Giulia Migliore, in arte Julielle, leccese classe 1994, sta compiendo un viaggio artistico e personale di grande profondità ed è bene restare aggiornati. L’ha capito la BMG, che l’ha voluta come autrice nel suo team.
Quando Salento Review sarà in edicola, sarà uscito anche il nuovo singolo, Double hour, possibile manifesto del dualismo che anima la sua creatività. Un lavoro perfezionato durante il lockdown, tra le sessioni alla tastiera e le sedute di reiki, la pratica giapponese della sintesi delle dualità: «Il periodo di quarantena non è stato un meteorite, per le mie abitudini. Mi preoccupava di più il lato artistico, perché avevo paura di non riuscire a scrivere nulla. Invece in poche settimane ho abbozzato il nuovo lavoro, che sarà un altro ep, o forse proprio un album intero, che comprenderà anche i brani di (a)Cross. E Double hour si può definire tutto un mio trip sulla “doppia ora”, quando le lancette si sfiorano per una volta ogni sessanta minuti, ma non si toccano. È la prima canzone che ho scritto pensando a qualcuno. Forse vuol dire questo scendere a patti con sé stessi e capire che le parole, dopotutto, possono essere reali, come le persone a cui vorresti dirle (forse)».
(a)Cross è stato prodotto da La Rivolta Records di Paolo Del Vitto. Un incontro avvenuto «per caso, non sono mai stata brava a promuovere me stessa. Non sono molto eccentrica, non sono mai stata la bambina che cantava usando la spazzola e saltellando allo specchio. La mia voce ha lottato contro di me per uscire. Da quando ho conosciuto Rivolta è diventato tutto reale, la mia vita è cambiata, mi ha dato la libertà di poter pensare alla musica come un lavoro. Mi ha aiutato a capire cosa significa avere dedizione e obiettivi. Non è facile lavorare con me, ho un caratteraccio, ed è bello avere qualcuno su cui contare sempre».
Già, l’amore per la musica: «Da piccola sentivo l’esigenza di suonare e quando avevo 8 anni ho cominciato a prendere lezioni. Adesso, quando scrivo e compongo, lo faccio senza una vera coscienza, so che devo mettere “rec” sullo smartphone, vado alla tastiera e viene fuori un brano. Quando mi convince posso passarlo a Lorenzo Nadalini (GodBlessComputers), che produce le canzoni sorprendendomi sempre per la pazienza, la professionalità, la genialità nei suoi tocchi minimal. E anche con gli Inude proseguiremo la collaborazione perché sono persone adorabili e artisti notevoli».
C’erano i rave clandestini degli anni duemiladieci tra Lecce e Bari – «le nostre Woodstock» – e ci sono gli ascolti che la emozionano: «Soprattutto Christian Lӧffler, della scena elettronica tedesca, perché tutto quello che compone si congiunge perfettamente ad ogni mio stato emotivo. Nella scena italiana ho scoperto di recente Vipra (Giovanni Cerrati) ex voce dei Sxrrxwland. Grazie a lui, per la prima volta, non ho fatto alcuna fatica ad ascoltare e ad amare un genere che prima non consideravo molto. Se Lӧffler riesce a descrivere la mia emotività, Vipra dà voce alle mie giornate con semplicità, naturalezza e dolcezza nell’uso dell’italiano come nessuno ha mai fatto».
In (a)Cross tutto si traduce in una specie di nuvola lisergica elettropop, onirica ed eterea. Julielle descrive l’intero lavoro come un’esperienza di sacralità laica: «Non sono credente, ma sono molto affascinata dal e da ciò che è sacro, in particolare nel cristianesimo, dove convivono spiritualità e carnalità. Il senso dell’ep e della mia esperienza finora è che la musica sia croce e delizia. Posso dire che essa mi attraversa, ma non mi appartiene. È quello che Jacques Lacan ha espresso in uno dei più bei concetti al mondo, definendo la parola “jouissance”, che potremmo tradurre con “godimento”. Secondo questo concetto, chi può dirsi davvero padrone del proprio corpo e delle proprie emozioni? Un altro concetto per cui ho scelto di chiamare (a)Cross questo lavoro è perché sono legata, in senso laico, al simbolo della croce».
(a)Cross è un ciclo che va dal senso di vittoria a quello di resa, non senza speranza. Julielle lo racconta così: «In (a)Cross, ogni traccia ha i suoi colori e le sue immagini. Toys è stata tradotta da una poesia che dedicai ai miei genitori, è il mio canto di liberazione dopo una lotta con me stessa, cantando “I shot the sheriff, he stole my toys” io sono sia lo sceriffo che la bambina con i suoi giocattoli. Voices credo sia la più straziante, ma vale lo stesso senso di lotta con la mia parte più autodistruttiva. Ether è una ninnananna, l’ho scritta quando una mia amica mi disse di aspettare un figlio. Mi sono chiesta cosa potessi dire a un bambino per dargli il benvenuto in questo mondo così arido, complesso e cattivo. Ho risposto con l’immagine dei serpenti, di cui ho paura e che sono sempre stati presenti in tutto ciò che scrivo, “but look those eyes, they don’t look so bad” guarda quegli occhi, non sembrano, poi, così cattivi. Bisogna sempre cercare di vedere la bellezza nelle cose, anche nelle paure. Survivors è un inno alla forza e alla fiducia. Aliens&Flowers per me è una fotografia di un letto al mattino, e la notte la fotografia è completamente diversa, “sing me to sleep tonight”e “I see flowers in your eyes, I see aliens in my bed” è la presenza assente e l’assenza presente di qualcuno che forse non ho mai amato, ancora. Mi piace scrivere le canzoni come lettere mai spedite a qualcuno che immagino solamente».
