­le partire per porre un freno, o quanto meno un controllo, alle riforme del nuovo governo. In teoria ogni matricola dovreb­be riceverne copia, staremo a vedere se ognuno ne farà uno strumento di resi­stenza o dovremo intenderlo come qual­cosa che poteva essere e non è stato”.

Laboratorio Puglia

Al termine del periodo di sperimentazione pilota, lo statuto è proposto agli atenei di ogni regione: dopo una prima fase di discus­sione anche l’Università del Salento adotta integralmente il testo.

Bastian contrari sempre di targa Udu. Fran­cesco Mignogna, coordinatore locale, ci spiega perché: “Siamo stati tra i primi ad adottare integralmente lo statuto, ma si può migliorare tanto la sezione che riguarda gli studenti lavoratori in quanto non è garantita la possibilità di se­guire lezioni on-line e dovrebbe essere più chiara quella sul carico didattico, ma nel nuovo regolamento di ateneo, di futura anche se non scontata adozione, tutto ciò dovrebbe essere appianato, anche grazie al risultato delle elezioni studentesche che ci hanno premiato, dandoci l’opportunità di spingere per queste riforme”.

Proprio la Puglia, colpita da scandali che sottolineano l’illegalità di certe pratiche cui ricorrono docenti e discenti, si è dimo­strata capace di inventarsi laboratorio di diritti, con l’approva­zione recente del Codice etico, che tu­telerà gli studenti dal palese nepotismo che ha portato il caso Bari sulla scrivania di Mussi. Proprio nel codice di compor­tamento approvato a Bari si sottolinea che la comunità universitaria riconosce il lavoro dei propri docenti, considerando la dignità, l’integrità e l’onore dei profes­sori come “patrimonio istituzionale, da salvaguardare e promuovere ispirandosi ai valori, universali per loro natura e fina­lità, custoditi nella Costituzione della Re­pubblica italiana e perseguiti anche nelle istituzioni comunitarie, europee ed inter­nazionali, con particolare riferimento alla promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica e alla libertà dell’arte, della scienza e dell’inse­gnamento”.

Al di là delle pur essenziali dichiarazioni di principio, comunque, Mignogna ci ricorda la desolante situazione: “A livello regionale i fondi che dovrebbero garantire il diritto allo studio sono troppo pochi e male impiegati”.

Si naviga a vista, insomma, e certo non nelle condizioni ideali per affrontare una tempesta.

 

Andrea Aufieri, L’imPaziente n.19, maggio-giugno 2008

Koreja, il teatro con la “k” maiuscola

Passo dopo passo. Il teatro secondo Franco Ungaro, direttore organizzativo dei Cantieri Teatrali Koreja.

Ungaro
Franco Ungaro

Dal 19 al 28 giugno il Teatro romano di Lecce ospita la nuova edizione di Ecumenes (Eredità culturali del Mediter­raneo nelle eccellenze storico-architettoniche), cui dedi­chiamo spazio in questa rubrica. Il 24 e il 25 giugno i Can­tieri teatrali Koreja presenteranno La passione delle Troiane, uno spettacolo di Antonio Pizzicato e Salvatore Tramacere tratto dal dramma di Euripide. Così come per altre opere che hanno segnato la storia della compagnia, da Dovevamo vincere a Brecht’s dance e Acido fenico, la ricerca si concen­tra nelle possibilità espressive del corpo e nel legame tra teatralità, musica e tradizione del territorio. A raccontarci questi felici intrecci è Franco Ungaro, storico direttore or­ganizzativo del gruppo.

Direttore, dove si concentra l’attuale ricerca ar­tistica di Koreja?

“Lavoriamo sul teatro musicale, con cantanti e musicisti in scena: le origini della tragedia greca sono proprio musicali, essa era movimento, danza, coralità. Questo lavoro è intri­so fortemente del patrimonio musicale e culturale dell’area grecanica, tanto che vedrà protagonista Ninfa Giannuzzi, pre­senza fissa della Notte della Taranta”.

A maggio si è tenuto un corso avanzato di for­mazione: quanto conta saper fare il secondo passo per un attore?

“La tipologia prevalente di formazione che offre il Salento è quella di base: lavoro su voce, corpo, dizione. Non c’erano occasioni di formazione specialistiche. Quest’anno abbiamo sposato il progetto Interreg “Nuovo attore nuovo”, che ri­guarda esperti e laureati. Era un progetto pilota per la Puglia e la risposta è stata eccezionale per il numero di partecipan­ti, ma anche per la qualità dello spettacolo messo in scena, senza contare le relazioni create con addetti ai lavori di fama e competenza”.

