Aeroporti, Acierno eredita le ali di Puglia

Un cambio nella torre di controllo della società Aeroporti di Puglia. A guidarla sarà il quarantaquattrenne Giuseppe Acierno, che ha accettato

Giuseppe Acierno
Giuseppe Acierno

formalmente l’incarico di amministratore unico proposto da Nichi Vendola. Il 25 marzo, nel corso di una vivace assemblea dei soci, il presidente della Regione ha auspicato «una società di volo e una società d’industria». Pronta la risposta del brindisino, che è anche direttore del distretto aerospaziale:«Lavorerò alacremente e sarò giudicato per i risultati che otterrò». Il nuovo amministratore percepirà uno stipendio di 120mila euro lordi l’anno, più altri 30mila se saranno raggiunti gli obiettivi strategici.

E in quanto a prospettiva, Adp vola alto. La Regione punta alla privatizzazione. Un socio industriale potrà arrivare migliorando i numeri già competitivi del bilancio 2012, approvato dall’ultima assemblea. Più di un milione di utili (1.015.676), il 10 per cento in più del 2011. E un incremento di traffico dello 0,72 per cento. Un numero che aumenta di valore se accostato alla media nazionale, in passivo dell’1,3 per cento. Il dato si può esprimere anche nella cifra dei quasi sei milioni di passeggeri che quest’anno sono transitati dagli scali delle quattro sedi aeroportuali della regione (Bari, Brindisi, Foggia e Taranto).

Dalla gestione Acierno ci si aspetta un mucchio di altre cose. Maggior collegamento con il distretto aerospaziale del territorio, cui farebbero comodo l’ampliamento del aeroporto di Bari e la realizzazione del collegamento shuttle di Brindisi. E ancora, l’ampliamento dell’aeroporto industriale di Grottaglie (Taranto), e l’estensioni delle reti di collegamento con le agenzie low cost. Nella sua recente visita, il magnate di Ryan Air Michael O’Leary ha promesso investimenti. E dal 4 aprile Dolomiti, la low cost per l’Italia di Lufthansa, ha annunciato il raddoppio delle tratte per Monaco.

Agli applausi, cui si aggiungono quelli di una Finmeccanica entusiasta per la scelta, si contrappongono non poche critiche. Anzitutto per la sostituzione del manager che in dodici anni ha portato l’Adp a ottenere i risultati di cui si è detto. Domenico Di Paola ha «sbattuto la cappelliera», precisando di aver saputo della decisione ufficiale solo all’assemblea. E la legge come una contromossa al suo no alla privatizzazione. Gli esponenti del Pdl regionali, su tutti Rocco Palese, lamentano una scelta imposta senza concorso. Insomma, nella storia del trasporto aeroportuale pugliese, le turbolenze non mancano mai.

Odissea di un intraprendente

Foto: Sergio Stamerra

 

Facciamo di Ulisse un albanese, che però ha frequentato molto la Grecia, sostituiamo la zattera con un gommone, e gli lasciamo lo stesso ardimento nell’intrapresa: otteniamo Bastri Caushaj, la cui storia è un’odissea a lieto fine.

Di Andrea Aufieri. Adattamento da Palascìa_l’informazione migrante, Anno I Numero 3, Ottobre 2010-Gennaio 2011.
http://www.metissagecoop.org

Incontro Bastri nella sua masseria in costruzione vicino Merine, frazione di un comune in provincia di Lecce, Lizzanello. Non ha la corrente elettrica e il tramonto è vicino: sarà un’intervista a lume di lampada a gas. Non perdiamo tempo, la sua storia è lunga. Dhurata, sua moglie, ci serve un caffè e bada al piccolo Martin, le altre due figlie Sara e Pamela ci ascoltano. Sono distratto dal quadretto, cui manca Roland, che lavora come bracciante, quando mi accorgo che “Sebastiano” ha già cominciato: «Quando ero piccolo, siccome in famiglia eravamo dodici, appartenenti alla classe di contadini e operai, ho dovuto darmi da fare per avere il mio pezzo di pane. Mia madre per anni ha lavorato come impiegata nell’industria del petrolio, che era organizzata in cooperative statali. Una miseria, sul punto della sopravvivenza. Negli anni Novanta, dopo l’apertura delle frontiere, sono stato un po’ dappertutto per la compravendita e affari internazionali. Sono stato un paio d’anni in Grecia a far qualche soldo per tornare in Albania, ho fatto un lavoro strapazzante, dieci ore al giorno per poche dracme, ma sempre più di ciò che guadagnava in Albania un impiegato statale. Appena tornato, sfruttando anche l’inflazione, con le banche fuori uso e con lo stato che non controllava più nulla né dal punto di vista economico né amministrativo, ho commerciato con tutto: alimentari, tabacchi, ho rilevato le fabbriche dello stato albanese di sapone e di olio. Ma non possiamo paragonare questo a una fabbrica tipica italiana: si dava una miseria agli operai e si commerciava con prodotti rimediati andandoli a comprare direttamente in Grecia senza un sistema di trasporti organizzato. Tutto poi stava fallendo, anche  perché molti statali cercavano di approfittare di questa situazione per svendere ai privati e monetizzare. Io fui uno degli acquirenti privati, ma non sono uno squalo, piuttosto cercai di guadagnare innovando un sistema obsoleto».

«Ho contribuito alla valorizzazione dello sport, trovando così strade nuove e utili tanto per le mie aziende quanto per i destinatari dei nostri progetti. Ho ottenuto l’Isef e fino a vent’anni sono stato un maratoneta della 42, 194 km: nello sport ci credo davvero, e so quanto lavoro per nulla spesso si faceva da noi. Così ho varato progetti per incentivare il football, l’atletica leggera e altre discipline. Sono anche stato il presidente onorario della nota squadra Flamurtari di Valona. Onorario perché prima le squadre erano tutte dello stato. Con il mio business ho creato e gestito settemila posti di lavoro. Nel settore dei trasporti, poi, mi servivano autisti e ho dovuto fondare vere e proprie autoscuole».

Su questo scenario tutto sommato positivo interviene una prima grave cesura: «Nel ‘95 ho perso Zhulian, il mio secondogenito di sei anni, in campagna da mio padre, caduto in un pozzo petrolifero. Questo è stato un colpo troppo basso, che neanche la fame e il freddo mi avevano procurato. Una mazzata che mi ha messo in ginocchio. Da allora ho deciso di cambiare vita e ambienti di lavoro. Qui venivo già prima del ‘94, perché avevo dei manager che curavano l’import-export, ma poi ho perso tutto perché le gerarchie di imprese statali che costituivano delle società “piramidali”, agivano in un regime di concorrenza sleale. Se escludiamo le imprese italiane, la mia era la prima srl nata in Albania, in un epoca in cui esistevano ancora i Mapo, delle specie di empori statali che vendevano sapone, zucchero e una ventina di articoli in tutto. Con l’ampliamento e la diversificazione anche lo stato è andato in difficoltà, ma grazie a quelle società è riuscito a sopravvivere finché non è fallito di nuovo dopo la tragedia della guerra civile, che abbiamo bollato come sommosse. Un disegno criminoso messo in piedi e spinto da pochi gruppi, che è sfociato in guerriglia. Nel ‘94 venni con un gommone perché non avevo il passaporto. Avevo pochi soldi, che usai per il viaggio e per comprare quello che mi serviva. Quando i delinquenti che sono andati al governo hanno chiuso le frontiere, non potevo più tornare e così ho appreso degli incendi che hanno distrutto i miei supermercati ».

«Nel periodo ‘95-’97, fino a ottobre, sono riuscito a gestire il trasporto delle merci da qui in Albania e viceversa, e ho riguadagnato una buona posizione economica. Nel ‘97 mi trovavo nel Salento: tramite altri potevo acquistare delle cose perché non avevo la possibilità di contrattare bene per via della scarsa conoscenza dell’italiano. C’era anche chi offriva contratti di lavoro al prezzo di tre milioni di lire per far finta di lavorare per lui e restare in Italia. Feci questo passo ottenendo in cambio una specie di ricevuta, e poi non ebbi altri soldi per spostarmi».

Qui una seconda cesura nella sua storia: «Dopodiché hai presente i film che gli americani fanno contro i cubani, che arrivano a Cuba e fanno i grandi boss della malavita? Un film come questo se l’è fatto qualche procuratore che mi ha accusato di far parte della Sacra corona unita. Creandosi nuove situazioni, si creano opportunità anche per la criminalità. Quando uno deve chiedere qualcosa, chiede quello che gli serve. Se mi offrivano l’amicizia non mi chiedevo chi fossero e cosa facessero, si presentavano in modo umile e rispettoso. Io non sapevo che fossero mafiosi. Se mi offri la possibilità di avere dei piccoli favori come anche un passaggio in auto, io posso ignorare da dove vieni e chi sei. Comunque da quando sono arrivato in Italia, io come tutti gli altri, siamo stati avvicinati da gente della mala. Mi indicavano dove dormire e andai a Lizzanello, inizialmente, a casa di una persona non collusa. Mi regalava della farina se l’aiutavo a caricare i sacchi. Poi sono stato a Pisignano e infine a Merine, dove nel ‘97 è successo il finimondo: tutti quelli che mi hanno aiutato erano affiliati. In più devo dire che chi costruiva l’impianto accusatorio contro la Scu, difficilmente cercava chi glielo smontava, al massimo voleva pentiti. Io ottenni dunque scarsa considerazione, e a novembre ero in carcere a Borgo San Nicola, dove sono rimasto fino al giugno dell’anno successivo, con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, finalizzata al traffico di armi e di droga».

«Quando ho acquisito le competenze in italiano, studiando, ho capito la situazione. Ho conseguito la maturità come perito commerciale in carcere, e poi ho cominciato a studiare Scienze giuridiche. Nel ‘98 ho ottenuto i domiciliari, perché la Cassazione ha risposto alla mia istanza, deliberando per la mia innocenza. Questo però ho potuto saperlo solo due anni dopo, perché il mio avvocato mi disse semplicemente che con sette milioni avrei potuto ottenere i domiciliari. Ma non mi ha detto che c’era la sentenza! In questo modo non si smontava neanche l’impianto accusatorio, perché io in quel disegno risultavo come una pedina fondamentale. Non ho fatto causa a loro perché in Italia non puoi fare causa a nessuno, troppo costoso».

L’incubo comincia a diradarsi: «Mi sono creato un po’ di cultura giuridica, ho comprato dei quaderni, su ognuno dei quali scrivevo quello che scoprivo come “investigatore” e come “avvocato”, imparando come si fanno le istanze e tutti gli itinerari legali che mi servivano, smontando con pazienza ogni accusa».

«Ho rifiutato tutti gli avvocati: nessuno dà retta alla tua presunta innocenza se tutti cercano di fregarti. Esaminando i  fascicoli e i mandati di cattura nei miei confronti sono riuscito a smontare le prove che sarebbero bastate a mandarmi in carcere a vita. Perché poi nel settembre del ‘99, fino al 2005, mi hanno nuovamente incarcerato, arrestandomi mentre nel mio terreno toglievo le siringhe dei drogati. La magistratura è riuscita a commettere un sacco di errori, che uno a uno andavano smontati».

«Il colpo finale è arrivato dopo che più volte ho scritto al procuratore per parlare, e lui finalmente si è presentato da me. Era il 2003 e per smontare tutto ci abbiamo messo due anni. Non ho mai chiesto nessun beneficio, né ho voluto mai uscire per motivi differenti dal mio avere ragione».

Gli chiedo un giudizio sulla sua esperienza: «Non ci credo molto perché trovo confusione tra religione e filosofia, mi trovo in difficoltà, ma pur non credendo in dio penso che se esiste allora in quel periodo c’è stato e ha detto: “Gente, aiutate quel povero cristo!”. Io avevo una vita agiata, ho iniziato qui con una situazione economica favolosa e sicuramente qualcuno ha visto questo ed è stato indotto in errore».

Bastri ricomincia a vivere: «Nel 2005 ero fuori, ma controllato e con molti divieti per i successivi tre anni. Tutti quanti, alla fine, hanno scritto cose positive. Carabinieri, servizi sociali, tutti i competenti hanno dato pareri da favola: un forte legame familiare, uno spirito da gran lavoratore, competenze e capacità progettuali fuori del comune!»

Ed ecco cos’è che ha impressionato tutti i “competenti” e anche il fotografo Sergio Stamerra, autore di un set del quale  pubblichiamo due foto: «Mi sono fatto prestare una zappa e una pala, sono venuto a togliere la montagna di rifiuti che stavano qua, in via vecchia Acaya, località Passaturo. Opzionai questo terreno nell’agosto del ‘97, grande più di tre ettari. Pieno di pietre. Prima erano pietre e terra che i coloni usavano per piantare qualcosa che gli serviva a vivere. Io l’ho bonificato con il solo aiuto di una vecchia rete per materassi. Dopo ho combattuto con pietre sempre più grandi, che poi ho usato per il muretto a secco, per il quale ho chiesto un contributo alla Regione: è un’opera d’arte che resterà in questo territorio. In tanti non hanno creduto nel mio progetto: mia sorella era la vecchia proprietaria, voleva vendere tutto, ma io le ho chiesto di investire per farmi lavorare, secondo lei era impossibile far qualcosa qui. E non era l’unica a pensarla così».

Qual è ora il suo desiderio? «Siamo molto lontani dal mio desiderio, ho cominciato con la sicurezza di poter campare dai prodotti del mio terreno, poi con la mia mentalità imprenditoriale cerco di andare sempre avanti; qui vengono a comprare direttamente oppure porto qualcosa in mediazione. Sto cercando di creare una catena di produzione che non si fermi. I prezzi della mediazione sono troppo bassi, non paragonabili alla volontà di far crescere un’azienda, perché schiacciati da presenze di prodotti stranieri a basso costo. Andare avanti oggi è complicatissimo, alla gente non importa se il pollo è di allevamento o ruspante, ma il problema delle persone è: quanto costa? Io starei anche abbastanza bene, ma mi piacerebbe poter dare lavoro anche a una cinquantina di persone, permettendo loro di vivere senza i contratti precari. Ora però la crescita, se c’è, è  part-time, contratto a progetto, non dipende più da un lungo viaggio, ma da ora a ora e da giorno a giorno. Io ho una soluzione per via di un mercato grande che arriva in Albania e in Grecia, ma anche cosi non è facile».