Tra (a)Cross e Double hour cos’è accaduto? «Ho collaborato come autrice con grandi professionisti, come Dani Faiv e Jake La Furia, insieme ad Andrea Simoniello (Kanesh), un mio caro amico, e ne sono molto felice, perché la scena rap italiana mi ha sempre appassionata. In uno dei miei momenti più intensi, l’apertura al concerto degli Editors e dei Cigarettes After Sex, al Medimex 2019 di Taranto, oltre all’adrenalina e alle endorfine che mi dà ogni concerto, credo di aver trasmesso la passione per quello che faccio anche ai miei parenti più cari. E ho capito soprattutto cosa non mi piace: dire no alle esperienze».
I nuovi salentini è il titolo dell’ultimo libro della giornalista Giorgia Salicandro, edito da Tau per la collana Testimonianze e Esperienze delle Migrazioni, curata dalla Fondazione Migrantes.
Il testo raccoglie alcune delle più significative esperienze raccolte da Salicandro per Il Nuovo Quotidiano di Puglia, con l’aggiunta degli ultimi tre capitoli, inediti. Le esperienze raccontate raccolgono un arco temporale tra il 2016 e il 2019. Il lavoro trova più che degne firme di corredo: la presentazione di Giovanni De Robertis, direttore generale della Fondazione Migrantes, la prefazione di Leonardo Palmisano,scrittore e attivista, la postfazione della scrittrice Igiaba Scego.
Abbiamo parlato con l’autrice partendo da un concetto interessante che lei dichiara subito nella sua introduzione: «Io non ho mai voluto lasciare il Salento». Una dichiarazione di attaccamento e di amore che sta alla base della curiosità e della volontà d’indagare i perché dei “nuovi” salentini, cioè di tutte le persone che scelgono di vivere nell’estremo lembo di a Sudest d’Italia, tra integrazione e idee di futuro. Un dialogo dal quale potremmo uscire tutti più ricchi.
Giorgia Salicandro con la copertina del suo libro I nuovi salentini
Se dovessi descrivere un’istantanea del Salento riguardo il livello di multiculturalismo, quali concetti useresti? Quali credi che siano i punti di forza del territorio nell’aver “acquisito” questi nuovi cittadini? E quali le criticità?
«Non sono brava con i concetti, per questa “istantanea” vorrei partire piuttosto da tre luoghi a mio avviso rappresentativi. Il primo è contrada Spigolizzi a Salve, nel Capo di Leuca. Qui negli anni Settanta approdarono Norman Mommens e Patience Gray, artista fiammingo lui, scrittrice inglese lei, i quali fecero di una masseria abbandonata una casa d’arte e di cultura che aprì questo periferico lembo di terra a un circuito da tutta Europa. Un luogo esemplare dell’apporto dato al Salento dalla piccola ma significativa comunità di artisti e intellettuali che ha saputo riconoscere la poesia lenta del territorio prima degli stessi salentini, contribuendo a rilanciare l’immagine delle masserie e dei centri storici. Il secondo luogo è un campo di angurie nelle campagne di Nardò, con centinaia di lavoratori provenienti dall’Africa, giovani, giovanissimi e meno giovani, schiene spezzate e, spesso, un giaciglio sporco e inadeguato a ristorare la stanchezza. Questi lavoratori sostengono ogni giorno una parte non marginale della nostra economia, e tuttavia qui come altrove non hanno diritti né visibilità, vivono segregati ai margini della società e non sono messi nelle condizioni di poter arricchire il territorio con la loro esperienza culturale oltre che le loro braccia. L’ultima immagine allarga l’inquadratura a paesi e cittadine, si eleva su case, negozi, scuole come captata da un drone in volo: vediamo domestici, macellai, insegnanti madrelingua, ristoratori, la moltitudine dei nuovi salentini “di mezzo”. Il loro contributo è evidente, anche se spesso è proprio questa la categoria meno rappresentata, perché si tende a privilegiare ciò che “fa notizia”, il vip straniero di turno o i drammi più cupi».
Al di là del Salento del sole, del mare, del turismo e delle masserie, ci sono maree di lavoratori invisibili: cosa si può fare per accendere un faro sulle loro condizioni di vita?
«Ci sono diversi livelli di discorso. Uno è politico: da cittadini, pretendere leggi e pratiche che tutelino i lavoratori più vulnerabili, tenendo anche a mente che il misconoscimento dei diritti di ogni minoranza significa, alla lunga, un arretramento dei diritti di tutti. Con le misure per l’emersione dal lavoro nero e la regolarizzazione dei migranti contenute nel decreto Rilancio io trovo che non si sia fatto un grande passo avanti nei confronti dei lavoratori. È stata prorogata la scadenza del permesso di soggiorno di sei mesi: il tempo necessario per la raccolta. Sì certo è qualcosa, è decisamente meglio di niente, ma non credo affatto sia abbastanza. Più che la loro dignità, mi sembra che l’oggetto sia la nostra convenienza. Oltre alla politica, c’è poi una dimensione fondamentale che non dovremmo dimenticare, e lo dico senza retorica: è quella informale, delle relazioni umane, delle relazioni “di vicinato”. È successo con gli albanesi negli anni Novanta: quando abbiamo avuto voglia di chiedere a chi veniva dal mare il suo nome e cognome, di raccontarci la sua storia, si sono strette solide amicizie e rapporti virtuosi di crescita umana, sociale, anche economica».