Quale caratteristica un attore ed uno spettacolo devono possedere assolutamente?

“La risposta effettivamente è unica: il segreto dell’attore e del teatro è soprattutto nella capacità di emozionare gli spetta­tori. Solo quando la bravura tecnica è orientata alla ricerca di questo impatto ha senso avere una presenza scenica”.

È vero che “Il teatro fuori dal comune” è molto più di uno slogan?

È noto che Koreja in questi anni non ha potuto avere una relazione con l’amministrazione, caso unico di man­cato sostegno ad una compagnia stabile riconosciuta dal governo.  Anche la nuova giunta a parole dimo­stra una sentita adesione al nostro la­voro, ma nei fatti non succede nulla, visto che i nostri progetti non sono mai approvati.

Qual è il difetto che distingue la realtà leccese?

L’opinione diffusa per cui i progetti teatrali che producono cultura deb­bano dialogare: nel mondo dell’arte la competizione non economica è vitale. L’originalità delle idee e delle poetiche non può che essere positiva. Il giudizio sulla qualità del lavoro delle compa­gnie salentine lo faccia il pubblico.

Eppure quella leccese è una realtà viva ed in fermento, non crede?

Molto fermento e molte attività, ma tutto è limitato al territorio: solo po­chi entrano nei cartelloni di altre città. Questa è un’evidenza della qualità dei lavori, poi c’è anche una debolezza or­ganizzativa che non consente a queste compagnie di curare il mercato oltre il Salento.

Luoghi_Teatro con la “k”maiuscola

Korelja è il griko per la fanciulla, il coro in greco: dalla purezza e dall’azione corale e non sottoposta a leader nasce Koreja, l’idea di teatro di quattro ragazzi di Aradeo, Franco Ungaro, Stefano Bove, Franca Carallo, Sal­vatore Tramacere, che nel 1983 prendono in affitto alcune stanze del castello Tre masserie per incominciare il duro training che li porterà a proporsi nelle estati salentine prima e in giro per l’Italia poi.

L’esperienza, raccontata dallo stesso Ungaro nel libro Dimettersi dal Sud(Laterza edizioni della Libreria, 2006), è così singolare da attirare artisti e curiosi da ogni dove. Lasciano un segno indelebile Iben Nagel Rasmussen e Cesar Brie, oltre ai maestri Ferdinando Taviani, Nicola Savarese ed Eugenio Barba. Le influenze arrivano anzitutto dal mondo della musica e del cinema: Brian Eno, Philip Glass, Stanley Kubrik e David Lynch per fare qualche esempio, ma non si può prescindere dal pioniere Carmelo Bene.

È del 1985 il debutto con lo spettacolo Dovevamo vincere, subito invitato a concorsi di alto livello, ma è solo l’inizio perché poi ci sono l’organizzazione di tredici edizioni della rassegna estiva “Aradeo e i teatri” frequentata dalla crema degli attori, dei critici e dei produttori e, nel ’94, la “Notte del rimor­so”, che anticipa il marketing tarantolato. Si forma così l’idea della relazionali­tà e della convivialità che precedono e seguono ogni rappresentazione e che arriverà anche a trasformarsi in rave. Del ’96 la costruzione in senso letterale che oggi ospita i Cantieri a Lecce, una vecchia fabbrica di mattoni abbandona­ta da 25 anni. Del 2000 il primo tentativo che porta i cantanti ad essere attori di una ricerca che trova la giusta alchimia tra sperimentazione e territorio: è l’Acido fenico che vede i Sud Sound System calcare il palcoscenico. L’esperimento del teatro musicale sarà ripreso e compiuto con maggior successo in un paio d’anni con Brecht’s Dance con gli Almamegretta e Molto rumore per nulla.

Oggi i Koreja sono in grado di formare ad alto livello, sono presenti in numerosi progetti Interreg che mirano alla reciprocità delle esperienze, in particolare tra le aree del Mediterra­neo (Factory ed Ecumenes su tutte), senza scordare l’attenzione alla crescita dei bambini e dei ragazzi con il Teatro scuola, una rassegna dedicata ai più giovani.