Cos’è per te l’identità, gli chiedo, e dove immagina il suo futuro: «Io sono un cittadino del mondo, cresciuto in Grecia, Italia, Germania, Svezia, America. Su quella grata però puoi vedere una bandiera albanese: l’Albania è il posto dove sono nato e che non posso scambiare con nulla al mondo. Ma tutti devono avere la possibilità di crearsi una vita, lo sviluppo deve esserci per tutti, se no la democrazia finisce».

 Intervista a Sergio Stamerra, fotoreporter

Bastri assegna a Sergio un posto nelle fila delle “persone buone”. Ecco perché.

«È stato tutto casuale. Ad aprile ho ricevuto la telefonata dalla rivista Apulia. Mi hanno commissionato un reportage sulla pietra, solo che avevo poco tempo a disposizione. Girovagando per le campagne ho notato un signore che costruiva un muretto a secco. Anche se la cosa poteva risultare un po’ banale ho pensato di raccontare quest’attività, giocando con i tagli e con le luci».

Però? «Mentre lavoravo il signor Sebastiano mi raccontava la sua vita e io ho deciso di continuare a frequentarlo fotograficamente, ci vedevo la possibilità di fare qualcosa di interessante. Ho anche pranzato con lui, ho lavorato dalla mattina alla sera, per una settimana circa, e ho portato a casa una serie di immagini che mi convincono. A me non interessava soltanto fare delle buone foto, perché quando fai un reportage non ti puoi esimere dal costruire un rapporto di fiducia con le persone, facendo vedere loro che non sei uno sciacallo che ruba le loro vite sbattendole in faccia agli altri».

E quindi hai pensato di ricambiare la famiglia Caushaj con un’iniziativa singolare.

«Ho pensato di organizzare una  cena nella masseria di Bastri con l’aiuto di alcuni amici. L’idea era quella di sostenere l’azienda e il progetto. È venuta una serata, credo, abbastanza carina, è stato importante poter partecipare alla realizzazione del sogno di alcune persone».

Quando hai capito che passare il segno della professionalità ti portava a fare qualcosa di bello? Quanta furbizia e quanta sensibilità artistica? «Ho capito che questa cosa mi portava a fare un buon lavoro e che valeva la pena perderci del tempo quando ho sentito la storia nello stomaco, uno stato d’animo e delle emozioni molto forti. Poi se il prodotto è vendibile meglio per tutti.  Devo anche dire che per la prima volta dopo tanti anni-ho cominciato a scattare che ero un ragazzino-provavo quasi una sensazione di innamoramento. Questa cosa l’avevo un po’ persa, ma questo lavoro me l’ha fatta riscoprire».

La casa dov’è?

Foto: Gabriele Spedicato

 

 

Più piccole, affollate, vetuste e senza servizi: le case dei migranti

Di Andrea Aufieri. Pubblicato su Palascìa_l’informazione migrante, Anno I Numero 3, Ottobre 2010-Gennaio 2011.
http://www.metissagecoop.org

È una fresca sera di fine agosto: un vento impietoso spazza via ogni ricordo dell’estate che molti turisti hanno trascorso a Torre Dell’Orso, marina del comune di Melendugno (Le). Con fare mesto mi accingo a prendere il bus che mi riporterà a Lecce, ma non so da quale lato della strada arriverà. Scorgo alcuni ambulanti seduti contro la rete di una struttura privata, mi danno le informazioni che mi servono, poi uno di loro mi viene incontro. Prenderà il mio stesso autobus: «Robert Njeri», si presenta, tremando letteralmente di freddo, mentre cerco di capire se è il mio corpo a darmi informazioni errate sulla temperatura. «Ho fatto pochi soldi  oggi-prosegue Robert-e devo tornare a dormire se no chiudono il centro».
Gli chiedo dove dorme:«A Casa Emmaus, centro Caritas-risponde-ma tra pochi giorni non potrò più andarci e cerco casa».

Robert cerca casa

Santa Maria dell’Idria, la parrocchia che ospita il centro di accoglienza, ha venduto i locali e chiuderà presto, così Robert deve intensificare gli sforzi per trovare un alloggio: «Anche un posto letto, che non superi i 150€». L’impresa si fa complicata da subito visto il budget, ma insieme attuiamo un piano d’azione: gli dico di informarsi dai fratelli neri, poi giornale e web a portata di mano stiliamo una lista dei posti che potrebbero andare, e pare siano tanti. Ma prima di qualsiasi passo gli parlo del centro Asia, per l’intermediazione abitativa. Bob è ottimista:«Ho preso anelli, orecchini e bracciali, un po’ all’ingrosso dai cinesi e un bel po’di qualità dal Kenya, dove stanno i miei. L’estate ho lavorato tanto, spero anche in questi giorni, e poi provo in centro a Lecce».

I primi approcci con i fratelli vanno malissimo:«Io sono un kikuyu (l’etnia dominante e più numerosa in Kenya-ndr), sono solo e qui a Lecce ci sono tanti luhya e qualche luo e diciamo che non sto troppo simpatico. Qualcuno se mi vede per strada mi chiama Kibaki (Mwai Kibaki è il presidente attuale del Kenya, inviso alle fazioni opposte-ndr), non sono riuscito a legare con i senegalesi, e comunque nessuno ha un posto da consigliarmi».

La sua famiglia vive a Dandora, a est di Nairobi, una delle zone più inquinate del pianeta, dove si può immaginare che le condizioni di vita siano al limite della sussistenza. Lì aspettano con ansia sue notizie la mamma e sua moglie Elizabeth, madre di Michael e Jenny. Sua madre gli ha chiesto una foto da farle vedere, lui dice di dimenticarsi sempre di farsela, è molto più smunto ed emaciato di quando è partito e anche i 2€ per la foto è meglio che li mangi.

Sul fronte del lavoro le cose precipitano:«In questi giorni piove e da quando il bus non passa più pago 20€ un fratello per andare in spiaggia in macchina». Da quando è in Italia ha lavorato regolarmente solo come badante, poi a Otranto, Cavallino e Lecce come ambulante, adesso farebbe volentieri il cameriere. Robert è venuto qui con un visto turistico, poi sua sorella ha chiesto il ricongiungimento familiare che scadrà nel 2012: «Devo cercare un lavoro e un tetto perché così sono tranquillo, con un contratto». E intanto gli si prospettano altre notti a Emmaus: «Di là è difficile perché ci dormono una ventina di persone, ho paura anche a dormire lì per i documenti, è pericoloso. Poi se facciamo tardi per vendere da ambulanti non ci fanno entrare».

Dai mediatori di Asia non è andata bene:«Il massimo che potevano fare era mettermi con altre quattro persone, ma avrei pagato comunque troppo, e non avendo lavoro sarebbe comunque stato difficilissimo». A questo punto gli tocca ricaricare il telefono e chiamare un po’in giro: «Ho provato come tutti a chiamare, ma molto spesso non mi vogliono, e altre volte c’è una richiesta di anticipo che non posso dare, o cercano solo studentesse. Se uno lavora con pochi soldi al giorno trovare casa è difficile».

Facciamo un giro di chiamate nel centro storico Se sentono una parlata differente non rispondono un’altra volta, oppure dicono: “Adesso stranieri no”. Lo stesso in via Monteroni. Riusciamo a convincere un ragazzo a Santa Rosa. Dopo poco declina dicendo che c’era un tipo in bilico che finalmente aveva accettato. Lo faccio richiamare da un amico, e gli conferma che l’appartamento è ancora in affitto.

«Senza un frigo-mi dice-spendo anche di più al giorno per mangiare, e non mangio cose sane, ora ho male allo stomaco». Nei giorni successivi si fa visitare dalla Caritas, lo spavento gli passa: deve bere più acqua. Prende una giacca e un buon paio di scarpe. Rifiuta di dormire con altre persone in un appartamento, gli rubano dei soldi per dormire in una casa che non esiste, infine si adatta in stazione. Ha preso la decisione di partire. Dopo aver scartato Roma e Vicenza, alcuni amici lo hanno invitato a lavorare a Bruxelles. Ci sta facendo un pensierino, intanto torna a dormire in stazione.

Una prima mano d’intonaco

Il Testo unico sull’immigrazione del ‘98 esclude l’accoglienza per cittadini immigrati in situazioni di forte indigenza, se non finalizzati all’accoglienza temporanea nei Cpa e in sostanza in previsione del rimpatrio. Esclude anche un contributo, previsto invece dalla Turco-Napolitano, agli enti pubblici per le ristrutturazioni igienico-sanitarie per immigrati regolari presenti a vario titolo sul territorio nazionale. La Bossi-Fini ha poi apportato ulteriori modifiche non recepite da molte regioni, che peraltro hanno risposto legiferando in autonomia sulla questione immigrazione.

Gli stranieri residenti in Italia nel 2008 erano 3.891.295, più 862.453. Pochi al Sud, 352.434, ma in costante aumento. Come, ma soprattutto, dove vivono? Secondo il Sindacato unitario nazionale degli inquilini e degli assegnatari (Sunia), il mercato degli affitti in Italia vede aumenti di canone significativi, essendo salito dal 130% al 145% nel decennio 1998-2008. Almeno per le metropoli. Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) puntualizza che al nord si affittano case a stranieri che sono al di sotto degli standard degli autoctoni, mentre man mano che si scende le distanze si assottigliano. Il Censis nel 2005 ha evidenziato due problemi gravi, uno al nord e uno al sud. I costi degli affitti troppo alti costringono gli stranieri ad abitare in periferia, incidendo sulle spese per i trasporti e sulla socializzazione, mentre al sud il problema è la discriminazione relativa a pregiudizi di carattere igienico e di assenza di garanzie.

Una ricerca nel Mezzogiorno, Sotto la soglia, evidenzia che le agenzie immobiliari non affittano case a non comunitari su richiesta dei proprietari. Molti autoctoni dichiarano di non volere stranieri come vicini. Scenari immobiliari fissa a 78mila gli acquisti di case da parte dei lavoratori immigrati nel 2009, e nel 2010 pare si siano arrestati a 53mila, la metà esatta della media dell’ultimo lustro, durante il quale sono stati acquistati 600mila alloggi per una spesa complessiva di 70 miliardi. Nel VII rapporto 2010, il Cnel gira poi il dito nella piaga insostenibile dei mutui e degli affitti per coloro che perdono il lavoro o che guadagnano meno per via della crisi. Questa strada porta diritto a morosità e aumento trasversale degli sfratti. Condizioni di questa gravità non erano in previsione, visto che ancora il Censis, nel 2006, rilevava condizioni abitative stabili per l’84% degli immigrati regolari e condizioni di disagio per il 36%.

La casa degli orrori e quella dei sogni

Da denunciare la vita dell’1%,dei regolari, stipata in “altro tipo di alloggio”, che per caratteristiche non può essere definito abitazione: 4.852 persone. Abitano invece edifici costruiti prima del 1962 il 52,8% degli immigrati, in costruzioni moderne solo il 13,6%. Il Censis ha ricostruito le case standard degli immigrati: più piccole, con meno stanze, sovraffollate, vetuste e con peggiore dotazione di servizi rispetto alla media italiana. Con un divario di condizioni che comunque si assottiglia sempre più al Sud.

Demolendo per un minuto questa foto desolante, il dossier Caritas/Migrantes ha effettuato un focus sulle politiche abitative: il top è l’Emilia Romagna, dove sono state da tempo costituite agenzie per la casa con finalità sociali, utilizzo e recupero del patrimonio edilizio già esistente, interventi di facilitazione alla locazione, credito per l’acquisto, equa ripartizione del fondo per l’affitto in sostegno alla domanda.

Ma la realtà italiana è un intonaco disfatto: sta scomparendo il sostegno all’edilizia sociale agevolata, idem per i sistemi di contributi per il sussidio casa, assenza di parità di accesso, e il tutto è complicato da quote, bonus punti per gli anni di residenza, separazione delle graduatorie tra italiani e stranieri, e altri complicati intrecci di calcoli. Cosa fare per rinfrescare in attesa di tempi migliori e poi ricostruire? Il Cnel fotografa la situazione attuale e anticipa le misure in cantiere. Arriveranno 200 milioni per le emergenze alle Regioni (ma ne erano previsti 550), il Piano di sostegno all’edilizia è dato in coma, come misura inadeguata rispetto alla situazione. Il Piano di edilizia abitativa che si fonda essenzialmente su un sistema di Fondi d’investimento immobiliare, nazionali e regionali,e un allegato di quest’ultimo ripartito per 377 milioni tra le Regioni.

L’analisi conclusiva del Cnel: “Da questo quadro emerge chiaramente che nei tempi brevi sarà molto difficile poter dare risposte adeguate alla crescente domanda. Questo anche considerando la riduzione del trasferimento delle risorse alle Regioni e agli enti locali previsto con la recente manovra finanziaria del Governo. In ogni caso ci vorranno anni per tradurre i finanziamenti (…) in case abitabili”. Tra le proposte del Consiglio, quella di attivare politiche di sostegno per i redditi più bassi (fino a 14mila€ netti l’anno), perché queste persone  destinano ora dal 63% al 94% del loro reddito per le spese abitative, e mantenersi invece entro il 30%. Offrire nuovi spazi all’housing sociale, implementato da un potenziamento dei Fondi immobiliari per valorizzare periferie e aree degradate. Proprio l’housing sociale è al centro della proposta di legge presentata dal Cnel in Parlamento e che dovrebbe essere oggetto di valutazione, in tempi in cui si parla troppo di una sola casa, per altro fuori dei confini nazionali.

Puglia chiama Casa

Un recente report di ricerca dell’Osservatorio provinciale sull’immigrazione (Opi), presentato a dicembre 2009 e in attesa di pubblicazione, ricostruisce l’iter legislativo riguardo al diritto alla casa e analizza i principali regolamenti comunali. In attesa che la Corte costituzionale dia una risposta definitiva all’impugnazione da parte del governo della legge regionale della Puglia n. 32 del 2009, valgono in regione le disposizioni della 54/84, che ammette come unico requisito la cittadinanza e la reciprocità stanti trattati e accordi internazionali. L’Opi ha inoltre analizzato i regolamenti comunali con presenze significative di immigrati, evidenziando che criteri e disposizioni alimentano gravi disparità di accesso e concludendo che: “Per esperienza presso gli enti locali, sappiamo che nella maggior parte dei bandi comunali per l’accesso all’edilizia residenziale pubblica, il fatto di non avere un’attività lavorativa stabile, o di essere disoccupato, permette al cittadino italiano di aver attribuito un permesso maggiore, mentre (…) per il cittadino straniero non comunitario, rappresenta un motivo di esclusione dal bando”. In altre parole, per poter rivendicare qualsiasi diritto lo straniero deve anzitutto dare garanzie economiche stabili.