Com’è stato conoscere il popolo di lavoratori notturni che anima la vita del Salento? E che cosa, invece, ti ha colpito di più in questo lavoro di conoscenza di un aspetto del tessuto sociale di questo territorio?
«I lavoratori della notte sono le “Giovanna D’Arco” del sistema. Pensiamo ai market notturni, pensiamo alle assistenti agli anziani, soprattutto donne, madri che hanno lasciato le proprie famiglie in patria, e che spesso dopo anni di lavoro sfiancante sviluppano la tipica forma di depressione chiamata appunto “sindrome Italia” o “sindrome della badante”. Una delle mie interlocutrici mi ha raccontato la sua vita quotidiana alle prese con questi nonnini salentini che i figli vedevano solo per le feste, e dei suoi due figli diventati adulti da soli. Alla fine della nostra intervista mi ha detto “spero tanto che da vecchia i miei ragazzi si prenderanno cura di me”, e il suo volto era carico di domande, di conti aperti con la vita. Parlando della notte, a volte si cade nell’errore di richiamare il degrado, la prostituzione in schiavitù, lo spaccio come prime e uniche immagini. Ma questi drammi sono del tutto parziali rispetto all’interezza del tessuto sociale e produttivo a cui ci riferiamo. I lavoratori della notte con cui sono entrata a contatto io sono persone comuni, spesso mamme e papà di famiglia, che lavorano sodo, e che io davvero ammiro molto. Un piccolo universo fatto anche di storie ed esperienze divertenti, di ballerini professionisti che illuminano le discoteche con i loro passi provenienti dal mondo, di gestori di chioschi che con i clienti scherzano in un dialetto filologicamente ineccepibile».
Trovi ci siano differenze nel livello di entusiasmo e appagamento dei “nuovi “ salentini più giovani rispetto ai “nuovi” che vengono qui in età avanzata? E in generale quale credi che sia, se c’è, un punto da mettere in risalto, se non è quello dell’età?
«In realtà, l’età anagrafica è quasi sempre collegata al luogo di provenienza, e questo a sua volta alle motivazioni del viaggio. I “nuovi” che arrivano qui in età matura di solito sono partiti dai Paesi del Nord Europa o del Nord America, sono artisti, designer, stilisti, imprenditori che possono permettersi di scegliere il proprio luogo di lavoro, e il Salento è per loro un’oasi di ispirazione. Oppure sono pensionati che qui trovano il loro “buen retiro”: facoltosi, benestanti, ma anche comuni ex professionisti che nelle loro metropoli sarebbero strozzati dagli affitti e qui godono di un costo della vita molto più basso. È questa la grande differenza con i giovani, che arrivano in cerca di lavoro e provengono molto spesso da Paesi economicamente più svantaggiati – a parte alcune categorie di professionisti, come gli esperti linguistici. Chiaramente, per gli “anziani” il Salento è un paradiso esotico, anche se non mancano intellettuali e attivisti che ne sottolineano le criticità, ne difendono il paesaggio con lo spirito partecipe dei “cittadini adottivi”. Per i giovani il quadro è più variegato ed è difficile sintetizzarne il punto di vista, che andrebbe rintracciato piuttosto nelle singole esperienze».
Che idea ti sei fatta dei fedeli musulmani presenti sul territorio? Credi ci siano punti di dialogo e cooperazione per migliorare la convivenza sociale?
«In questo momento nel Salento abbiamo la fortuna – tutti, musulmani e non – di avere come imam della comunità islamica di Lecce Saifeddine Maaroufi, medico, mediatore interculturale, un uomo colto e illuminato che ha dato un grande impulso al dialogo e alla convivenza pacifica tra le persone. È sua, ad esempio, l’idea della prima Giornata del dialogo interreligioso, a cui hanno aderito anche i rappresentanti delle altre religioni. Ma quest’opera di integrazione è rivolta anche agli stessi fedeli dell’Islam. Nella Moschea di via Tempesta, per fare un esempio, la funzione del venerdì è sempre condotta in italiano – a parte la recitazione dei passi sacri – la “lingua franca” dei fedeli che arrivano dal Senegal così come dal Pakistan, dal Nord Africa o dai Balcani. Una lingua “trasparente” per tutti, italiani compresi. Io stessa, nel condurre le mie ricerche per questo libro, non ho mai trovato una porta chiusa, e quando sono entrata nella Moschea sono stata accolta con garbo dalle signore che pregavano nella saletta riservata alle donne. Vedendomi un po’ impacciata mi hanno anche suggerito, affettuosamente, i gesti da compiere durante la funzione. Tuttavia credo che un clima di serenità, anche religiosa, non dipenda solo da ciò che accade in una moschea, quanto dal grado di benessere diffuso in una comunità, e dalla percezione di avere una possibilità. Ecco, penso che in generale nel Salento questo clima ci sia, vuoi perché i numeri di chi si stabilisce qui non sono quelli difficili di Roma o Milano, vuoi perché i salentini sono persone accoglienti e calde e non sono mai state ottusamente chiuse agli altri».