Andrea Aufieri L’imPaziente n. 19 maggio/giugno 2008

Le altre due puntate della rubrica sul teatro ospitata dall’imPaziente: 

Puntata 1 – Fondo Verri
Puntata 3 – Teatro Astràgali

Dalla Chiesa e il rimpianto di una scuola diversa

Nando Dalla Chiesa, sottosegreta­rio al Miur per La Margherita nella XV legislatura, ci racconta il lavoro intenso per il disegno di legge sul diritto allo studio vanificato dalla caduta del governo Prodi e dall’avvento di Berlusconi, come racconto qui. Forte rammarico per gli studenti, ma non manca il monito a tenere viva l’attenzio­ne. Ripartendo proprio dallo statuto e dai concetti chiave “comunità”, “didattica” e dicotomia “diritti/doveri”.

Onorevole, quale valore assegna allo statuto dei diritti e dei dove­ri degli studenti?

Lo valuto con grande considerazione per­ché ritengo giusto affermare un “diritto di cittadinanza” degli studenti nell’università. È una costituzione per gli studenti, i desti­natari del sistema universitario.

Mi sembra interessante rendere una domanda il primo enuncia­to dello Statuto: “l’università è una comunità umana” prima e “scientifica, di insegnamento e di ricerca” poi?

Nando Dalla Chiesa
Nando Dalla Chiesa

Non credo che l’università di oggi espri­ma esattamente quei concetti: anzitutto non è considerata una comunità umana, e questo indebolisce la responsabilità dei docenti verso gli studenti. L’università non è solo l’anticamera dei concorsi, eppure ha di fatto espulso gli studenti: non c’è attenzione al processo di trasmissione del sapere. La qualità di un ateneo deve dipendere anche dalla didattica. È d’obbligo sottolineare la cen­tralità dei rapporti tra gli attori di questa comunità.

Lo statuto rappresentava l’anti­pasto per la bramata Legge sul diritto allo studio: quanto tempo mancava per il suo avvento?

Uno governa sperando di avere qualche anno a disposizione. Lo statuto era stato presentato a giugno alle Università per la sperimentazione, tra luglio e novembre è stata concordata con le Regioni la fonda­mentale Legge sul diritto allo studio, com­preso il tavolo tecnico. A gennaio questa legge doveva essere approvata, ma il go­verno è caduto. Avevamo pensato anche all’iter successivo, coinvolgendo l’Agenzia nazionale di valutazione che avrebbe in­serito tra i criteri di disamina degli ate­nei quello del rispetto dello statuto. In un anno questo lavoro si sarebbe completa­to con coerenza.

Lo statuto resterà un rimpianto?

Intanto lo abbiamo proposto e gli atenei lo hanno assunto, dunque si potrà partire da lì. Non ci può essere un decreto attua­tivo perché bisogna passare da una legge in parlamento, e questo significa massa­crarne il contenuto, anche se adesso ci sono meno partiti.

Bisogna tenere alta l’attenzione, dunque. Anche in Puglia, dove il diritto allo studio raccoglie in sé l’istanza di tutela della legalità?

Il baronaggio e il nepotismo sono forti nelle università poco aperte. Alcune re­gole aiuterebbero: nessuno dovrebbe in­segnare dove esercita già un suo parente, è così anche per magistrati e carabinieri. Si tratta di tutelare la credibilità della fun­zione pubblica.

Andrea Aufieri, L’imPaziente n.18, maggio-giugno 2008.

Uranio impoverito, paura a Torre Veneri

 

I lavori della nuova commissione d’inchiesta sull’uranio impoverito (qui l’intervista a uno dei suoi membri, il senatore Mauro Bulgarelli) sembrano aprire uno spiraglio per la ricerca della verità, ma il lavoro è enorme e spesso scoraggiato dai vertici militari. Intanto il Salento vive l’angoscia di una possibile polveriera dentro casa: cosa è successo a Torre Veneri?

La matematica è un’opinione

Sono 1655 oppure 1780 i militari ammalati di cancro dopo aver prestato servizio nelle cosiddette missioni di pace e nei poligoni di tiro? La fonte di questi dati è sempre la stessa, il ministero della Difesa, nella persona di Arturo Parisi, che a distanza di due mesi ha ritrattato la prima dichiarazione (resa il 9 ottobre), ascoltato una seconda volta (il 6 dicembre) dalla commissione senatoriale d’inchiesta sull’uranio impoverito.