La situazione cambierà con il progetto Puglia aperta e solidale. Diritto alla casa, diritto di cittadinanza, finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, dall’assessorato alla Solidarietà della Regione Puglia in partenariato con le Province pugliesi. Attivato a febbraio 2009, ha il proposito di favorire l’housing sociale in favore dei migranti e delle loro famiglie, attraverso la costituzione di un’ Agenzia sociale di intermediazione abitativa (Asia) in ogni provincia. Ogni agenzia prevede servizi per l’immigrato e per il proprietario.

All’immigrato sono forniti servizi di accompagnamento e intermediazione circa l’orientamento, l’informazione e il completamento delle operazioni di ricerca e di definizione del contratto. Il requisito loro richiesto è quello di essere “regolare”. Il proprietario dell’abitazione, che sia a norma, usufruisce di contratti concordati e di una serie di servizi nella gestione tecnico amministrativa, quali la contrattazione del canone, la stipula dei contratti, registrazione, indicizzazione, suddivisione delle spese condominiali, dichiarazioni alla questura. Oltre a questo aspetto, le agenzie Asia supportano anche quei migranti che, in condizione di temporanea difficoltà, chiedano di essere ospitati presso le strutture ricettive convenzionate.

Le abitazioni occupate in Puglia da soli stranieri o anche da stranieri sono circa un milione e mezzo, mentre abitano in “altri tipi di alloggi” altre 286 persone. Sotto la soglia, lo studio realizzato con il patrocinio dell’Ue, del Ministero dell’Interno e del Ministero della Solidarietà sociale, sottolinea che in Puglia “il quadro  complessivo del disagio si presenta con molti chiaroscuri; se infatti una “qualche” sistemazione abitativa risulta essere alla portata della maggior parte degli immigrati nell’intero territorio; il percorso di accesso all’alloggio resta (…) difficile ed alta è la domanda che si registra per il pur degradato patrimonio immobiliare in offerta”.

Sono molto alti i tassi d’ insoddisfazione abitativa in particolare nei centri urbani, dove c’è sia tensione che densità, una sola eccezione: Lecce.

Nella città barocca

Nelle 13 aree del Sud analizzate da Sotto la soglia, Lecce rappresenta una piccola eccezione, perché asperità sociali sono mitigate dall’attitudine all’accoglienza. Tuttavia il mercato degli affitti è per tutti una giungla. Le statistiche dello studio citato delineano un primo approccio alla questione. Delle oltre 13mila presenze registrate in provincia, circa un terzo sono residenti considerati stabili. Per il 47% di loro, il primo alloggio non è stato come potremmo immaginare in un centro di accoglienza, ma presso parenti e amici, quasi sempre in una casa o in una stanza e per fortuna quasi mai in “altri tipi di abitazione”.

La spesa è spesso pari a zero finché non si trova una sistemazione migliore, o comunque contenuta entro i 100€. Un dato significativo è che entro i primi cinque anni di permanenza, il 68,8% di loro ha cambiato casa tre volte: il motivo principale è l’aumento dei costi. Lecce è tra le aree dove i prezzi degli affitti per gli stranieri sono aumentati visibilmente, attestandosi sui 356€ mensili più le utenze. Il quadro delle coabitazioni propende nettamente per quelle con i propri famigliari (60,9%), in una zona semicentrale delle periferie, e il grado di soddisfazione è tra quelli più convinti dell’intero meridione, anche se in prospettiva futura il 37,2% cambierebbe alloggio per uno spazio in condizioni migliori. Abbiamo già detto dei risultati generali della ricerca riguardo ai rapporti di vicinato, ma possiamo rimarcare che a Lecce il 48,7% dei residenti stranieri li giudica “discreti”.

Come in tutta la nazione anche Lecce soffre delle rigidità di accesso ai mutui e ai finanziamenti per via delle scarse garanzie possedute. Ce lo conferma Sergio Brocchi, della filiale leccese della Banca popolare pugliese: «Difficilmente i cittadini extracomunitari superano positivamente il credit scoring (la valutazione della solvibilità dei potenziali clienti, ndr), perché bisogna garantire il domicilio in Italia, in quanto risulterebbe costoso e improponibile un recupero forzoso del debito in patria, e non fa fede nemmeno un lavoro con un contratto regolare, bisogna vedere quale tipo di contratto, di che durata e con quali introiti. Difficilmente si arriva al minimo dei 14mila€ di reddito richiesti. E questa è l’esperienza di una banca che pure in passato ha avviato progetti embrionali di microcredito con cooperative di extracomunitari per finanziare piccole operazioni. Ma la congiuntura attuale non ci permette di prendere certi rischi».

Un’idea più omogenea di quanto avviene sul territorio comincia a darla l’Asia della provincia di Lecce. Lo sportello è situato in viale Marche, presso la sede del Servizio immigrazione della Provincia, e annovera nel suo staff alcune precise figure professionali: la coordinatrice del progetto, Klodiana Çuka, due mediatori interculturali, un consulente immobiliare, un legale e un’assistente sociale. Per quanto riguarda l’emergenza, si cerca di fronteggiarla con sette strutture convenzionate (due a Lecce, una in chiusura e in sostituzione e una in fase di ristrutturazione, e le altre a Maglie, Giorgilorio, Cavallino, Surbo e Tiggiano), per un impegno economico di 141mila€ e un totale di 94 posti utilizzati a rotazione dai migranti, spesso incoraggiati a presentarsi allo sportello da amici e famigliari.

Si possono quantificare a oggi circa 100 contatti ricevuti. Ogni utente, ospite presso uno dei centri convenzionati, dovrebbe pagare un ticket di 3€ a notte che molto spesso non è stato corrisposto a causa delle difficoltà economiche degli utenti stessi. Sono invece oltre 200 i contatti avvenuti per il servizio d’intermediazione abitativa, che hanno riguardato per lo più la città di Lecce. Si tratta, in prevalenza, di uomini di una fascia di età tra i 25 e i 35 anni, quasi tutti provenienti dall’area del continente africano, in particolare da Senegal e Ghana, e da quello asiatico, indiani e srilankesi.

Molti di loro avanzano richieste di base poco esaudibili per l’attuale contesto leccese: un bilocale arredato per una sola persona o nucleo famigliare che non superi il costo mensile di 350€. Spesso gli operatori hanno dovuto accorpare più richieste per la locazione in case molto più ampie che potessero ospitare anche quattro o cinque persone per un affitto complessivo di circa 500-600€ mensili. La lingua batte dove il dente duole: potenzialità ancora inespressa dal progetto è l’attivazione del microcredito in favore dei migranti. La Regione ha da poco stipulato la convenzione con Banca Etica, proprio per consentire ai migranti di accedere a piccoli prestiti del totale massimo di 2500€, da restituire in tempi lunghi e a condizioni agevolate. Un peccato, perché questi finanziamenti avrebbero potuto riguardare un buon 70% dei contatti effettuati dall’Asia: «Ecco perché la prosecuzione del progetto-ci dicono dal centro-sarebbe particolarmente utile a tutti quei migranti che, difficilmente bancabili in condizioni ordinarie, potrebbero fruire dell’accesso a fonti di finanziamento seppur minime, necessarie per avviare piccole attività di commercio ambulante, come pure per il pagamento delle cauzioni relative alle abitazioni prese in locazione».

C’è da rimarcare che dalla sua piena operatività ad aprile, il progetto Asia a Lecce avrebbe dovuto chiudere i battenti a fine settembre, ma va registrata la volontà politica di proseguire reperendo fondi locali o mediante la partecipazione a bandi nazionali.

Ibrahim Faye: Le Savoir guide!

Ibrahim è molto chiaro, da subito:« Ho 37 anni, essendo nato il 9 dicembre ’72, vengo da Guédiawaye, Senegal». È un dipartimento della regione di Dakar, a nordest della capitale, e guarda negli occhi l’Oceano Atlantico «Sono venuto in Italia il 28 novembre del 2008, dopo aver viaggiato in aereo, con visto turistico per la Spagna e poi per la città di Parigi».

Sceglie di seguire a Lecce il fratello Amadou, più grande di lui (potete conoscere la sua storia nel foto racconto), che giudica come il più tranquillo e accogliente dei posti finora visitati. Ha avuto molti problemi di discriminazione, a suo dire, che lui bolla come problemi di “ignoranza” di certe persone, «ma se dovessi mettere le cose belle e le cose brutte che mi sono capitate qui su una bilancia, le prime peserebbero molto di più».

È la prima volta che deve cambiare due volte casa: ha appena lasciato quella del centro storico, nelle cosiddette giravolte che servivano a far perdere i conquistatori stranieri e ora “accolgono” i nuovi cittadini. Ha dovuto lasciarla per l’umidità e perché il proprietario deve ristrutturarla per venderla. La sua ricerca è durata circa tre settimane: a parte la miriade di no ricevuti perché non è né uno studente né soprattutto una studentessa, ha anche ricevuto delle risposte esilaranti al telefono, non fossero discriminatorie. A parte qualche secco “Non vogliamo immigrati”, qualcuno si è avventurato nel paradosso: “No, no, non affittiamo”,«Ma se questo sul biglietto è il vostro numero», era la semplice osservazione di Ibrahim, che per tutta risposta riceveva un “Non è vero” e la chiamata si perdeva.

Dopo un lungo pellegrinaggio per via Leuca, il quartiere di Santa Rosa, il centro ormai off limits (lì i soldi degli immigrati sono stati la base per lussuose ristrutturazioni o nascite di b&b), una San Pio che dovrebbe chiedere un incentivo all’Ente per il diritto allo studio e a quello per le pari opportunità vista la dedizione con la quale sistema esclusivamente quote rosa di studentesse.

Dopo tante esperienze degne del Rocambole di Terrail, Ibrahim conclude il trottolio su viale Taranto, con quattro suoi fratelli. Gli chiedo se oggi saprebbe dirmi se a partire ha fatto bene: «In parte sì e in parte no. Posso apprendere idee economiche e culturali per la mia terra, per il pane e per il suo sviluppo. Tra gli insegnamenti del profeta Muhammad (Maometto, ndr) c’è l’esortazione ad andare a cercare il sapere Jusqu’à la Chine (fino in Cina), ma se non torni è male. E lo stesso diceva Baye Niass, che pure ha fatto molti viaggi ed è morto a Londra: niente è più bello di Medina».

E dopo le citazioni la conclusione: «Credo che il mondo è difficile, ma lavoro per entrare in relazione, ottenere confidenza e il rispetto dalle persone. Cerco sempre di essere un po’ “speciale”, per provare a dialogare, poi nessuno è perfetto. Ed è importante questo: capire che siamo vulnerabili, e darci una mano, tutti». E ci prova anche con me: «è importantissimo per esempio il lavoro di giornalisti come te che lavorano per la conoscenza, la quotidianità e la memoria. Le savoir guide!. Il sapere guida». Non è un francese impeccabile, ma si fa capire. S’è guadagnato un tè e un pacco di gomme.

La dignità oltre le braccia

 

Unlike the rest, Rafaël Rozendal, 2007

Di Andrea Aufieri. Pubblicato su Palascìa_l’informazione migrante, Anno I Numero 3, Ottobre 2010-Gennaio 2011.
http://www.metissagecoop.org

Maggio 2009. Alcuni video girati nelle campagne di Nardò (Lecce) mostravano come non ci fosse alcuna differenza tra gli immigrati-schiavi delle Murge, quelli derubati di ogni dignità dai caporali in Capitanata, e, infine, il Salento che rivendicava una sorta di verginità, forse dimentico delle biciclette dei bisnonni nel falò dell’Arneo di ormai mezzo secolo fa.

Maggio 2010. Numerosi comunicati sindacali a firma Cgil, ma anche i dati del dossier di Medici senza frontiere, mostrano che anche il Tacco d’Italia affina gli anticorpi della legalità contro il lavoro nero. Su questa linea il progetto Amici, un filtro di luce nelle tenebre.

Non è quantificabile il numero dei lavoratori “irregolari” sfruttati nelle campagne, essendo solo 2000 quelli dichiarati a vario titolo dalle aziende agricole della regione, il 5% dei lavoratori totali. Così come neanche quest’estate i 118 dell’area salentina si sono risparmiati il soccorso a gente con problemi gravissimi d’igiene e malnutrizione. Eppure leggerete di un esempio positivo, per uscire dai canoni del macabro che tanto piace ai lettori, e per indicare una strada che vorremmo che le istituzioni seguano. E che lo stesso Comune di Nardò porti avanti, perché ora non si sa nemmeno se quello che è avvenuto quest’estate si ripeterà. Sembra di essere nel film Risvegli.

Gianluca Nigro, coordinatore dell’associazione Finisterrae e del progetto Amici, ci racconta l’isola felice della masseria “Boncuri” di Nardò.

Com’è nato è come si è sviluppato il progetto?

Dall’esperienza di alcuni di noi che conoscono il lavoro stagionale dei migranti. Agire sull’emersione del lavoro nero è l’elemento centrale. Bisogna implementare questo modello e lavorare sulle aziende perché si esca dalle condizioni negative. Siamo convinti che si possa ragionare sull’incontro tra domanda e offerta di lavoro attraverso il pubblico e lavorare con le istituzioni per far capire alle aziende che un modello messo positivo può essere utile per tutti, ed eliminare le sacche di degrado.

Qual è stata la parte delle aziende?

Che io sappia nessuna, ma non credo che esse possano sempre scaricare i costi sul pubblico e ottenere tutti i benefici. Dev’esserci una convergenza sui ruoli. Va trovata una linea di discussione in cui si determinino le convenienze per le parti.

Com’era il villaggio?