Un’intervista esclusiva a Zumretay Arkin, Program & Advocacy manager del World Uyghur Congress, sulle condizioni di vita degli uiguri sotto la pandemia di Covid-19 in Cina.
È possibile descrivere la vita degli uiguri in esilio? Com’è la vita da espatriati? Di cosa hanno bisogno e desiderio?
Anche gli uiguri della diaspora devono affrontare delle sfide. Dai campi di internamento nel 2017, gli uiguri della diaspora hanno perso i contatti con i loro parenti nel Turkistan orientale, e molti di loro hanno persino perso i parenti nei campi di internamento. Ciò ha portato ad un aumento dell’attivismo nella diaspora, per cercare di liberare i loro parenti dai campi. Ma la risposta cinese è stata più dura, e tutti gli uiguri della diaspora che si battono per i diritti umani degli Uyghur devono affrontare rappresaglie dalla Cina nei rispettivi paesi. Molti importanti attivisti uiguri sono stati molestati dalle autorità cinesi, all’interno delle Nazioni Unite, o di altre istituzioni internazionali, impedendo loro di partecipare a riunioni internazionali, o conferenze per sollevare la questione uigura.
Da tutte le rappresaglie e l’incapacità di contattare i parenti a casa, tutti soffrono di ansia e vivono nella paura o lo stress.
Gli uiguri della diaspora vogliono la libertà, il rispetto dei loro diritti umani, la dignità, e il diritto di tornare e ricongiungersi con la famiglia e la loro patria.
Vogliono anche protezione dai loro governi locali quando si tratta di rappresaglie, e il lungo braccio della Cina.
Com’è la vita degli uiguri sotto la pandemia di Covid-19 in Cina?
Questo mese la WUC ha ricevuto notizie credibili dal Turkistan orientale secondo cui molte famiglie soffrono la fame a causa della carenza di cibo. Gli uiguri sono costretti a rimanere al chiuso a causa del tentativo delle autorità cinesi di impedire la diffusione di Covid-19, ma non hanno ricevuto cibo o altre forniture necessarie. Non è chiaro se le misure di quarantena nella regione siano state allentate e, in caso affermativo, in quale misura. Queste politiche discriminatorie rendono la vita difficile alle famiglie uigure che sono ora presenti in quasi ogni aspetto della loro vita. Ci sono stati numerosi casi di uiguri che sono morti per negligenza medica o in altre circostanze sospette nei campi o poco dopo essere stati rilasciati, sollevando gravi preoccupazioni circa l’accesso all’assistenza sanitaria per gli uiguri.
La Cina considera tutte le informazioni relative all’epidemia di Covid-19 nel Turkistan orientale come un segreto di Stato, il che rende molto difficile avere accesso a qualsiasi informazione credibile. Da testimonianze di ex detenuti e documenti ufficiali trapelati, sappiamo che i detenuti sono detenuti in stanze molto povere e sovraffollate, dove sono sottoposti a torture fisiche e psicologiche. Nei campi i detenuti non hanno accesso a cure mediche adeguate. Pertanto, i circa 1-3 milioni di uiguri ancora detenuti nei campi di internamento dal governo cinese sono particolarmente a rischio se il virus non è contenuto. Nel Turkistan orientale il numero totale di casi infetti è rimasto incertamente costante a 76 casi, 3 morti e 73 recuperi, per più di un mese. Data la rapida diffusione del virus e l’insufficienza delle forniture mediche in questa regione, è probabile che queste cifre non siano vere. Siamo molto preoccupati che il numero di casi infetti sia molto più elevato e che il virus si sia già diffuso nei campi.
Ci sono state anche numerose e credibili segnalazioni di carenze alimentari nella regione, a causa delle misure di quarantena del governo cinese. I rapporti indicano che gli uiguri non sono stati informati in anticipo delle misure di quarantena e non sono stati autorizzati a lasciare le loro case. Inoltre, le autorità cinesi non hanno fornito loro cibo, causando una diffusa carenza di cibo. Non è chiaro se ciò sia stato migliorato dopo l’apparente allentamento delle misure di quarantena.
Secondo Radio Free Asia, gli operatori sanitari uiguri del Turkestan orientale sono costretti a vivere in alberghi nella città di Ghulja istituiti come centri di quarantena per trattare pazienti infetti da COVID-19. Solo gli uiguri etnici sono stati mandati a lavorare in questi centri e non sono stati autorizzati a tornare a casa. Questo mette in dubbio le affermazioni delle autorità cinesi che hanno affermato che non ci sono nuovi casi COVID-19 nel Turkistan orientale. Le autorità cinesi hanno trattato il numero di pazienti in quarantena in questi alberghi e quanti operatori sanitari erano sul posto come segreto di Stato.
Il 1º marzo, l’Australian Strategic Policy Institute, ASPI, ha pubblicato il suo rapporto sul lavoro forzato e le pratiche abusive di trasferimento dei detenuti nei campi nelle principali fabbriche in tutta la Cina. Questo rapporto stima che più di 80.000 uiguri sono stati trasferiti in fabbriche al di fuori del Turkistan orientale tra il 2017 e il 2019 attraverso programmi di trasferimento del lavoro secondo una politica governativa nota come «’Xinjiang Aid’. Rapporti credibili hanno indicato che molti uiguri sono stati inviati in strutture di lavoro forzato nella provincia di Hubei, l’epicentro del virus, per lavorare nelle fabbriche come il resto della provincia è stato costretto a serrata. L’uso del lavoro forzato uiguro e il trasferimento di massa dei detenuti uiguri dai campi di internamento durante questa pandemia ha messo a rischio migliaia di vite innocenti.