E quante sono le vittime, 37, 42 o 160? Il primo dato è quello reso dall’attuale ministro Arturo Parisi, il secondo dal precedente, Antonio Martino. Per l’Osservatorio militare, l’associazione che assiste gli appartenenti alle forze armate e i loro familiari, i morti sarebbero quattro volte di più.

Non deve stupire l’inclinazione dei governi a giocare con certi numeri, sempre meno eclatanti quanto più vicini all’ufficialità e dunque alla possibilità di ottenere risarcimenti. A sei anni di distanza dall’istituzione della commissione medico-scientifica presieduta dall’ematologo Franco Mandelli, cui è succeduta la prima commissione parlamentare d’inchiesta rappresentata da Rocco Salini e da Paolo Franco, ben pochi sono stati i risultati raggiunti.

L’attuale commissione del Senato, presieduta da Lidia Brisca Menapace, si trova dunque ad affrontare problemi incombenti, visti i numerosi casi di malattie o di decessi affioranti man mano che ci si allontana dalle date delle missioni in Somalia ed in Bosnia.

Problema individuato, soluzione in arrivo si potrebbe pensare, ma non è proprio così. Non siamo nemmeno in presenza di tamponi di comodo, perché dalle missioni nei Balcani a quelle post-11 settembre in  Afghanistan, in Libano ed in Iraq l’utilizzo di armamenti all’uranio impoverito è addirittura aumentato del 100 percento. Verrebbe da interrogarsi sul ruolo dell’Onu, sempre meno efficace ed in balia di stati guerrafondai. Caduta l’ipotesi di imputazione della Nato per crimini di guerra formulata nel 2001 da Carla del Ponte, allora presidente del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, la prima commissione sul disarmo dell’Onu, il 31 ottobre scorso ha deliberato in favore della redazione di un dossier sull’uranio impoverito che costringerà l’Assemblea generale a pronunciarsi entro il 2008.

Non solo Uranio

La situazione internazionale si fa dunque meno incerta ed i lavori della Commissione italiana potrebbero essere condotti con maggiore serenità, ma bisogna piantare dei paletti su terreni non troppo sicuri. Il riferimento riguarda proprio le condizioni di esposizione all’uranio e di infezione: ad oggi non si è ancora in grado di spiegare come possa il materiale raggiungere una temperatura sui tre-quattromila gradi, pur dotato di un alto potenziale di combustione. Nella relazione della commissione d’inchiesta del 17 novembre 2004 si sottolinea che anche a distanza di centinaia di metri dalle esplosioni di proiettili all’uranio sono stati ritrovati frammenti di stronzio, carbonio, zolfo, ferro, silicio, piombo e mercurio. Questi materiali non sono solo un rebus perché possiedono una diversa composizione chimica rispetto al materiale esistente, ma anche perché rappresentano un rischio per le conseguenze sanitarie e ambientali.

Gli studi della celeberrima dottoressa Maria Antonietta Gatti offrono una parziale giustificazione del fenomeno come conseguenza dei processi di fissione e di fusione nucleare, ma introducono la possibilità che le cause dell’insorgere di malattie derivino anche dall’esposizione alle numerose polveri ultrafi ni che si sprigionano durante un conflitto o un’esercitazione. Il problema non sarebbe solo il materiale ma anche il processo: le esplosioni, di proiettili o bombe, all’uranio o al tungsteno, solo per citare un materiale diffuso, creano nebulose spesso contenenti cocktail micidiali di sostanze, inalate in quantità differenti, che provocherebbero l’insorgere delle malattie.

Pur comprendendo una significativa estensione del problema, gli studi della dottoressa Gatti sono criticati perché incompleti nei dossier di Falco Accame: per il presidente di Ana-Vafaf, l’associazione nazionale assistenza vittime arruolate nelle forze armate e familiari, non si può non tener conto di malattie che si presume siano sopraggiunte da contatto “a freddo”, che giustificherebbe l’insorgenza di tumori contratti dai militari che hanno prestato servizio presso depositi munizioni.

L’attenzione non si può concentrare solo sull’uranio, dunque, e per ora la soluzione proposta dalla presidentessa Menapace, che a RaiNews24 dichiarava di non fidarsi di studi spesso pilotati, è quella che in attesa delle risposte della scienza si aiuteranno i militari malati ad affrontare le spese burocratiche per il riconoscimento della causa di servizio.