Abbiamo avuto nel complesso 400 unità tra il 21 giugno e il 31 agosto. 28 tende di cui 25 comprate con contributi della Provincia di Lecce e del Comune di Nardò e tre in prestito da altri enti come le protezioni civili locali. Avevamo una sala mensa non utilizzabile per quella funzione e allora abbiamo aggiunto qualche materasso per poter ospitare dignitosamente altri lavoratori durante il picco stagionale. Poi un ufficio di accoglienza, il presidio medico, l’assistenza locale e uno stanzone con funzione di moschea. Poi c’era anche la sala usata come lavanderia a diretto uso degli ospiti.

E la mensa?

Non era prevista, perché intorno al centro c’erano dei gruppi di cucine allestite autonomamente dai lavoratori, che nel frattempo socializzavano. Avremmo smantellato un’autonomia organizzativa che ci sembrava importante. A parte per le norme di base per la convivenza, c’era comunque grande autonomia degli ospiti rispetto a tutto.

I lavoratori erano con le famiglie?

Nel Foggiano ci sono le strutture per questo, ma qui non era possibile farlo. Non abbiamo seguito l’esempio degli alberghi diffusi perché secondo noi è stato un tentativo errato per allestire la convivenza: troppe poche persone, pagare anche se in modo simbolico la permanenza, tutta una serie di cose, tra cui anche il rapporto di costi di spesa, la disponibilità di strutture, di fronte poi all’enorme afflusso, hanno un po’ tarpato quell’esperienza.

Quali realtà hanno partecipato al progetto?

La ristrutturazione della masseria “Boncuri” è stata avviata nel 2008 con l’assegnazione di fondi Cipe e del Ministero del Lavoro, che ha poi delegato alla Regione per la programmazione su progetti che consentissero l’emersione dal lavoro nero. Il progetto è stato proposto da Finisterrae e dal Comune di Nardò, poi è stato sostenuto e sponsorizzato da una rete di istituzioni e associazioni, fino all’attivazione delle Brigate di Solidarietà attiva Salento, importante perché si è forgiata con l’esperienza dell’Aquila e da metodi democratici come le assemblee in masseria. Molti elementi positivi: la solidarietà anche tra lavoratori, anzitutto, base imprescindibile per il lancio della campagna Ingaggiami contro il lavoro nero, la presa di parola dei lavoratori contro il sommerso, che ci hanno messo faccia e magliette. E si trattava della presenza storica dei tunisini che raccolgono le angurie qui da vent’anni, dei fuoriusciti dai Cara senza alcuna prospettiva neanche con la protezione ottenuta, delle vittime della crisi delle aziende del Nord.

Il progetto è finito. Cosa succederà l’anno prossimo?

Non lo so. A prescindere dalla nostra presenza a Nardò in questo specifico campo, vogliamo diffondere una pratica innovativa. Ci sono molte incognite, abbiamo elaborato una proposta più complessiva per l’anno prossimo. Più estesa in numero di posti, anche, e per modulare un intervento organico ancora più incisivo sulla via dell’emersione. Faremo una rete almeno meridionale di soggetti associativi e istituzionali-anche in Calabria- che in qualche modo seguano queste dinamiche per definire un modello sostenibile che agisca sulla tutela complessiva dei lavoratori, perché abbiamo creato un’isola felice, ma poi non abbiamo cambiato delle vite. I braccianti immigrati nel Meridione sono 80-90 mila e le condizioni di vita sono spesso pessime. In tutto ciò poi c’è una grande ingiustizia perché è una parte importante della nostra economia che si regge su braccia straniere sottopagate e umiliate. Dormire sotto un ulivo a Nardò è una cosa dura, ma è meno dura che non avere nessuna prospettiva per il domani. Prestare la propria opera a un caporale è mettere la propria vita in mano a un irresponsabile.

Intercultura all’italiana

Striscia di Mauro Biani

 

Di Andrea Aufieri. Pubblicato su Palascìa_l’informazione migrante, Anno I Numero 3, Ottobre 2010-Gennaio 2011.
http://www.metissagecoop.org

L’Italia è un paese che racconta di oscillazioni migratorie in entrata e in uscita, da sempre. La misura doveva esser colma già ai tempi di Dante, che respingeva questa donna di bordello, troppo promiscua anche nel meticciato delle sue culture. Il poeta dovrebbe farsene una ragione: nonostante la facilità con cui il popolo abbia voluto seguire bandiere di qualsiasi colore, l’anima è rimasta una e molteplice, divisa e indivisibile. E preparata anche, d’istinto prima ancora che per legge, all’accoglienza, salvo poi dover dare anche un colpo al cerchio del mercato. Così l’orda, per dirla con Stella, i nuovi barbari e la costruzione mediatica del nemico, del capro espiatorio di malesseri sociali prima ancora che economici. E il tentativo d’innesto di modelli che poco hanno a che fare con questo paese. Da diversi anni si evidenzia una realtà senza equilibrio: è richiesta la presenza di lavoratori immigrati, eppure si rende difficile l’arrivo e la permanenza. Fino a quando potrà durare questa situazione, prima che il paese si abbandoni alla povertà e alla vecchiaia cui vuole condannarsi? In questi anni si giocano molte speranze. Siamo abituati a leggere la presenza immigrata sotto la lente della spesa pubblica, e non ragioniamo sulle possibilità di crescita che questa ci offre. Abbiamo provato a porre due domande urgenti agli attori nazionali  dell’intercultura, dalla politica all’arte, dal diritto ai movimenti, dal giornalismo all’università e alla ricerca. La fotografia è piena di contrasti, le potenzialità sono in mano ai cittadini.
Le nostre domande:

  1. Il VII Rapporto Cnel conferma che in Italia è forte la richiesta integrativa rivolta agli immigrati, dall’assistenza alla manodopera, al lavoro qualificato. Tuttavia, siamo ben lungi dal facilitare il loro ingresso e la loro partecipazione. Cosa ha fatto e cosa deve fare il nostro paese sul piano del riconoscimento delle identità perché possa presentare un modello interculturale valido in Europa?
  2.  Come valuta l’apporto che la sua categoria professionale ha dato finora allo sviluppo di un’Italia interculturale e quale potrà essere il suo peso nell’immediato futuro?
Ferruccio Pastore

Ferruccio Pastore_Direttore Fieri, Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione.

Gli anni 2000 rappresentano un cambiamento rispetto agli indirizzi di ricerca tradizionali sui modelli d’interazione e dialogo da parte delle nazioni europee. Gli esempi all’avanguardia di tali sistemi erano i paesi del fordismo come il Regno Unito, poi affiancati dai paesi come la Francia e l’Olanda, che realizzavano un’assimilazione laica a oltranza, mutuando l’esperienza canadese, per arrivare al forte welfare della Germania, sistema più rigido nell’assimilazione culturale. Gli ultimi 15 anni d’immigrazione, però, passando dal 2001 e dagli attentati di Madrid e Londra, che bisognerebbe stabilire quanto abbiano a che fare con la presenza immigrata in Occidente, hanno messo in crisi i vecchi sistemi, rimandando a una sorta di mitologia o stilizzazione di tali modelli anche sul piano normativo. Ed è accaduto che nazioni prima molto aperte come l’Olanda e la Svezia affrontassero una deriva securitaria, mentre la Germania si ammorbidiva sulla questione della cittadinanza. In mezzo a tutto questo l’Italia naviga a vista con repentini cambi di rotta dall’80 a oggi: si frammentano gli approcci a seconda delle proposte avanzate dal privato sociale, dal terzo settore, dalle Regioni e dagli enti locali, relativizzando l’importanza di un modello. I modelli europei dei Duemila si confondono, e rischiano di sfaldare l’Europa unita, perché i sistemi risultano fragili rispetto agli obiettivi da raggiungere. Così si calma l’opinione pubblica introducendo i flussi e assicurando che gli immigrati “cattivi” si rimpatriano e che qui arrivano solo quelli che servono. In realtà il reato di clandestinità, pur rappresentando una politica tra le più pesanti in Europa, sortisce pochi effetti concreti, così come se già c’è una crisi di assorbimento dei cervelli italiani, che emigrano, è utopistico pensare che possano essere richiesti solo stranieri qualificati. Il problema è più complesso se introduciamo la questione delle migrazioni circolari, perché non è detto, anche se razionalmente parrebbe così, che gli immigrati ritornino in patria se non hanno la certezza di trovare una situazione adeguata né quella di poter emigrare nuovamente: manca una progettazione internazionale in tal senso.
La cultura_Parlerei di produttori di conoscenze e di opinioni. La rappresentazione che la società fa di sé quando sta cambiando è di tipo scientifico, giornalistico, autoriale, eccetera. L’Italia è partita da una buona base di ricerca sull’emigrazione, e ci ha messo un po’ per ottenere l’attenzione di sociologi, antropologi e demografi sulle questioni dell’immigrazione. Ancora più tempo, per un percorso che ancora non ritengo concluso, c’è voluto per economisti, studiosi del diritto e della politica. I livelli attuali sono ancora insufficienti rispetto all’importanza della sfida, anche se sia Istat che Banca d’Italia hanno adottato da anni questo filone di ricerca. Mancano soprattutto le risorse. La ricerca è fondamentale per costituire anticorpi contro slogan e strumentalizzazioni. Per una serie di motivi i media vi si approcciano strumentalizzando, per contro c’è chi vede tutto rosa. Capire le trasformazioni profonde e spesso problematiche che l’immigrazione porta con se è possibile se la ricerca consente riferimenti chiari e oggettivi su bisogni e implicazioni.

Franco Pittau

Franco Pittau_Coordinatore “Dossier statistico immigrazione” Caritas/Migrantes.

L’immigrazione fa parte strutturalmente di un paese pregiudicato nel suo sviluppo da un andamento demografico negativo, che si ripercuote sul mercato occupazionale. Inoltre, il Rapporto Cnel mostra le diverse potenzialità d’integrazione riscontrabili nelle varie regioni e province d’Italia. Tutti gli studi statistici, a partire da quelli del’Istat, sono di segno univoco circa l’importanza dell’immigrazione nei futuri scenari del paese. L’anomalia italiana, purtroppo in contesto europeo che è andato anch’esso diventando più ostile all’immigrazione, consiste nell’elaborare una sorta di “mistica pubblica” che mal si compone con questa realtà di fatto. Parlare di un modello italiano è presuntuoso in questa situazione caratterizzata dalla divaricazione tra la realtà effettiva e il suo inquadramento concettuale. Sono, invece, possibili approcci corretti o scorretti agli “stranieri” (che poi, in realtà, tali non sono in quanto destinati a vivere e a morire da noi). Sono positivi il riconoscimento dell’utilità degli immigrati a livello demografico e occupazionale, la curiosità rispetto alla loro diversità culturale e la disponibilità al confronto, il rispetto della loro diversità religiosa; sono negativi, invece, i pregiudizi sullo straniero clandestino, delinquente, persona di secondo rango destinata a mansioni inferiori e non meritevole di godere di pari opportunità. Fin quando non si arriverà a considerare gli immigrati compiutamente “i nuovi cittadini” è fuori posto parlare di un modello interculturale italiano, per giunta valido in tutta Europa.
La ricerca_ La strategia seguita da Caritas/Migrantes in vent’anni di studi statistici si può così riassumere: per convivere, italiani e immigrati insieme, bisogna conoscersi a vicenda; per conoscere correttamente gli immigrati sono di fondamentale utilità i dati statistici; le statistiche vanno interpretate dall’intrinseco e non secondo idee preconcette; il risultato di queste analisi non va limitato a una ristretta cerchia di studiosi e di operatori bensì partecipato all’opinione pubblica; seguendo questa impostazione, bisogna esigere coerenza nei politici, negli amministratori, negli uomini di cultura e nelle persone comuni, così da poter fare pace con il nostro presente e specialmente con il nostro futuro.

Jean-Lèonard Touadi

Jean-Lèonard Touadi_Parlamentare del Partito democratico.

Questi dati sono l’ennesima conferma che il volto del paese continua a cambiare di anno in anno nelle sue strutture sociali, assorbendo sempre più al suo interno persone con culture differenti. L’immigrazione è un momento epocale di trasformazione per questo paese, un dato riscontrabile in tutti i settori, dall’industria al welfare, eppure questo paese stenta a prendere atto del carattere stabile e organico di questo fenomeno, visto che ancora non si fanno i conti con questa realtà dal punto di vista della cultura, della comunicazione, dell’ordinamento giuridico. È evidente la sfaldatura tra i dati che leggiamo e la totale assenza di politiche strutturali. Dobbiamo decidere se possiamo permetterci di considerare gli immigrati, nuovi cittadini, come una casuale presenza spaziotemporale, lasciando che la comunità italiana e quelle straniere vadano per conto proprio. Servono delle politiche mirate a favorire un processo lento ma pianificato di questo pezzo di popolazione. Adeguare una legislazione che ora guarda allo straniero solo come lavoratore, così se questo elemento decade non ha più senso la sua presenza qui. Modellare la legislazione sulla persona, riconoscere le specificità culturali degli stranieri, dando al contempo la possibilità di conoscere l’Italia. E questo processo si completa se si favorisce la partecipazione del soggetto alla vita pubblica: anche senza passaporto, se le persone vivono qui da dieci o quindici anni hanno il diritto di usufuire dell’elettorato attivo e passivo almeno a livello amministrativo. Questo avrebbe il doppio significato dell’inclusione e della responsabilizzazione. Credo si debba lavorare per riconoscere la cittadinanza italiana ai figli degli immigrati sin dalla nascita, accompagnarli poi nella quotidianità come si fa con tutti, perché siamo lontani ormai dalla fase emergenziale per cui gli stranieri erano solo bocche da sfamare, occorrono al più presto, perché siamo in ritardo, politiche complementari.
La politica_Dal 1980 la politica italiana ha fatto grandi passi avanti verso la consapevolezza della presenza degli immigrati, sfociando poi nella legge Martelli, per arrivare al decreto Dini e alla legge Turco-Napolitano, comportandosi come un paese che prende sempre più atto della presenza di nuovi cittadini. Ma con la Bossi-Fini del 2003 la classe politica si è irresponsabilmente rifiutata di governare e gestire la questione, illudendosi di poter garantire una vita a immigrazione zero. Questa è una grave colpa della classe politica italiana, che deve ora ripartire quanto meno da quel 9% del Pil di sola provenienza immigrata, deve prendere atto del rinnovamento demografico che gli immigrati apportano alla nazione. Deve infine, come compito morale prima ancora che politico, diradare le nubi della paura, esaminare ed eliminare con la costruzione di esempi positivi tutta una simbolica messa in piedi nella designazione del nemico. La consapevolezza culturale e politica dell’inevitabilità del fenomeno deve portare la nostra società ad aprirsi: società che non sono lontane anni luce dalla nostra, (Usa e Germania) essendosi aperte all’altro, sono divenute più giovani e floride.