Il governo cinese fornisce alle persone uigure lo stesso sostegno, gli stessi diritti, gli stessi trattamenti degli altri cittadini?
No. Gli uiguri hanno sofferto per decenni di discriminazioni sponsorizzate dallo Stato in termini di restrizioni alla libertà religiosa, diritti linguistici, diritti culturali e libertà di movimento. Abbiamo assistito all’introduzione e all’attuazione di leggi draconiane che colpiscono direttamente gli uiguri e il loro stile di vita, apparentemente in nome della sicurezza e della protezione contro le minacce terroristiche. La legge antiterrorismo cinese è entrata in vigore il 1º gennaio 2016 e ha già portato a abusi senza precedenti. La sua redazione è stata ampiamente condannata dalla comunità internazionale per il suo linguaggio eccessivamente ampio e vago.
Piuttosto che esaminare le radici del risentimento tra i gruppi etnici, il governo ha in gran parte scelto di dare la colpa all’Islam per la violenza commessa da una piccola frazione della popolazione. La punizione collettiva è il risultato netto, in quanto il governo ha continuato a spingere l’idea che l’espressione culturale uigura e la pratica religiosa portano naturalmente all’instabilità, senza riconoscere che la tolleranza e l’autentica autonomia agiranno invece come forza correttiva.
È cambiato qualcosa dopo la fuga di notizie dalla lista Karakax?
Nulla è cambiato nella situazione nel Turkistan orientale o nella dura realtà degli uiguri nella regione. Questa pandemia ha reso ancora più difficile l’accesso alle informazioni su quanto sta accadendo attualmente. Ciò che la Lista Karakax ha portato è chiarezza alla comunità internazionale sulle motivazioni del PCC di sopprimere un intero gruppo etnico. La Karakax List arriva dopo altre due importanti fughe di notizie: Xinjiang Papers (New York Times) e China Cables (International Consortium of Investigative Journalists). Tutte queste fughe di notizie hanno confermato la gravità della situazione. Questo fornisce ora una base solida e credibile per la nostra difesa, dal momento che non c’è più negabilità a sinistra.
Che tipo di richieste riceve il Congresso dal suo popolo di espatriati? E che tipo di aiuto è possibile fare o inviare per gli uiguri in Cina?
WUC sostiene gli uiguri nella diaspora in modi diversi, organizzando eventi comunitari, raccogliendo fondi per i rifugiati uiguri, aiutando i rifugiati uiguri e i richiedenti asilo sull’orlo della deportazione; ma soprattutto portare avanti questo lavoro di difesa in loro nome e rappresentare loro e gli uiguri nel Turkestan orientale nei consessi internazionali.
Purtroppo, data la situazione e l’impossibilità di accedere alla regione, non c’è nulla a breve termine che si possa fare per gli uiguri, a parte i nostri continui sforzi per sostenere il rispetto del loro diritto fondamentale. Rimanere informati sulla situazione, diffondere la consapevolezza, sostenerli nei nostri rispettivi governi, nelle istituzioni internazionali, ritenendo la Cina responsabile per i suoi crimini, scrivendo a compagnie straniere e chiamandoli a smettere di usare e trarre profitto dal lavoro forzato degli uiguri, donare a varie organizzazioni americane per la loro difesa o ricerca volontariato per loro, aiutare i rifugiati uiguri. Questi sono tutti modi per contribuire alla causa uigura.
Gli uiguri ricevono attenzione dagli altri musulmani di tutto il mondo? Cosa possono fare la diplomazia e i decisori per aiutare gli uiguri?
Anche se gli uiguri hanno ricevuto un po’ di attenzione dalla comunità musulmana, non è stato sufficiente, soprattutto dai paesi a maggioranza Musilm. I membri dell’OCI sono stati silenziosi su questa crisi. Nel frattempo, stanno sostenendo per tutti gli altri gruppi musulmani di fronte all’oppressione in tutto il mondo. Questo indica chiaramente il debole potere della Cina su queste istituzioni. Il mondo musulmano deve fare meglio, e unirsi ai paesi occidentali per ritenere la Cina responsabile . Anche gli uiguri hanno bisogno di solidarietà.
*Articolo pubblicato su Daily Muslim. Leggi la versione in inglese sul mio Medium.
L’emergenza sanitaria e la cessazione prolungata delle attività economiche in Italia hanno fatto emergere alcune grandi criticità nazionali e la loro imperfetta gestione, tra etichette e pregiudizi, sotto molti aspetti: quello politico prima di tutto, quello sociale in secondo luogo e infine quello economico. Come dobbiamo trattare da subito i temi della povertà, degli ultimi, del crimine organizzato perché questa esperienza cambi davvero in meglio la società e la politica italiane?
Abbiamo affrontato molti di questi aspetti con Leonardo Palmisano, sociologo, scrittore di fiction e autore di numerosi articoli e saggi sul caporalato e le mafie, in particolare quella nigeriana, a cui è dedicato il suo “Ascia Nera”; presidente di Radici Future; attivista e candidato alle ultime primarie per il centrosinistra in Puglia.