Torre Veneri: da luogo ameno a bottega degli orrori

Quando si parla di militarizzazione della Puglia non ci si riferisce solo alle presenze un po’ troppo ingombranti di sedi e servitù militari, ma anche all’amara constatazione che oltre un terzo dei militari italiani sia composto da giovani di origine pugliese che hanno trovato lavoro in questo modo e che la stessa proporzione sia rispettata nell’impiego in missioni all’estero.

Ne consegue un altissimo prezzo di sangue ed un inquietante computo delle patologie presumibilmente insorte per l’esposizione all’uranio impoverito, sia in missione che nei poligoni e nei depositi: le cifre ufficiali, del Ministero della difesa (sottostimate, secondo altre fonti) indicano sedici casi e cinque vittime.

Anche il Salento conosce storie terribili di militari che hanno visto scivolare via la gioventù ed il vigore consunti da un nemico invisibile. Dal 9 ottobre scorso, però, l’orrore ha assunto connotati ancora più preoccupanti perché troppo vicini alla vita dei salentini, anche dei civili: il luogo interessato è Torre Veneri, uno splendido ed isolato scorcio di mare di Frigole che, quando non è chiuso al pubblico per le esercitazioni militari, è frequentato dai bagnanti. La data del 9 ottobre è invece quella della pubblicazione della lettera di Luca Giovanni Cimino che ha prestato servizio al poligono di Frigole per un anno fino al 1999, dove senza alcuna protezione maneggiava “bersagli e bossoli esplosi di ogni tipo”. Attività che potrebbe essere la causa del suo male: un “emoblastoma mandibolare”, tumore osseo alla bocca.

Pochi giorni prima, il 25 settembre, una delegazione della commissione d’inchiesta sull’uranio ha effettuato un’ispezione presso il poligono provocando l’esplosione dell’insicurezza nella popolazione della piccola marina, da pochi anni protagonista di un picco d’insorgenza di neoplasie. Le istanze sono state raccolte dagli onorevoli Teresa Bellanova e Antonio Rotundo, che hanno inoltrato richiesta di maggiori chiarimenti al ministro Parisi ed hanno sottolineato la necessità di condurre un’indagine epidemiologica sul territorio.

In attesa di sviluppi la paura permane e ci si chiede se non sia il caso di chiederne la chiusura.

Andrea Aufieri, L’imPaziente n.17, dicembre 2007-gennaio 2008

Uranio, intervista al senatore Bulgarelli

Nella nuova commissione d’inchiesta sull’uranio impoverito ci sono diversi senatori da tempo impegnati sul problema, e validi ricercatori. L’intervista al senatore Mauro Bulgarelli (Verdi).

Leggi l’articolo sull’uranio impoverito in Italia e sui timori a Torre Veneri,  zona militare in provincia di Lecce.

Senatore, si conoscono i risultati dei rilevamenti effettuati a Torre Veneri nel corso dell’ispezione della Commissione uranio impoverito?  Si era parlato di dicembre per un’analisi definitiva.

“Non siamo ancora in possesso di quei dati perché l’esperto balistico è in missione in Libano per conto nostro, ma per gennaio sapremo qualcosa di più preciso”.

È da considerarsi una semplice coincidenza il breve lasso di tempo tra la visita della commissione e l’outing di Luca Giovanni Cimino?

Sen. Mauro Bulgarelli
Mauro Bulgarelli

“Eravamo a Torre Veneri perché uno dei filoni d’indagine comprende casi di malattie contratte dai militari che hanno prestato servizio nei poligoni. Accade spesso che in seguito ad una nostra visita qualcuno trovi coraggio e denunci la sua situazione: la valuteremo insieme ai numerosi casi che stiamo studiando”.

Quali sono le peculiarità che contraddistinguono il vostro lavoro da quello della commissione precedente?

“Un fatto casuale ma importantissimo è che oggi si ritrovano in commissione dei senatori che hanno condotto molte battaglie sull’argomento. Ci avvaliamo poi dell’ausilio di tre consulenti di livello e senza alcun interesse a nascondere nulla: l’epidemiologo Valerio Gennaro, la dottoressa Maria Antonietta Gatti, una delle persone più avanti nella ricerca sulle polveri sottili, ed il professore Massimo Zucchetti che ha condotto studi fondamentali sulle radiazioni ionizzanti. E, altro fatto da non sottovalutare, abbiamo anche un ministero maggiormente disposto a collaborare”.

Quali sono le novità in questo senso?