Ernesto Maria Ruffini

Ernesto Maria Ruffini_Avvocato dell’ associazione A buon diritto.

In questo momento l’Italia è un caso da non prendere a esempio. Lo squilibrio è la dimostrazione di come l’immigrazione sia declinata, letta e affrontata ipocritamente solo per fini elettorali e non per una reale costruzione di modello che comunque si imporrà alle nuove generazioni indipendentemente dalla nostra volontà di arginare il fenomeno. La domanda di forza lavoro è tale che il mondo del lavoro non può fare a meno dell’apporto immigrato. Pensiamo alle badanti che consentono alle famiglie italiane di continuare ad avere ritmi di vita alti, senza preoccuparsi dell’innalzamento dell’età media. Lavori che ormai non sono più appetibili dai giovani italiani, nel mondo dell’agricoltura o in talune fabbriche, perché il rapporto ora/lavoro non alletta nessun italiano. Questo lo stato dell’arte. Forse il superamento della situazione verso un sistema d’integrazione, parola né brutta né bella in sé, ma forse più utile è condivisione della nuova società italiana, avverrebbe consentendo agli immigrati di essere parte della formazione di un nuovo modello societario. Permettere la partecipazione verso una società che comunque, nostro malgrado, si creerà, perché di fatto, per la natalità, andiamo a ritmo incalzante verso la multietnicità e il mutamento fisiologico della nostra identità nazionale. O costruiamo prendendone atto o ignoriamo senza risolvere il problema, senza ostacolare lo straniero che ha trovato il lavoro in nero dal datore di lavoro italiano.
Il diritto_ Il mondo della giustizia è rimesso alla lungimiranza del legislatore e alla sua generosità, nel momento in cui un operatore si trova dinanzi a una normativa chiara, netta e ostativa rispetto al fenomeno immigratorio. Certamente il giudice non ha grandi spazi di manovra: questa potrebbe essersi creata nei mesi scorsi in relazione alla domanda di costituzionalità della legislazione attuale. Rispetto al permesso di soggiorno, invece, la difesa è quasi impossibile. L’unico spazio di difesa è quello di provare a scardinare la figura di reato introdotta sollevando eccezione di costituzionalità. Gli immigrati accusati d’immigrazione clandestina, poi, possono avere altri gravi problemi, e permettono di intraprendere altre tutele nei loro confronti.

Laura Boldrini

Laura Boldrini_Giornalista, portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unchr).

Bisogna capire che esiste sviluppo locale anche attraverso i rifugiati, che per la loro presenza si riaprono le botteghe, si ristrutturano i borghi, le suole si riempiono. Semplicemente perché ci sono i rifugiati. Ci sono buone pratiche che però non sono sostenute, c’è la tendenza a rendere la vita dei migranti molto complicata. Penso che si possa fare decisamente di più, ma per farlo c’è bisogno di una visione politica e di convincere i cittadini che dall’immigrazione c’è da guadagnarci tutti, non è trascurare il disoccupato italiano, è consentire più diritti a tutti, perché erodendo i diritti cominciamo con gli immigrati, poi con i rifugiati, poi con le minoranze, le donne, già stiamo erodendo quelli dei lavoratori italiani. Su questo punto la politica dovrebbe avere il coraggio, nell’interesse collettivo, di prendere atto del male che si fa al paese cavalcando l’illegalità. L’Italia è tristemente famosa nel mondo per la malavita organizzata e l’italiano medio, se intervistato sull’illegalità e l’insicurezza, risponde che la prima causa di questo è l’immigrazione. La politica ha lavorato stancamente su questa equazione, pochi si son presi la briga di capire quali altri temi possono essere lanciati. Non si esce più da questa cosa. Chi ha una visione dovrebbe ragionare nel lungo e nel medio termine.
I media_ In quanto giornalista, pretendo di comunicare, che è la cosa più importante, perché bisogna dire alla gente che non si deve sottostare al grande equivoco della paura, grande catalizzatore di consensi. Forze politiche ci marciano. Non risolveremo i nostri problemi cacciando i nostri immigrati. Internet ci fa capire che siamo tutti in movimento, noi il mondo ce l’abbiamo a casa e la migrazione è la stessa cosa, non si possono bloccare, ma al massimo regolare e gestire questi fenomeni. L’Italia ha un ruolo di primo piano nello scacchiere europeo, noi abbiamo nel nostro dna una carta in più, siamo il risultato del crocevia, ma oggi diamo precedenza all’imprenditoria della paura. C’è un’Italia che non si vede, degli impegnati e degli insegnanti che fanno lezione gratuitamente alle persone, quella degli avvocati che fanno valere i diritti, così come c’è l’Italia dei medici che curano senza voler nulla in cambio e che non denunciano gli “irregolari”. Questa Italia non trova sempre spazio sui media, perché i media sono innamorati del modello cattivo, quello del coltello tra i denti. Mia figlia mi chiede perché i ragazzi in tv ci vanno quando fanno i bulli e non quando fanno le cose per bene. Perché, le rispondo, voi non siete trendy, studiate, fate volontariato, non fate notizia. Il cattivo è destinato a non farcela. Dare voce a questa società vincente, orfana anche politicamente, perché la politica trova grande convergenza sul tema della tolleranza, ma poi non compie l’atto pratico, si coniuga sempre e solo la paura e la sicurezza, si respinge in mare, si respinge culturalmente, e rischiando l’isolamento culturale. Andrea Camilleri, che è un mio amico, mi parla spesso della sua formazione e dice sempre che è un bastardo, perché ha rubato da russi, francesi, arabi, persiani. Oggi abbiamo anche noi questa opportunità, senza perdere niente. Il mio lavoro è in concorrenza rispetto al sistema che pone una cappa sul nostro paese.

Mandiaye N’Diaye

Mandiaye N’Diaye_Regista e attore teatrale, curatore del progetto Takku Ligey (Qui l’audiointervista che riporta la sua esperienza in Italia).

Io oggi mi considero un italiano, perché qui ho vissuto la parte più importante della mia vita: avevo 20 anni quando sono arrivato e ne ho 44 ora e sono felice di aver vissuto una vita così. La mia esperienza con il Teatro delle Albe, oggi con Ravenna Teatro, coincideva con l’uscita della legge Martelli, che consideravo come un passo fondamentale nella garanzia dei diritti di tutti. Oggi l’Italia ha messo da parte questa intelligenza, che le proveniva storicamente dall’aver saputo inserire il cristianesimo in Europa, garantendole un grande ruolo. Oggi dovrebbe essere molto più avanti e invece è tornata indietro. C’è un senso d’integrazione a senso unico, e oggi i miei figli vivono in Senegal, ma in futuro dovranno essere i mediatori e traghettatori tra le culture, potranno essere italiani solo a 18 anni, e questa credo sia una mancanza di rispetto. Coinvolgere l’essere umano a far parte della società dovrebbe essere un dovere di una comunità: i figli degli immigrati dovranno divenire cittadini italiani.
L’arte_ Faccio un esempio: nel 2006 con il progetto di “Takku Ligey” (“darsi da fare insieme”,ndr) nel mio villaggio, Dioll Kadd, abbiamo preso un testo di Aristofane, Pluto, il gioco della ricchezza e della povertà. L’abbiamo ambientato nella stagione delle piogge, quando si semina il miglio e l’arachide, e nel nostro villaggio, spopolato da 1500 a 500 abitanti perché tutti sono andati a Dakar o in Europa, le 500 anime litigano perché la tradizione dice che per seminare il miglio bisogna aspettare certi segni di animali che volano e le ombre che cadono in un certo modo: quindi abbiamo riprodotto uno scontro tra conservatori e progressisti, come certi dialoghi tra Cremilo e Carione. Ambientare tutto in un rito antico, simile a quello greco, ha avvicinato due culture in apparenza lontanissime: molti autori e gente di cultura come Marco Martinelli, Gianni Celati e Antonio Aresta hanno apprezzato molto questa riscrittura, apparentemente lontana e antica, rimodulata per l’attualità a fare un ponte tra due culture, questo è intercultura. Oggi in Italia molti gruppi musicali e teatrali fanno intercultura. In più di tre anni trecento italiani sono venuti a Dioll Kadd, dal sud al nord, il nostro piccolo teatro riesce a unire l’Italia. Abbiamo anche partner che ci sostengono da Lecce alla Svizzera grazie al progetto di meticciato che abbiamo realizzato. Il teatro fa incontrare le persone, al di là delle volontà secessioniste di qualsiasi spinta. Noi riuniamo degli amici intorno a un teatro, un progetto di sviluppo.

Marco Bersani

Marco Bersani_Coordinatore nazionale Attac Italia, Associazione per la tassazione delle transizioni finanziarie e per l’aiuto ai cittadini.

L’Italia deve guardare alla propria storia, siamo una terra d’immigrazione dopo essere stati migranti, portatore di una storia e di una cultura, il problema va preso di petto. Non si può separare l’utilizzo di manodopera e professionisti che arrivano dal mondo migrante chiedendo loro di essere presenti in campo lavorativo, ma escludendoli da tutto ciò che non attiene a quella sfera. Questo è un problema politico: usare migranti per abbassare il livello di diritti dei lavoratori italiani, cosa che ha creato conflitti orizzontali. Fasce deboli della popolazione sono caduti nell’ideologia della paura e della sicurezza. Eppure i reati di microcriminalità sono minimi rispetto al totale, aumentano invece le violenze familiari. Problemi nelle relazioni affettive significano che si rompono i legami sociali, si costruiscono meno relazioni, e sulle poche che ci sono gli italiani giocano tutto e se si rompono accade un crack. Invece vogliamo distrarci col nemico esterno diverso culturalmente, religiosamente. Un capro espiatorio fortissimo. Credo che si debba considerare l’Italia una terra di accoglienza, un elemento di ricchezza materiale, contribuiscono all’aumento dei livelli di ricchezza e di cutlura. Appartenenze e identità sono sempre più piccole e spesso fasulle, come la Lega che nasce dall’appartenenza a un mito che non ha fondamenti nella storia.
I movimenti_ Associazioni e movimenti, soprattutto quelli gemmati dal movimento dei movimenti costituitosi a Genvoa e poi radicato con alterne vicende nei territori, hanno fatto un buon cordone intorno alla questione dell’affermazione dei diritti degli immigrati. Ora faticano nel trasportare l’attenzione da un’errata concezione residuale delle politiche immigratorie nell’agenda politica, verso un’affermazione centrale. Sforzarsi di leggere la società dal punto di vista del migrante perché questa non ha un suo andamento e poi, a margine, ha un problema sugli immigrati: la società non funziona e un’ottima cartina tornasole sono i migranti. Le persone sono schiacciate dalle logiche di mercato. Associazioni e movimenti dovrebbero riuscire a dare una lettura complessiva del fenomeno come parte della complessità della società italiana e mobilitarsi, perché se no dobbiamo prepararci a cedere terreno nel campo dei diritti di tutti. Devo registrare un’insufficienza dei movimenti stessi perché un conto è solidarizzare e un altro costruire una cultura maggioritaria, dentro le persone non direttamente attive sulla questione per una diversa consapevolezza su chi arriva dall’altra parte del mondo. E certo bisogna fare i conti poi con una campagna mediatica pesante che instaura la paura nel cittadino medio: è facile immaginare che ci sono problemi di sicurezza rispetto alla disfunzione dello stato sociale, magari attribuibili a certe comunità piuttosto che criticare un modello economico, sociale, ecologico che va contro i reali bisogni delle persone.

Intercultura all’italiana?

Imbastendo le interviste viene fuori un abito di difficile vestibilità per gli italiani. Ci si chiede se sia effettivamente utile allestire un modello stabile dinanzi a un fenomeno costante nei suoi dati oggettivi, ma aleatorio riguardo alla qualità. E pare ormai scontata l’impossibilità di allestire politiche migratorie a sé stanti, come se fossero slacciate dai problemi trasversali che attraversano e mettono in crisi ogni aspetto della società italiana. Non contrastato né tanto meno rivisto da una politica responsabile a livello comunitario, il mercato economico, finanziario e del lavoro del sistema in cui viviamo prende con ferinità il sopravvento su ogni aspetto della vita sociale. Questa situazione dà adito a una precarietà che fa impressione per la vastità e la profondità raggiunte. Incapace in questo momento di dare risposte di fronte all’Europa, se non sul piano dei respingimenti, e al contempo lasciata sola a gestire il crocevia dall’Europa stessa, l’Italia ha delle lillipuziane speranze. I singoli esempi e progetti di inclusione e socializzazione per tutti, la possibilità di rendere più ampia la partecipazione degli immigrati, la ricostruzione giornaliera, costante di un nuovo tessuto sociale che dia nuove basi al concetto di identità attraverso l’educazione e la formazione. Ripartire dai comuni: sono questi gli esempi che vanno incoraggiati e strutturati.
Per un’Italia capace di futuro.

La bellezza è migrante

Di Andrea Aufieri. Editoriale di Palascìa_l’informazione migrante, Anno I Numero 3, Ottobre 2010-Gennaio 2011.
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Prima di lasciarvi con gli eventi dal mondo, le parole del cuoco-poeta Biso, i tratti sarcastici del satiro Biani, prima di tutto questo, l’ultimo contenuto a pagina intera che Palascìa registra al termine di una folle corsa durata un anno, è il pensiero di Orodè sulla Bellezza, questo canto aperto all’universo: “(…) è la voce di colui o colei che per davvero fanno il massimo per essere veri” ci dice l’artista salentino, prima di sbatterci in faccia l’egoismo che ci siamo scelti per cui ha senso solo una rivoluzione personale. Potremmo aprire, discutere, scardinare questa cruda verità con le parole di Gandhi, che Vandana Shiva ha ripetuto, ridonato a tutti, nella distrazione della calda estate salentina e che Alba Monti, con il suo orecchio acerbo, non ha dimenticato di citare: “Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. E chi ancora ci crede potrà obiettare che Orodè non ha parafrasato Gandhi ma Guevara: “La prima rivoluzione è dentro di noi”.