Professori che si rivolgono alle mafie perché mettano in quarantena i loro affiliati sui territori; la ‘ndrangheta che abbasserebbe o annullerebbe i tassi di usura per avere un riconoscimento sociale; le infiltrazioni nelle politiche sanitarie e negli appalti del Nord. In tempi di crisi sanitaria le mafie sembrano passarsela piuttosto bene sotto i profili dell’espansione economica, del potere, del riconoscimento e del consenso. Sembra che la loro capillarità nei territori e le loro strutture siano perfette in tempi di emergenza. Possiamo provare sinteticamente a descriverne le dinamiche per fare emergere i tratti principali della loro azione, come fosse una foto d’insieme?
Difficile dire come si collocheranno le mafie, dipenderà molto da come ogni territorio deciderà di sottoporsi al loro potere. Una cosa è certa, esse assumeranno ancora di più i caratteri di una società, di un qualcosa che partorisce istituzioni, regole, economie. In questa società comanderanno i più potenti, non i più ricchi, perché le mafie ormai sono lignaggi, cognomi, blasoni. Saranno questi lignaggi a governare i processi di costruzione mafiosa della società.
Il procuratore antimafia Cafiero De Raho ha sottolineato la pervasività della camorra nei settori trainanti dell’economia e i suoi rapporti con i narcos. Perché l’emergenza la favorirà?
Saranno favorite quelle parti di sistemi mafiosi già presenti nel mondo dell’impresa. Cafiero De Raho anche per Foggia ha parlato di borghesia mafiosa, di strati di società legale interni alla mafia e viceversa. Siamo a questo: se diamo ancora credibilità ai sistemi produttivi nei quali ci sono le mafie, diamo una mano alle mafie.
Mercato nero delle bombole d’ossigeno; furti di dispositivi di protezione sanitaria (mascherine, tute, occhiali, guanti) fino alle penetrazioni negli appalti per la sanità d’emergenza. Cosa succede nelle maglie dell’economia emergenziale perché il crimine organizzato ne possa approfittare in questo modo?
Succede che il crimine trova spazio dove lo Stato è in emergenza e dove il privato legale non è in condizione di arrivare perché troppo stressato dalla burocrazia. La burocrazia, non le regole, ma la burocrazia favorisce le mafie, perché si alimenta di mazzette, prebende, regali… Corruzione.
Ci ha già guadagnato con un piccolo e inutile decreto svuotacarceri. Ci guadagna quando le rivolte indeboliscono il peso del controllo dello Stato nei territori dove loro sono egemoni.
Il magistrato Giuseppe Pignatone ha posto l’accento su come l’uscita dall’emergenza potrà ancora una volta favorire l’espansione della mafia nelle “smagliature” delle regole: qual è il rischio più grande e come lo si previene?
Non bisogna cancellare regole e controlli, ma sottrarre le decisioni dagli apparati amministrativi. Le scelte si costruiscono con indirizzi politici precisi. Non possono più essere i dirigenti a fare politica pubblica in questo Paese. Sono loro la parte meno sana dell’apparato pubblico. Lì si annida la corruzione. Le regole servono anche per liberare il mercato dalla retorica dell’emergenza. Regole certe, salde, ragionevoli e ridimensionamento dell’arbitrio dei dirigenti pubblici.
I migranti, destinatari di etichette come “invasori” e di leggi “di emergenza” da quarant’anni (alla faccia dell’emergenza) come sono trattati in questa vera emergenza, quale attenzione si dovrebbe porre nei loro confronti e quale sarebbe anche il valore simbolico e sociale di una misura nei loro confronti?
In Italia i migranti sono trattati male, perché c’è una legge dannosa e razzista, la Bossi-Fini che non tutela il diritto, ma è fortemente discriminatoria. Adesso è il momento di abrogare quella legge e di integrare il numero più alto possibile di stranieri, perché per superare la crisi avremo bisogno di persone fresche e ambiziose. I migranti sono prevalentemente giovani e desiderosi di vivere.
E come sarebbe opportuno relazionarsi con i senzatetto e, più in generale, come trattare i poveri e gli ultimi di questo tremendo sistema sociale?
La povertà sarà il tema di questo secolo. Va raccontato il portato liberatorio di questa fase, che ci farà uscire dall’accecamento della ricchezza consumistica e ci porterà a dare dignità e libertà alla povertà. Tutti più poveri significa anche tutti più uguali, tutti più solidali, tutti meno cattivi. E meno vincolati all’arricchimento altrui.
Il ministro per il Sud e la Coesione territoriale, Giuseppe Provenzano, ha ipotizzato l’estensione di un sussidio ai lavoratori in nero. Al di là di uno stigma morale, con quale metro di giudizio è possibile accogliere questa proposta?
Non condivido per niente. Il lavoro in nero non è lavoro, è sfruttamento. Lo sfruttamento va represso, non giustificato.
Volendo dare uno sguardo in generale a tutte le questioni che abbiamo trattato, non è sfuggito che sulla stampa si è letto molto come se queste fossero il solito problema che riguarda solo il Sud. È davvero così che vanno liquidate? Non potrebbero essere lette, invece, come nodali questioni sulla redistribuzione della ricchezza? Che cosa occorrerebbe fare nei territori e a livello centrale?
Secondo me il decentramento sanitario si è rivelato un fallimento. Lo Stato deve riportare a sé la regia della Sanità pubblica e di quella privata, in un’ottica di riequilibrio tra territori e di sanità di prossimità. Il sistema settentrionale è fallito, come è fallita qualunque idea di decentramento o di autonomia. Si torni a dare potere, anche mettendo in discussione il ruolo delle Regioni.