“È notizia del 6 dicembre quella della costituzione, in seno al Ministero della difesa, di un Comitato per la prevenzione e il controllo delle malattie (Cpcm) con compiti di studio e di ricerca. Per quanto riguarda la legge finanziaria, incrociando le dita, dovrebbe essere approvata una proposta, della quale sono primo firmatario, che permette lo stanziamento di dieci milioni di euro per tre anni, fino al 2010,  che consentirà alle vittime ed ai famigliari di affrontare le spese per farsi riconoscere la causa di servizio.”

Lavorate nelle migliori condizioni possibili, dunque?

“Trattiamo di temi spinosi per affrontare i quali dobbiamo collaborare con i vertici militari che purtroppo non brillano per trasparenza e informazione e si sentono sempre come fossero in tribunale. Non si comprende che noi cerchiamo di risolvere un problema, dunque spesso dobbiamo ricorrere all’intervento dell’autorità giudiziaria per poter entrare nei poligoni e sequestrare ciò che possiamo, visto che spesso non ci sono nemmeno gli archivi”.

Il vostro è un lavoro che mira anche a dare anche un segnale alla politica estera italiana e alle sue intraprese militari in particolare?

“Lascio a voi la risposta a questa riflessione. In commissione molti di noi hanno sicuramente una certa ideologia, ma sono rappresentati tutti i colori, dunque tutto dipende dalle storie soggettive”.

Andrea Aufieri, L’imPaziente n.17, dicembre 2007-gennaio 2008.

Fondo Verri, i luoghi del teatro a Lecce

L’avvio di questa rubrica è simultaneo a quello del labo­ratorio teatrale “Attore opera viva”, un corso di base di due mesi tenuto ogni anno da Piero Rapanà.

L’attore e regista ha fondato quindici anni fa il Teatro Blitz con il sodale Mauro Marino: ha un’esperienza quasi trentennale, dedicata per un terzo allo studio Astràgali, con il quale si è formato prima delle esperienze all’Ert di Modena e con il te­atro della Valdoca. Ha cominciato a mettere a disposizione la sua preparazione per i primi laboratori quando il Blitz nemmeno camminava e da quattro anni ha messo su l’opera viva, l’attore, corpo/voce, autore di sé stesso.

Il corso è aperto a dieci partecipanti di tutte le età che non hanno preparazione o vogliono ripassare: gli appuntamenti bisettimanali, ogni martedì e giovedì dalle 19.30 alle 22, prose­guiranno fino a fine maggio.

È allettante tentare di capire qualcosa di questo mondo, co­minciando proprio dal teatro come momento per sé stessi, un bel po’ al di qua della professione. Anche perché, tanto per capirci, chi scrive è un appassionato di “momenti creativi”, ma non un addetto ai lavori.

Piero, come hai cominciato con questa storia del teatro?

“Io non sono figlio d’arte e di teatro non ne sapevo nulla: nel 1984, a 22 anni, vivevo una fase critica o mistica della mia vita, non so, ero preso dalla ricerca. Casualmente la notte di Natale mi accorgo di un manifesto di un laboratorio di Astragali: c’era un manichino con gli arti rotti e la scritta “L’attore che viene dal futuro”. Fu una folgorazione e infatti la mattina successiva andai da Astragali a chiedere informazioni, e ci sono restato dieci anni”.

Chi è l’attore?

“L’attore è un essere umano che ha la capacità di mediare la realtà attraverso la finzione, ti fa ridere delle disgrazie e ti fa piangere per delle cretinate. L’attore è come un tramite tra quello che è e quello che vorrebbe essere”.

Sembra facile, ma la semplicità è il risultato evi­dente della complessità.

“Infatti, durante il corso cerco di coinvolgere tutti nell’ac­quisire consapevolezza del proprio essere e dei propri limiti e cominciare a sentire, contro una vita che non fa altro che farci mascherare. A parte i giovani determinati a divenire at­tori, molta gente partecipa perché non controlla i propri stati d’animo, non riesce a guardarsi dentro”.

Non sarebbe meglio andare da uno psicoterapeuta?

“Il discorso è simile perché stai lavorando sull’essere uma­no: qui il tuo strumento sei tu e questo ti permette di avere fiducia. Attraverso gli esercizi arrivi a capire come fare per non vergognarti e acquisire fiducia in te. Conosci il corpo con le tecniche di espressione corporea; poi scopri di avere più voci e giochi con il canto. Giochiamo, come i bambini, perché si lavora sulla tela bianca, prima ci si sco­pre e poi ci si conosce”.