In questo numero ci scontriamo con delle montagne, visibili a occhio nudo o invisibili ai lettori che per un momento condivideranno storie, interviste, pensieri con noi. Ci sono la fame nera del Congo, del Kenya, del Senegal. Le pareti asfissianti dei Cie e quelle sognate di un tetto nella terra per cui si è affrontata una vera odissea, la stessa terra che a volte
non stimiamo nemmeno un cent. C’è la distruzione dell’Aquila, la prostituzione a Torino, i mostri dell’ignoranza, del razzismo e della violazione di dignità negli stadi come per chi cerca casa, quanto per chi lavora nelle campagne. C’è il Moloch del precariato nella vita di chiunque e di qualsiasi cosa, anche di un progetto come quello che avete tra le mani in questo momento. Cibo per alimentare quello che Laura Boldrini descrive come l’imprenditoria della paura, l’impianto politico e mediatico che attanaglia la vita fatta di relazioni fragili e di passioni tristi che stanno segnando la nostra società.

Qui non c’è il limbo della non scelta: occorre scegliere, e in fretta.
E l’altra faccia delle storie che abbiamo scelto di proporvi racconta proprio di chi ha deciso che sì, la rivoluzione è personale, ma il suo prodotto, o meglio la sua ricerca, ovvero ancora la Bellezza non può restare nei cuori piccoli e secchi degli egoisti.
La Bellezza gira, è dappertutto, migrava prima ancora che l’uomo ne cogliesse la categoria. Bisogna saper guardare, bisogna saper ascoltare, a volte bisogna proprio volerla.  Non troverei altre parole per definire l’altra faccia delle storie che vi raccontiamo, in ordine sparso: Chiara, i braccianti di Nardò e di Cerignola, Bastri, Amadou, Robert, Ibrahim, Andrea, Salima, Carlo, Massimiliano, Longinos, Joy.

È alle loro storie, per l’alterità di cui sono portatori sani, che dedichiamo la sezione culturale e ci interroghiamo sulla possibilità di un’Italia che sappia affrontare il cambiamento. Ed è per i loro sorrisi e la possibilità di costruire insieme.
E gira gira, finisce che la soluzione è sempre la stessa: è tutto in mano a noi i cittadini, svegliarsi dal torpore, affrontare le esplosioni interiori. Condividere la Bellezza.

In ascolto del bisogno

 

Mario Signore, foto di Lorenzo Papadia

Andrea Aufieri,pubblicato su Palascìa_l’informazione migrante, Anno I Numero 2, Maggio-Settembre 2010.
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Il paradigma della complessità come assunto interdisciplinare contro l’autoreferenzialità dell’epistemologia e il riduttivismo, per l’ascolto del bisogno e un nuovo welfare: tutto questo alla base della nuova collana di Pensa multimedia, Inter-sezioni, diretta da Mario Signore, docente di Filosofia morale presso la facoltà di Economia dell’Università del Salento, e della sua opera “Economia del bisogno ed etica del desiderio”.

Quale via per prendere coscienza della nostra “porosità” e metterci finalmente in ascolto del bisogno?

Si parte anzitutto tentando di costruire un’antropologia incentrata sul tema del bisogno: àntropos non è l’uomo generico, è considerato nella sua interezza, e orientato essenzialmente attraverso il bisogno, grande sintomo dell’essere uomo,  caratterizzato dalla bisognevolezza. Acquista una dimensione ontologica, diviene costitutivo della natura umana. Partendo da un’antropologia che guarda al bisogno vogliamo parlare dell’uomo in “carne e ossa”, senza per questo rinchiuderlo nella pesantezza del Körper, giacché la porosità, la sua complessità, lo apre alle domande dello spirito. Perciò cerco di recuperare parole scomparse dal nostro quadro semantico, come quelle di corpo e di anima, da contrapporre al rischio del riduttivismo esasperato. Si parte dalla consapevolezza del Mängelwesen, l’uomo come essere carente, fino alla potenzialità del Kulturwesen, uomo culturale, essenza dell’antropologia e dell’essere, strumento o paradigma entro cui legare tutti i discorsi pratici.

Come superare il riduttivismo con la semantica del bisogno e ambire alla metamorfosi del reale?

Il riduttivismo induce ogni scienza a rivendicare l’egemonia di un segmento della natura umana, pretendendo come totale ciò che è solo una parte. Il paradigma della complessità guarda invece all’umano come a una meraviglia antropologica, in cui sono presenti tutte le dimensioni che lo costituiscono. Nella mia concezione, più ampia di quella di Edgar Morin, a cui mi ispiro, il bisogno è il punto d’ingresso per tutto l’uomo, pensato in un orizzonte infinito entro il quale si giocano i destini della storia e della metastoria. Dobbiamo poi fare un’altra operazione oltre a quella che ci porta alla coscienza della complessità: bisogna concepire il bisogno come “bisogno ricco” che, con riferimento ad Aristotele, Hegel e Marx, non si esaurisce con l’istinto di sopravvivenza. Con Agnes Heller, allieva di Lukács, definisco quello della sopravvivenza il “limite esistenziale”, oltre il quale si apre il quadro dei bisogni: il bisogno scatta se la vita è già garantita. La tavola dei bisogni diventa dunque una tavola ricca, ne include altri che fino a poco tempo fa non c’erano, come dimostrano alcune illuminanti politiche sociali. Il concetto di bisogno supera così il welfarismo, nel solco delle teorie di Sen e Nussbaum: limite del welfarismo è quello di pretendere di ridurre a uguali i diversi, mentre un nuovo welfare, fondato sulla teoria di bisogni, vuol rendere diversi gli uguali, sostituire il welfarismo con le capabilities. L’uomo ricco di bisogni si specifica attraverso il serbatoio di potenzialità che ciascuno è. La nostra teoria si fonda sulle capabilities. Il processo di globalizzazione porta con sé la perdita delle identità in un malinteso comunitarismo universale. L’attenzione alle capabilities, come condizioni di possibilità dell’uomo intero, produce identità vere e diversità capaci di produrre il massimo sviluppo delle potenzialità di ciascuno.

Le pari opportunità sono costituzionalmente garantite, ma la loro attuazione non creerebbe una frattura con la concretezza dell’economia?

Perciò ridefinire il welfare, come possibilità di costruzione delle condizioni concrete e delle buone prassi per rendere reali i diritti. Ciò è legato anche all’economia dell’efficienza: avere una scuola e un’università rigorose, ospedali, mercato ed economia che funzionino rivoluzionerebbe tutto. L’economia del profitto per il profitto fa trionfare l’individualismo, e non permette la realizzazione del massimo per ciascuno. Il mio periodo universitario, all’alba della contestazione, è stato segnato dalla “Lettera ad una professoressa” di Lorenzo Milani: la cosa entusiasmante era che questo prete insegnava latino e greco ai figli dei montanari di Barbiana, mettendo in moto tutte le loro capabilities.

In ambito economico, il paradigma della complessità è realizzabile in maniera rivoluzionaria? Lei scrive della politica dell’et et contrapposta a quella dell’aut aut. In Italia tutto ciò è scaduto nel cerchiobottismo. Fino a dove si può mediare?

La mia è una critica alle logiche e alle politiche dell’esclusione, che accolgono la ragione di una sola parte ergendola ad absolutus. È un’apertura al dialogo, un riconoscimento e uno sforzo per cogliere la ragione altrui. Rifuggo l’immediatezza, il senso comune del trascinarsi nella storia, l’accettare la realtà con greve e ingenuo realismo. La mia è una filosofia della mediazione, che scende da lombi nobili come quelli hegeliani, che con l’Aufhebung ci insegna a superare conservando, senza prevaricare. Il problema fondamentale è quello del riconoscimento, che avviene come autocoscienza dell’altro. La prassi rivoluzionaria ha in sé la pretesa di cambiare con i tempi richiesti dalla rivoluzione, che pretendono il superamento disperdendo la ricchezza del punto di partenza: se voglio superare la cultura islamica le faccio guerra, e viceversa. Non  sapremo mai chi vincerà, ma avremo perso la ricchezza inestimabile di una cultura.

È comprensibile però l’urgenza sociale, con problemi come lo spazio e la cittadinanza, che attuando l’altrapolitica possa superare le fratture? Come proporsi, per esempio, al Medio Oriente?

Il tema dello stare insieme è un problema originario, legato alla questione del bisogno. Platone mette in risalto il carattere strumentale dell’abitare:la polis nasce perché dobbiamo cooperare per garantirci la soddisfazione del bisogno. Aristotele fa un passo avanti, ricordandoci che l’uomo è zoon politikon, portato alla relazione. Saremmo avvantaggiati nella risposta al bisogno, proprio nella città dove c’è tutto: il lavoro, la spiritualità, la relazione. I bisogni singoli si superano dove i bisogni artificiali, che producono consumismo, trovano un limite nei bisogni e nelle urgenze degli altri. L’esercizio del dialogo interculturale poi mette a fuoco in maniera a volte drammatica il problema del riconoscimento, così grave in Medio Oriente. Il riconoscimento non è un dato gratuito, come rilevo anche dalla lettura di Emmaus: perfino i discepoli faticano a riconoscere il Risorto. Eppure non c’è altra strada per rendere abitabile il nostro mondo.

Quale ruolo ha il desiderio? Citando Heidegger, l’umanismo ha portato alla catastrofe tecnocratica del presente, e il colpevole è l’uomo, ma la soluzione dei mali è dunque e solo l’universalità dell’unico dio? Quali altri orizzonti?

Heidegger mette a nudo le aporie dell’umanismo, che ha posto l’uomo al centro, ponendo le basi perché egli si sentisse tanto potente da compiere molti mali. Da Nietzsche in poi l’uomo è stato decentrato, c’è stata così la crisi del concetto di coscienza postulata da tutta la filosofia post-nicciana fino al pensiero debole. Nel mio libro precedente, “Lo sguardo della  responsabilità”, rimetto l’uomo al centro gravandolo del peso di un’etica della responsabilità per la sua vita e quella del pianeta. Cercare un altro “responsabile” che unisca l’uomo stesso con le sue fragilità porta a forme scadute di teodicea: sarà colpa del destino o di un dio? Rimettiamo al centro l’uomo, ma in un antropocentrismo relazionale con la natura, l’universo e Dio.  Sono un credente, ma ciò non mi impedisce di partire dall’uomo per una filosofia antropologica. Non trovo coerente con la natura dell’uomo coinvolgere Dio nelle sue vicende, una volta sperimentata la libertà di contrappormi a Lui. Dalla “cacciata dall’Eden”, l’uomo è divenuto responsabile di sé stesso e del pianeta. Tutti però hanno sempre avuto bisogno dei loro dei per trascendere la loro finitezza, la coscienza di essere bisognevoli. Qui la distinzione tra bisogno e desiderio: nel momento in cui l’uomo soddisfa i suoi bisogni è capace ancora di un ultimo scatto verso qualcosa che lo trascende. Il desiderio dell’uomo è illimitato e include anche Dio, anche solo come orizzonte regolativo che lo porta a superare financo i limiti e le ristrettezze dell’essere uomo. Non c’è spazio qui per l’intolleranza, men che meno quella religiosa: ciò che ci unisce è più di ciò che ci divide da altre culture. Il nodo è sempre quello di un rispettoso e consapevole riconoscimento.

Rom a Lecce, in “sosta” da 20 anni

Di Andrea Aufieri. Pubblicato su Palascìa_l’informazione migrante, Anno I Numero 2, Maggio-Settembre 2010.
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Antonio Ciniero, ricercatore dell’Osservatorio provinciale sull’immigrazione della Provincia di Lecce, ci racconta storia e quotidianità del campo “Panareo”.
«La situazione che vivono i rom a Lecce è il risultato di discutibili scelte fatte negli scorsi anni. Lo stereotipo più diffuso è quello di credere che siano un gruppo omogeneo, ma più che parlarne in generale bisognerebbe considerare i singoli gruppi. Quello dei rom è “un mondo di mondi”, per dirla con Piasere. Nel caso della comunità di campo “Panareo” si tratta di rom khorakhanè shqiptare, rom di tradizione musulmana di provenienza montenegrina e kosovara. Vengono soprattutto da Podgorica, e hanno capito cosa significa vivere in roulotte o in baracca solo qui, visto che in patria vivevano nelle proprie case. Il loro arrivo è avvenuto sulla base dei flussi migratori che hanno seguito la dissoluzione della Jugoslavia, vista la tragica contingenza di guerre fratricide impropriamente chiamate etniche. Molti di loro hanno scelto di non imbracciare le armi e di spostarsi. La scelta del Salento non è stata casuale: alcuni commercianti di abbigliamento compravano qui dei capi di vestiario per rivenderli sulle coste montenegrine, che proprio in quegli anni divenivano meta di flussi turistici. Nel ’95-’96, durante la guerra del Kosovo, arriva un secondo gruppo, ma nessuno se ne interessa, se non il volontariato locale e in particolare la Caritas. Che chiede l’intervento delle istituzioni per migliorare le loro condizioni di vita, ma l’ottica dell’intervento istituzionale resta quella securitaria: si effettuano sgombri delle zone occupate accampando motivi di igiene e ordine pubblico. Le uniche risposte istituzionali sono quelle di realizzare un “campo sosta”: dapprima si individua l’ex-campeggio di Solicara (1995) e poi dal 1998 si individua la Masseria Panareo».

«Oltre a quella demagogica non si cerca mai una reale soluzione. Si sorvola sul fatto che molti rom siano richiedenti asilo, che meriterebbero tutele che di fatto non hanno: alcuni non possono neanche tornare in Montenegro, dove pure hanno delle case di proprietà, perché risulterebbero disertori. È impossibile non ritenere che quello dell’approccio alla questione dei rom sia un errore di gestione politica. Un esempio di approccio errato alla “questione rom” è l’emanazione dell’ultimo regolamento del campo approntato dalla commissione per i servizi sociali del Comune di Lecce, che li considera ancora soggetti nomadi. Questo perché non ci si è relazionati con la realtà. È dovuto intervenire il portavoce della comunità, Benfik “Beni” Toska, che ha fatto presente che le stesse persone che si credono nomadi sono qui da venticinque anni».