Cambierà davvero qualcosa in meglio, dopo tutto questo? Cosa e come andrà preparato?
Sta già cambiando. Il peggio è il disegno sovranista, alla Orban, alla Salvini, alla Le Pen. Il meglio sta nelle parole di papa Francesco: persone, lavoro, uguaglianza sociale. Serve un intervento sulle comunità, non sulle istituzioni. Le comunità saranno il centro del futuro della democrazia. Non servono istituzioni comunitarie, ma comunità che ragionano come fossero istituzioni.
Amnesty International segue da vicino la vicenda di Patrick George Zaki, arrestato venerdì 7 febbraio all’aeroporto del Cairo, appena sbarcato da Bologna, dove frequenta come ricercatore i Master GEMMA sui diritti delle donne e sulle questioni di genere, per far visita ai genitori. Sparito per oltre 30 ore, Zaki è stato condotto nella procura della sua città natale, Mansoura, dove si trova in stato di detenzione preventiva con l’accusa di aver cospirato contro il regime di Abdel Fattah al-Sisi. Il ventisettenne deve restare in carcere almeno fino al 22 febbraio, quando ci sarà l’udienza in seguito alla quale si apriranno tre scenari: il rinnovo della detenzione per altri quindici giorni (più volte rinnovabili) in attesa di prove ulteriori – che è la prassi più consolidata -, l’improbabile rilascio, e l’ipotesi peggiore, quella di un rinvio a giudizio diretto che in caso di condanna potrebbe portare all’ergastolo, pena che in Egitto è commutata automaticamente a 25 anni. Le notizie che giungono dagli avvocati della Ong di cui Zaki fa parte, Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr), danno per certo che il giovane sia stato torturato nelle 30 ore in cui si è persa traccia di lui. Alcuni giornali italiani riportano inoltre la notizia che gli siano state fatte domande circa i suoi rapporti con Giulio Regeni e i genitori del ricercatore friulano, ucciso proprio quattro anni fa dopo una prolungata sofferenza e numerose torture e senza ancora una spiegazione ufficiale. Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty, ha rilasciato un’intervista a Daily Muslim per provare a chiarire alcuni aspetti della vicenda. «Conosco Zaki indirettamente per la sua attività, ma non di persona. Non darei troppo peso alle dichiarazioni che collegano il suo attivismo a quello di Regeni, perché un conto è qualcosa che ti viene chiesto in un regolare interrogatorio e altro è ciò che ti viene urlato in faccia per spaventarti in modalità non convenzionali. Quello che è certo è che Patrick è stato ritenuto colpevole di cospirare contro il regime per aver dato sostegno alla manifestazione in piazza voluta dal costruttore Alì, in esilio in Spagna». Mohamed Alì, imprenditore edile, si è opposto al regime di al-Sisi ed è dovuto scappare a Barcellona, aprendo l’account su Twitter @MohamedSecrets, dal quale ha raccontato molti segreti imbarazzanti del regime e chiedendo via internet ai suoi connazionali di manifestare in piazza il proprio dissenso. Così facendo ha ottenuto una risposta tale da far vacillare il governo, il 20 settembre 2019. Ne sono seguite dure reprimende, con almeno 150 arresti nell’immediato e un’attività di spionaggio per chi ha fomentato le proteste fuori dall’Egitto. Non è un caso se il mandato di arresto contro Zaki risale proprio allo scorso settembre, intorno al 24. E qui troviamo uno dei punti più oscuri della vicenda, come nota Noury: «Fonti istituzionali italiane mi hanno detto in maniera informale che l’Italia non ha voce in capitolo. D’altronde l’appello di Amnesty, accompagnato dall’hashtag #freepatrick qui non ha avuto alcuna risposta, e nemmeno dall’ambasciata». Il ragazzo, però, si trovava in Italia già da fine agosto per seguire il master a Bologna. Com’è possibile che le istituzioni si giudichino fuori da questa storia? «Anzitutto non siamo nell’Ottocento, per cui disinteressarsi ai diritti umani che non sono rispettati in Egitto come in Turchia, Brasile o Venezuela per motivi diplomatici non può più essere considerata una scusa. Nello specifico, uno studente che vive in Italia, tra l’altro con un regolare visto di studio per il suo ruolo di ricercatore, dovrebbe essere tutelato dal dispositivo che gli inglesi definiscono ‘duty of care’, letteralmente un dovere di protezione». Ma se il mandato di arresto è stato spiccato a settembre inoltrato, a insaputa del ragazzo e della sua famiglia, com’è stata monitorata la sua presunta attività sovversiva, sia online che offline? «Non ho prove, ma preoccupazioni sulle analogie con il comportamento del Cairo in altre vicende che coinvolgono egiziani della diaspora e lo stesso Ali, come documentato negli ultimi anni anche da giornali italiani».