Il primo approccio con il pal­coscenico? Cos’è il teatro?

“Teatro è l’anagramma di attore: è parte dell’individuo perché possiamo fare a meno della scena e del luogo, ma non dell’uomo. L’opera è il proprio sé che non si conosce e si cerca di co­noscere. Io ho cominciato anche per­ché credevo che con quest’arte avrei trovato la soluzione di tutti i mali anche se ho scoperto che non è che trovi la soluzione, ma riesci a perce­pirli ed esternarli attraverso l’arte. Poi diventa una malattia, se io non vado in scena poi sto male. Non vorrei però che divenisse un lavoro stabile da rou­tine, c’è il rischio di perdersi: mi hanno sempre insegnato che si deve cercare una mediazione tra le due cose”.

Qual è il secondo passo?

“Magari un corso di livello più ele­vato: quando si scende in profondità è necessario del tempo. I metodi Sta­nislavskij e Grotowski, alla radice di qualsiasi pratica, permettono agli atto­ri di lavorare su sé stessi per almeno otto ore al giorno, continuamente. E non si campa d’aria”.

Luoghi_Blitz al fondo Verri

Raccontiamo i luoghi dove ha trovato sfogo il teatro vivo a Lec­ce per indicare molto della passione che anima gli operatori di questo mondo e per dare alcune implicite risposte a tante do­mande

Blitz è un’incursione corsara del teatro nei territori vasti della poesia o vice­versa, e spesso si è davvero espresso in performance improvvisate nei negozi, nella galleria di piazza Mazzini oppure sul carrozzone delle Notti salentine, quelle bianche o tarantolate.

È il 1993 quando Piero Rapanà e Mauro Marino rientrano a Lecce da un decennio di gavetta e di picaresche avventure. Avvertendo l’esigenza di trovare casa in senso artistico, nonostante a Lecce siano cresciuti (di nuovo, non solo in senso artistico), dalla vecchia amicizia fanno sbocciare un nuovo sodalizio: il Teatro Blitz.

I due ci vanno pesanti da subito: la prima produzione è “Lager”, ispirata all’analisi poetica dell’opera di Primo Levi, Danilo Dolci e Tommaso di Ciaula, ed ottiene una nomination di prestigio al premio “Scenario”.

Negli anni seguenti la ricerca spinge gli autori a sviluppare l’idea che la poesia possa farsi discorso, possibilità d’incontro e di dialogo, soprattutto con i più giovani. Nasce così “Nuvole”, 150 repliche in quattro anni, che affronta la fan­tasiosa possibilità che Angelo chieda a Creatore di raccontargli nientemeno che il mondo. Poi “Sarajeva”, sulla tragedia bosniaca, e “A.r.a (armonioso riso amaro)”, seguito ideale di “Nuvole”, sulla caduta di Angelo sulla Terra, anzi al Sud.

“Che fortuna…sono qui”, l’ultima produzione, è un omaggio alla poesia, il soggetto principale dell’opera, sviluppata proprio in quadri poetici.

Nel frattempo la casa arriva davvero, ed è sul corso, quello prima del progetto Urban, in via santa Maria del paradiso, che dà nome all’associazione. Un angolo da spartire con la cartape­staia Silvia Mangia e le due pittrici Anna Maria Massari e Rita Guido. Poi per fortuna arriva Urban, quei 50 metri quadri possono ospitare quaranta persone ed il fondo è ribattezzato in memoria dell’artista Antonio Leonardo Verri. Perché come lui Marino e Rapanà incoraggiano i sogni di molti esordienti scrittori, attori o musicisti che siano.

Ovvio che di questo habitat Blitz è il figlio prediletto, tanto che ormai gli attori hanno preso confidenza con il palco e lo considerano uno di loro, nonostante siano frequenti le trasferte nelle scuole, nei laboratori, nelle librerie e anche presso la Asl, dove il fondo Verri gestisce un laboratorio di scrittura per gli ospiti del Centro per la cura e la ricerca sui disturbi del comportamento alimentare.

Andrea Aufieri L’imPaziente n. 18 marzo/aprile 2008

Le altre due puntate della rubrica sul teatro ospitata dall’imPaziente: 

Puntata 2 – Cantieri Teatrali Koreja
Puntata 3 – Teatro Astràgali

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