«La soluzione dei campi è adottata solo in Italia, la prima cosa che invece dicono i rom è che vogliono uscire fuori dal campo. Il campo e un’istituzione totalizzante sul soggetto. Chi assume un rom in “sosta temporanea”? Il campo non fa che riprodurre i meccanismi della stigmatizzazione e dell’emarginazione sociale. La sua stessa collocazione sembra studiata ad arte, a 7 km da Lecce e da Campi, 4 da Novoli e da Surbo, 5 da Trepuzzi, senza collegamento pubblico con le città. Una situazione di questo genere porta all’emarginazione. Qui c’è l’intera quarta generazione nata e cresciuta all’interno del campo. Quella del campo è una scelta imposta. Ancora oggi, in materia di decisioni politiche, si assiste al solito canovaccio per cui prima si decide cosa e come fare, ma poi ci si deve adeguare a quanto deliberato. In una società democratica, non è possibile prescindere dal costante coinvolgimento e dal confronto con i cittadini rom -in questo caso- ogni qualvolta un’istituzione è chiamata in causa per prendere decisioni che li riguardano direttamente. Per pianificare le politiche migratorie territoriali, esiste poi un luogo istituzionale preposto per legge. È la prefettura con i Consigli territoriali per l’immigrazione. A Lecce questa istituzione latita. Sono anni che si chiede uno specifico tavolo tematico che appronti, assieme a tutti gli attori, istituzionali e non, le questioni poste dalla presenza dei rom sul territorio, per individuare insieme a loro concrete e praticabili soluzioni che vadano nella direzione dell’ inclusione sociale».

«È in questo quadro che l’Opi svolge le sue indagini avvalendosi della metodologia della ricerca/azione. Una ricerca militante, che mira alla conoscenza della realtà sociale per poterla modificare insieme ai soggetti/oggetti di ricerca e alle istituzioni locali. Trovare il capro espiatorio nel solo Comune di Lecce, che ha individuato nel campo sosta la soluzione alloggiativa per questo gruppo di cittadini, sarebbe molto facile ma altrettanto sbagliato. La richiesta che viene dal campo è quella di risiedere nel tessuto urbano e sociale dei comuni della provincia. Chi è già uscito dal campo ha visto che la qualità della propria vita è migliorata. Il problema è di riuscire a concertare e pianificare percorsi praticabili a livello istituzionale». «Riguardo al lavoro, uno degli stereotipi più diffusi tra i gagè è quello che i rom rifiuterebbero il lavoro per “cultura”. I rom del “Panareo” si danno da fare, eccome. Sono quasi tutti organizzati con la vendita delle piante presso tutta la provincia, con regolare licenza. Un lavoro congiunturale, però,che richiede autonomia, mobilità, capacità di compravendita, con il quale spesso non si riesce a far fronte alle esigenze economiche di una famiglia. Nel corso del tempo, poi, si ravvisano molte modifiche. Per esempio è venuta meno la logica del manghel (chiedere il denaro per strada), perché i ragazzini nati e cresciuti qui si vergognano di praticarlo. In Italia ancora si attende il riconoscimento dei rom e dei sinti come minoranze linguistico-culturali, come avvenuto per altre realtà. Nel variegato panorama sociale italiano il gruppo più debole è proprio quello dei rom, che pagano gli effetti di un razzismo strisciante presente nella società italiana.

Come ci insegna la storia, la logica razzista si basa sul prendere a oggetto il gruppo più facilmente attaccabile, l’anello più debole della catena, per poi colpire gli altri. Quando è andato al potere il governo più xenofobo dal dopoguerra a oggi, da subito i rom sono stati “oggetto d’attenzione”, partita con la montatura come quella del “tentato rapimento” di un bambino a Ponticelli a opera di una ragazzina rom, che ha scatenato un vero e proprio pogrom, con l’avallo politico delle opposizioni (ricordiamo il vergognoso volantino redatto dal Pd di Napoli che sosteneva i pogrom!) che è culminata con l’emanazione di decreti e atti chiaramente razzisti, come l’Europa, in generale, e l’Italia, in particolare, hanno conosciuto solo durante il triste periodo dei totalitarismi».

SperanzeRespinte

 

Andrea Aufieri, dossier del n.2 di Palascia_l’informazione migrante
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Se l’immigrazione diventa reato.

Alla libera circolazione di beni e merci non corrisponde il diritto delle persone a spostarsi alla ricerca di una vita dignitosa. Almeno non fuori da certi organismi internazionali, chiusi nonostante siano inseriti nel sistema del libero mercato. È su queste basi che la logica dell’accoglienza dello straniero involve sempre più nella caccia al clandestino. Noncuranti della millenaria costituzione etnoantropologica dell’Italia, una sequela di leggi e provvedimenti, di pari passo con un mercato culturale scellerato, ha ingurgitato in fretta il nostro passato di migranti e fomentato paure e derive securitarie, favorendo una dialettica deviata sull’immigrazione, basata sull’ipocrita dicotomia “regolare/irregolare”.

Questo a sua volta alimenta intolleranze persino da parte dei “bravi” immigrati, quelli regolari, per non parlare di sinistre e movimenti “civili”. Si va verso l’inesorabile clandestinizzazione degli immigrati e verso la criminalizzazione dell’atto stesso della migrazione. Eppure quello della migrazione è considerato un atto quasi endemico della natura umana, tanto da essere favorito all’interno dei circuiti comunitari europei, per esempio. In attesa che il centro del dibattito possa mirare a scardinare queste semenze di odio, prima di argomentare sulla questione dei richiedenti asilo, riteniamo opportuno quanto meno menzionare tutti quei migranti ritenuti clandestini, o peggio irregolari.

Quelli che per effetto di leggi, “illegali” in uno stato di diritto, si ritrovano a essere semplicemente invisibili, 650 mila secondo la fondazione Ismu, ma è ovvio che si tratta di un dato aleatorio. Quelli che tentano di arrivare e muoiono in mare, circa 15 mila dal 1988 secondo Fortress Europe. Quelli che senza poter esercitare i loro diritti sono semplicemente ributtati indietro, magari in territori dove non esiste alcuna garanzia per la loro incolumità (circa 1400 in sei mesi dall’Italia alla Libia). Quelli che attendono la loro sorte potendo permanere al massimo sei mesi nei 1806 posti disponibili nei tredici Centri di identificazione ed espulsione (Cie), e che magari fino a ieri producevano reddito e accudivano un’intera famiglia, quella sì “regolare”.

Se una notte di primavera sei “viaggiatori”…

La notte del 5 aprile approda al molo “Giovanni Bausan” el porto di San Giovanni a Teduccio (Napoli) la nave cargo “Vera D”. Bandiera liberiana, armatore tedesco, committente israeliano, comandante russo, manovali e marinai filippini. In questa babele devono essersi accorti davvero molto tardi che tra i container trasportati si erano accampate clandestinamente nove persone, tre ghanesi e sei nigeriane.

Con l’aiuto di Cristian Valle, avvocato di Soccorso legale a Napoli, cerchiamo di capire cosa è successo: «Solo in Italia, nell’atto delle operazioni di scarico, i marinai si sarebbero accorti dei clandestini, che logica farebbe pensare possano essersi imbarcati al porto ivoriano di Abidjan. A quel punto il comandante informa la questura di Napoli, ritenendo di non poter più ripartire per il venir meno del numero legale».
«Il fermo della nave produce vari problemi, quello principale è il blocco delle attività portuali, le cui conseguenze sono la perdita di circa mezzo milione di euro per la compagnia tedesca e soprattutto lo sciopero dell’11 aprile a opera dei marittimi. Intanto la questura, senza aver accertato l’età dei clandestini e dell’eventuale status di richiedenti asilo, ha emesso in fretta un decreto di respingimento».

Prima che il respingimento sia effettivo, però, è già scoppiata la protesta del movimento antirazzista campano e della Cgil, perché lo sciopero del porto ha fatto sì che i motivi del blocco divenissero di dominio pubblico. Scatta il presidio della nave e il sindacato si offre da intermediario, incaricando l’avvocato Valle di occuparsi dei diritti dei clandestini. Si avviano così trattative su più fronti: con l’armatore, il sindacato tedesco e la polizia di frontiera perché la nave non sia allontanata e per avere l’autorizzazione a salire a bordo.  Solo dall’avvocato Valle i migranti vengono a conoscenza dei loro diritti: tutti e nove si dichiarano rifugiati, e sei di loro anche minorenni non accompagnati.

«A questo punto formalizzo la mia nomina e invio le richieste d’asilo con un esposto formale alla questura e alla capitaneria. Intanto solo tre dei sei dichiaratisi minorenni sono sottoposti all’esame biometrico del polso all’ospedale Santobono, che assegna loro un’età di circa 19 anni. Siccome questo tipo di esame ha una fallibilità di due anni circa ed è in uso solo in Italia, quando sarebbe magari più opportuno sostituirlo con quello dell’arcata dentaria, ci aspettavamo almeno la presunzione di minore età, ma la questura non era di questo avviso e ha agito come se fosse stata scartata la fallibilità. A questo punto abbiamo denunciato la cosa e l’ufficio stranieri ha accolto la formalizzazione della richiesta di protezione. Gli immigrati hanno lasciato la nave e si è cominciata a valutare l’ipotesi di portare tutti presso uno Sprarr. Improvvisamente, forse per ordine diretto del Viminiale, dalla questura un passo indietro: tutti e nove i richiedenti avrebbero dovuto attendere la decisione della Commissione rifugiati in condizione di trattamento al Centro di identificazione ed espulsione di Brindisi-Restinco». È la notte del 16 aprile: la gente che presidia l’ufficio stranieri si accorge che qualcosa non va. Appena il blindato diretto a Restinco arriva in strada, i picchetti tentano di non farlo partire. Sono momenti di tensione, il missionario comboniano Alex Zanotelli dichiara che per deportare i migranti la polizia sarebbe dovuta passare sul suo corpo, e subito viene spinto, e si procura delle ferite lievi.

Il mezzo arriva a Restinco, dove di primo mattino la Cgil improvvisa un sit-in ricevendo la solidarietà di diverse delegazioni della rete antirazzista salentina e dei partiti di Sinistra e libertà e Rifondazione comunista. L’avvocato Valle chiede immediatamente udienza dal giudice di pace del Cie, Mario Gatti, cui espone una serie di violazioni di cui bisogna tener conto: la mancata presunzione di minore età e lo spostamento presso un Cie, entro le cui mura non possono restare minorenni e la violazione del respingimento “preventivo”, prima cioè di informarsi sulla volontà dei migranti di chiedere protezione. Il giudice riconosce la minore età per tutti e sei coloro che l’hanno dichiarata, decretandone l’immediato trasferimento presso le strutture preposte in Italia, ma non accetta le altre motivazioni per concedere la protezione ai restanti tre adulti, che restano all’interno del Cie e per i quali Valle ha fatto ricorso al Tar, nonostante il costo della procedura (1500 euro), e al tribunale di Bari perché la commissione per la valutazione della richiesta d’asilo ha intervistato i suoi assistiti in sua assenza.
Questa storia si sarebbe chiusa nel più assoluto silenzio nel giro di pochi giorni, e ciò denota come le cose possono essere fatte in fretta e senza nessun controllo da parte dei cittadini. Soltanto l’attivismo pone un baluardo di resistenza. Ora sei ragazzi cesseranno di essere numeri per poter raccontare una storia. Un privilegio negato a molti come loro.

In Italia si naviga a vista

In Italia non esiste una legge organica che possa facilitare e comprendere, magari con umanità, tutte le dinamiche legate al settore dell’immigrazione, e questo porta a effetti e dispositivi kafkiani. Come l’istituzione dei Cie. O peggio, a valutazioni superficiali, come è possibile leggere nel report dell’Istituto affari internazionali (Iai) per il Senato nel gennaio 2009 sul Trattato di amicizia, cooperazione e partenariato con la Libia: la Libia ha le sue impostazioni culturali, mica può firmare una convenzione internazionale a garanzia dei migranti. E poi non è un problema italiano, ben altri sono i contenuti preponderanti del trattato. Di avviso opposto, tanto Amnesty International, che ritiene l’Italia responsabile della sorte dei migranti respinti, quanto la Commissione per la prevenzione della tortura (il cui acronimo, purtroppo, è Cpt) del Consiglio d’Europa (Coe), che ha espresso notevoli preoccupazioni a riguardo e cui l’Italia ha replicato asserendo che nessun migrante preso a bordo delle navi italiane ha fatto richiesta d’asilo. In merito a questa asserzione potremmo obiettare che se il metodo è quello della “Vera D” ben poca voce in capitolo possono avere i migranti. E a sostegno di questa impressione possono venire l’inchiesta di Riccardo Iacona “Respinti” andata in onda nel programma “Presadiretta” del 6 settembre 2009 (dove si afferma che i migranti respinti il 30 agosto, molti dei quali ricorrenti presso la Corte europea, non sapevano nemmeno di essere stati riportati indietro), e che qualcosa di anomalo possa essere avvenuto lo conferma la citazione in giudizio da parte della Procura della Repubblica di Siracusa di Rodolfo Ronconi della Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere del ministero dell’Interno, e di Vincenzo Carrarini, generale della Guardia di finanza con mansioni di Capo ufficio economia e sicurezza del terzo Reparto operazioni del Comando generale della Guardia di finanza.

E non è tardata a venire nemmeno una dichiarazione di Laurens Jolles, rappresentante per il Sud Europa dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), a commento della replica italiana al Coe: «Preoccupa l`affermazione secondo la quale nessuno tra i migranti respinti in Libia abbia avuto l’intenzione di fare una domanda d’asilo e che, quando ciò è accaduto, la domanda è stata esaminata dalle autorità italiane», perché pare che dal presidio dell’Unhcr in Libia siano arrivate ben altre voci. E proprio dalle carceri libiche provengono le testimonianze giornalistiche di Gabriele Del Grande (“Il mare di mezzo”) e di Laura Boldrini (“Tutti indietro”), a spegnere certe speranze.

Al largo della speranza

Secondo l’Unhcr nel 2008 nel mondo si sono registrate 839 mila domande di richiedenti protezione internazionale, ed è salito a 10,5 milioni il numero di rifugiati e a 26 milioni quello degli sfollati interni. Sono 34,4 i milioni di rifugiati sotto la protezione dell’Unhcr e 4,7 quelli sotto la responsabilità dell’Agenzia per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi (Unrwa). Contrariamente a quanto si possa pensare, il problema dei profughi riguarda per l’80% migrazioni interne ai paesi in via di sviluppo (pvs), che scappano principalmente da problemi di matrice occidentale (Afghanistan e Iraq) per rifugiarsi soprattutto in Pakistan, Siria e Iran. A 51 paesi industrializzati, invece, il compito di provvedere a 383 mila domande di protezione. Negli Usa sono 49 mila, mentre in Italia, quinta nella classifica delle destinazioni nei paesi industrializzati nel 2008, sono 30 mila. Il totale degli ingressi di immigrati in Italia registra solo un 10% per vie marittime, ma di questa percentuale fa parte il 70% dei richiedenti asilo, 36 mila persone. Di queste, due su tre hanno richiesto protezione sul posto o successivamente.

Al 50% dei richiedenti è stata riconosciuta una qualsiasi forma di protezione. Possiamo dunque concludere che un terzo degli arrivi via mare è stato riconosciuto bisognoso di protezione. I paesi di provenienza, nel caso dell’Italia, sono: Nigeria,  Somalia, Eritrea, Afghanistan, Costa d’Avorio, Ghana. Agli arrivi l’Unhcr fa fronte con ben 496 associazioni partner italiane, dal 2006 con il progetto “Praesidium”, finanziato dall’Ue e dal Ministero dell’interno, operativo dal 2008 anche in Puglia, e dal 2007 è stato anche indetto il premio “Per mare” per quelle imbarcazioni private che hanno il coraggio di salvare vite umane, in barba anche alle pericolose leggi statali in materia.

Come evidenzia l’ultimo rapporto Frontex, nel corso del 2009, a partire dall’entrata in vigore degli accordi con la Libia, in Italia si è registrato un vistoso calo degli arrivi per mare, che l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione  internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Ue ha stimato intorno al 33% in meno rispetto al 2008. Di fronte a questo allarme il ministro Roberto Maroni non ha trovato di meglio che polemizzare sul bilancio di Frontex. Comunque, solo pochissime persone sono riuscite a far valere i propri diritti: dei 1409 respinti presso la Libia, solo 24 sono potuti ricorrere alla Corte europea. Eppure la storia delle tutele internazionali per i migranti, accetta un principio fondamentale della legge del mare, quello del non refoulement, il divieto di respingimento, che secondo Amnesty “non implica nessuna limitazione geografica, si applica a tutti gli agenti statali operanti all’esterno o all’interno del proprio territorio. Non si deve respingere né verso il luogo di temuta persecuzione né verso paesi senza guarentigie”.

A parte quanto detto nella rubrica ospitata su questo numero, il docente di Diritto internazionale presso l’Università del Salento Giuseppe Gioffredi precisa che: «Il Trattato sul funzionamento dell’Ue (TfUe) prevede lo sviluppo di una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino e a garantire il rispetto del principio di non respingimento, il‘sistema europeo comune di asilo’. Un sistema comune volto alla garanzia per tutte le tutele e le protezioni previste del diritto, procedure e criteri comuni anche per gli accordi di partenariato e cooperazione con paesi terzi per gestire i flussi migratori speciali». Inoltre: «Qualora uno o più Stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi, il Consiglio può adottare misure temporanee a beneficio dello Stato membro interessato». Un ultimo proposito che deve destare l’attenzione degli organismi internazionali e dei cittadini, perché sembrano essere al via accordi tra Ue e Libia da monitorare con attenzione.

Fabbricare ponti per la “Fortezza Europa”_Intervista a Gabriele Del Grande

Il giornalista Gabriele Del Grande ha fondato l’osservatorio sulle vittime delle emigrazioni Fortress Europe, e ha condotto inchieste importanti, poi pubblicate per Infinito edizioni, come “Mamadou va a morire”(2007) e “Il mare di mezzo”(2010).

Come nasce la riflessione sul Mediterraneo, la “culla della civiltà”, come immenso cimitero nel quale dal 1988 hanno perso la vita circa 15 mila immigrati?

“Il mare di mezzo” nasce a metà del 2005, quando per Redattore Sociale conduco una ricerca sulla stampa internazionale sui morti delle carrette del mare nel Canale di Sicilia. Nel 2006 nasce Fortress Europe e nell’autunno dello stesso anno mi sono dedicato alla storia di Mamadou, una vittima del mare, poi pubblicata nel libro del 2007. “Il mare di mezzo” è un viaggio lungo le frontiere estere e in quelle interne all’Italia, poi nei Cie e nei Cara. I respingimenti sono un dramma soprattutto se avvengono verso la Libia. Come ha documentato Amnesty International, nelle carceri libiche c’è gente non libica che avrebbe titolo per chiedere asilo politico, ma è stata respinta e posta sotto il controllo e gli abusi della polizia del paese di Gheddafi. Restano spesso abbandonati lì nigeriani e piuttosto eritrei e somali.

Ma gli accordi tra Italia e Libia si fermano alle coste? Se Amnesty riconosce l’Italia come responsabile di ciò che accade ai respinti in Libia, perché il governo non ha previsto delle garanzie per i respinti?

La tua è una domanda legittima di chi crede di essere in uno Stato di diritto. Come è possibile leggere sul Rapporto 2009 di Amnesty, l’attuale trattato di amicizia, cooperazione e partenariato sussistente tra Italia e Libia è il risultato di un processo avviato dal primo governo Prodi, e c’è stato tutto il tempo di compiere visite in Libia da parte dei diversi schieramenti che si sono alternati a Palazzo Chigi. E che sappiano delle condizioni delle carceri libiche è certo perché ci sono testimoni oculari e perché c’è l’agenzia europea per il controllo della costa mediterranea (Frontex), che esprime preoccupazione per quegli accordi. Poi ci sono la legge italiana, che vieta il respingimento a chi vuol fare domanda di asilo e tanto meno il “respingimento preventivo”, e quella libica, che non prevede alcuna garanzia per i rifugiati e nessuna ratifica della Convenzione del 1951.

In tale contesto, come è possibile avere una minima conoscenza delle storie e delle persone che tentano di arrivare qui?

Adesso è possibile solo visionare i comunicati del Ministero dell’Interno, che riportano le cifre sui respingimenti, senza poter conoscere nemmeno nomi e nazionalità. Il 30 agosto 2009, 75 persone, tra cui donne, bambini e minorenni non accompagnati, sono stati respinti senza alcuna identificazione. Eppure le espulsioni collettive sono vietate dal quarto protocollo aggiuntivo della Carta europea dei diritti umani. Solo 24 di loro hanno potuto fare ricorso alla Corte europea, ma questa è più una sconfitta per coloro che non sono riusciti a ricorrere piuttosto che una vittoria del diritto, solo una minoranza vi è acceduta. Ogni tanto la giustizia batte un colpo, come è accaduto per le citazioni in giudizio emessa dalla Procura di Siracusa proprio per i fatti di agosto. Ma è una goccia nel mare, quella stessa citazione non è una condanna e potrà finire in archivio.

 E ci sono storie di opposizione a una “legge illegale” come la definisci tu.

Sì, è il caso dei salvataggi a opera di numerosi pescherecci italiani al largo di Mazara del Vallo. Per effetto della legge sull’immigrazione del’98 siamo arrivati a una situazione di assurdo conflitto: il divieto di portare a terra clandestini, passibile di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, contro l’obbligo di prestare sempre soccorso sancito dalla Convenzione Sar (Search and rescue) del ‘79. Una legge variamente interpretata dalla guardia costiera: può andare andare bene ai pescatori italiani, malissimo ai sette tunisini che nel 2007 soccorsero alcuni naufraghi. Furono arrestati e le loro navi poste per mesi sotto sequestro a Lampedusa, dimezzate così del loro valore, provocando infine licenziamento e disoccupazione dei malcapitati. E ci sono poi storie che non vorremmo mai sentire, quando nemmeno la legge del mare può nulla contro il terrore instaurato dalla legge reale: è il caso del peschereccio di Mola di Bari, il cui capitano ributtò a mare un naufrago che dopo poche bracciate annegò sfinito. Era il gennaio del 2008. Al di là di questi casi limite, penso che non ci sia solo un problema di legge, ma proprio di comunicazione. La gente non conosce i propri diritti ed è trattata come se ogni vita avesse un peso o un valore differente.

Come è possibile sviluppare una resistenza a questo stato di cose, come fare che la “fortezza Europa” stenda i suoi ponti e diventi una piazza?

Anzitutto bisogna prendere coscienza che l’immigrazione è solo una “parete” di questa fortezza. Tuteliamo da sempre la libertà di circolazione dei beni e delle merci, non lo facciamo allo stesso modo per le persone. Eppure i ponti si costituiscono con l’apertura. Il futuro è in un’altra finanza, in cui la vecchia Europa non giocherà più un ruolo di primo piano: l’interesse si sposterà sempre più sull’Africa e sul resto del mondo. Il rischio per l’Europa è quello della crisi e del collasso. Altri paesi crescono velocemente. Si può ancora trovare un equilibrio: è il caso dei gemellaggi tra i porti di Genova e Tangeri. La redistribuzione della ricchezza dovrà avvenire e passerà anche grazie al ruolo degli immigrati.

I mondiali dei migranti

 

Di Andrea Aufieri. Pubblicato su Palascìa_l’informazione migrante, Anno I Numero 2, Maggio-Settembre 2010.
http://www.metissagecoop.org

Qualcosa permette al calcio di essere ancora popolare, oltre il bombardamento mediatico.
Se è vero che gli scandali, le violenze e le misure di sicurezza hanno ridotto l’afflusso dei tifosi nelle gabbie cui sono stati ridotti gli stadi italiani, non si può dire lo stesso del fascino di tirare due calci a un pallone.

Sempre meno per strada, sempre più per i numerosi campi delle strutture sportive o degli oratori. Quasi mai in undici: troppi amici da conoscere e concertare, magari in cinque, e davvero su qualsiasi qualità di campo. Se va bene, come vedremo nel caso di “Calcio senza confini”, per un torneo si possono raggruppare otto persone e costringerle a scendere in campo una volta a settimana, ma questo denota passione e quello spirito così ben raccontato da Francesco De Gregori ne La leva calcistica della classe ‘68, che ha reso quella canzone un evergreen.

E poi. Non ci sono più le bandiere, sono tutti mercenari, e se esistono non spiccano per sportività e correttezza. Eppure, forse in competizione solo con la musica, è proprio il calcio ad aver globalizzato sul serio certe dinamiche culturali in ogni angolo del mondo. Se prima poteva far sorridere vedere uno straniero indossare la maglia dell’Inter, giocatori della squadra “multinazionale” a parte, oggi si vedono sempre più immigrati indossare le maglie delle proprie nazionali, sempre più competitive.
Proprio in quest’ottica la madre di tutte le manifestazioni calcistiche, il Mondiale di calcio Fifa, si gioca quest’anno in Sudafrica. E anche quest’anno ha il suo inno pop, cantato da Shakira: Time for Africa.

È davvero il momento dell’Africa? Ecco cosa ne pensano Billy e Ablaye, senegalesi, rispettivamente supporter e portiere part-time del team Afika Unite. Fanno quattro chiacchiere con me poco prima della delicata sfida contro le Kapu Vakanti, primi in classifica del girone di qualificazione A del torneo “Calcio senza confini”. Billy ha 32 anni e ne ha passati a Lecce quasi otto, fino ai 22 è stato un corridore velocista, appassionato di atletica leggera in genere. Tifa Senegal, che dopo i fasti dei mondiali nipponico-coreani ha vissuto un lento declino «ma abbiamo cambiato politica e ci stiamo riprendendo». Ha seguito comunque i mondiali e ha tifato Italia, credendo nel bis e perché «ormai l’Italia è la mia casa: nessun posto è ospitale come il Salento. A Dakar ho fatto altrettanti lavori che in Puglia: dal cameriere al meccanico, fino al bracciante per la raccolta di angurie e pomodori e l’estirpazione di erbacce. Anche se non ci sono soldi e se non ho un lavoro serio da due anni, anche se qualcuno appena sono arrivato ha approfittato della mia poca conoscenza dell’italiano per rubarmi soldi, ho conosciuto tante brave persone che mi hanno aiutato nei momenti difficili e mi hanno dato coraggio, mi hanno convinto a non disperare».

Ablaye ha 19 anni, studia come grafico presso l’istituto superiore “Antonietta de Pace”, lavora come assistente presso un anziano leccese, e ama molto il calcio, tanto da venire a parare quando può, anche subito prima o subito dopo alcune giornate un po’ troppo faticose, nelle quali il lavoro e lo studio coincidono. Il team dello Unite, appena lo vede, gli fa una grande festa, nonostante il primo portiere sia molto affidabile e spettacolare. È a Lecce da solo un anno e mezzo: «Qui ho trovato la pace. Sono arrivato su una barca in Spagna, poi sono stato a Milano e a Parma, ma qui ho trovato gente simpatica e conviviale, soprattutto presso l’ufficio Migrantes e lo sportello per l’immigrazione della Provincia, che mi hanno dato consigli e aiuto per la scuola, per i documenti, per il lavoro». Sul Senegal ha una sua precisa teoria: «Per passare le qualificazioni ci voleva il cuore, e quello da un po’ non ce l’abbiamo, siamo poco umili. Camerun e Ghana si vede che superano i problemi tecnici facendo squadra. Anche per questo ho tifato Camerun».

Mi dice di essere molto attivo nel sociale: qui a Lecce ha fondato l’associazione “Teranga-Associazione per l’integrazione partecipativa”: «In questo momento di grave crisi, noi che veniamo qua per quanto ci è possibile dobbiamo evitare di essere un peso per gli altri e per la società, è giusto che ci impegniamo». È venuto per fare gli auguri ai compagni, lui deve scappare al lavoro, ma prima di andare via dà un ultimo sguardo a quel pallone che rotola sul campo di un paese che sente finalmente suo e per il quale ha dato e continuerà a dare tanto. Già, la partita è terminata con una sconfitta di misura (1-0), poi la squadra è stata eliminata. Ma partecipare è importante.

 

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