Ci fosse l’interesse della politica nostrana a tutelare questa situazione sarebbe necessario fare luce su queste modalità, ma l’ottimismo sembra essere smorzato anche da quanto hanno dichiarato i genitori di Giulio Regeni circa gli affari che il governo italiano sta conducendo con gli egiziani. Nello specifico si parla di affari complessivi intorno ai nove miliardi per fornire mezzi militari a un paese che appoggia il generale Haftar in Libia, cioè colui che si oppone al governo di Sarraji, ufficialmente sostenuto dall’Ue, Italia compresa. «Al di là della specifica situazione, è innegabile che Italia ed Egitto intrattengano da sempre ottimi rapporti bilaterali, per cui quando mi sento dire che è un momento poco opportuno per mettersi di punta, posso obiettare che c’è sempre qualche legittimo affare in ballo, ma questo non può mettere in secondo piano il rispetto dei diritti umani». Intanto sul caso si sono accesi anche i riflettori del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), l’organismo che gestisce le relazioni diplomatiche dell’Ue con altri Paesi al di fuori dell’Unione: «Le dichiarazioni di attenzione sono ben accette – commenta Noury -, ma sia dall’Italia che dall’Unione Europea mi aspetto una presenza fisica quantomeno all’udienza del 22 febbraio, affinché si tutelino le garanzie procedurali per il ragazzo». Noury rimarca, inoltre, un giudizio complessivo sulla fase politica attraversata dal Delta del Nilo: «Zaki fa parte della generazione di ricercatori, pensatori, imprenditori e poi anche attivisti che cercano di aprire un dibattito sulla società e la politica egiziana e il loro Paese non si apre al pluralismo, sacrificando quelle che sono le personalità migliori e pregiudicando di conseguenza il suo futuro».
Le caratteristiche del Castello di Carlo V di Lecce come non si sono mai sentite. Le ampie scalinate, i corridoi con le volte a botte, le sale interne che sorprendono per la capacità di attrarre l’illuminazione naturale. Dal 14 agosto 2019 è possibile vivere un’esperienza virtuale immersiva tutta nuova negli ambienti della fortezza, sonorizzati con i beat e i frame della musica elettronica per il webdoc Music Platform. Sempre disponibile sull’omonimo canale YouTube, un’ora per lasciarsi trasportare dall’immutata bellezza che attraversa i secoli in un insolito e riuscito connubio con un ritmo spesso associato alle suggestioni degli scenari metropolitani. Proprio in questo dettaglio risiede la bravura degli autori del progetto, giunti con il capoluogo salentino alla diciassettesima puntata del loro indovinato format.
Music Platform è un progetto attivo in Puglia dal 2016. Narrazione territoriale, musica elettronica, live performance e paesaggio culturale rappresentano le anime di un percorso specializzato nella produzione di documentari. Music Platform invita artisti della scena nazionale e internazionale a interagire con paesaggi naturali e luoghi spesso inaccessibili al pubblico per creare nuove narrazioni, fruibili attraverso la rete. La sua comunità è soprattutto virtuale: corre sui social e sulle piattaforme digitali che accolgono l’archivio delle sue produzioni culturali. Oltre ai live set, ai corti e lungometraggi, Music Platform si esprime attraverso la fotografia e la comunicazione innovativa dei saperi storici. Il collettivo omonimo che ha ideato il progetto è composto da una decina di giovani professionisti provenienti dal mondo della musica e del club culture.
Daniele Marzano, presidente del collettivo che dà il nome al progetto, ne racconta la genesi: «Siamo un gruppo di amici accomunati dalla passione per la musica elettronica. Abbiamo avuto le idee chiare fin da subito. Intendevamo creare un format che potesse essere uno strumento di scoperta e valorizzazione del paesaggio della Puglia in maniera innovativa, fuori dai luoghi comuni. Volevamo coinvolgere soprattutto un pubblico nuovo, mosso dalla passione per la musica elettronica, un target ben specifico che si avvicina alle nostre stesse esigenze. L’idea si è concretizzata nella realizzazione di video documentari a puntate sul web, in cui la musica elettronica potesse fare da padrona. Di volta in volta invitiamo artisti nazionali e internazionali a sonorizzare luoghi storici con l’obiettivo di creare la colonna sonora che accompagna una visione inedita del patrimonio storico e artistico. Una vera e propria connessione tra contemporaneità̀ e passato».
Il docufilm propone un’inedita visione del castello grazie al lavoro site specific firmato da Fragment Dimension, trio pugliese composto da Drafted, Kaelan e Unthone. La puntata è incentrata sui sotterranei, che hanno ospitato il set per la sonorizzazione, ma regalano momenti di grande emozione sorvolando i fossati, le gallerie, le due torri senza dimenticare il Museo della Cartapesta e la piazza d’armi. L’indagine visiva del docufilm si sofferma sui dettagli della struttura architettonica restituendo al fruitore un’esperienza diversa dello spazio. I Fragment Dimension approntano tre diversi approcci in un live set onirico: suoni ambientali e naturali sono filtrati da sintetizzatori e strumenti dell’avanguardia techno per costruire sonorità ancestrali fortemente connesse con l’inconscio. Un lavoro personalizzato e unico, strutturato su sonorità ambient, che richiamano aspetti morfologici e architettonici dello spazio: in questo modo lo spettatore è spinto con la psiche in una dimensione onirica e può assistere online a un cortocircuito tra l’asetticità delle componenti hardware e l’emozionalità che è in grado di trasmettere la storia del luogo.
Il risultato, disponibile su YouTube, è frutto di un lavoro professionale e accorto, come racconta Marzano: «Abbiamo studiato il Castello attraverso un tour diretto, analizzando personalmente la struttura con l’aiuto del personale molto preparato dell’infopoint gestito dalla cooperativa Theutra. Le attività che precedono la realizzazione della puntata forse sono le più difficili e complesse, ma fin da subito siamo rimasti colpiti dall’imponenza della fortificazione e dalla storia che ancora oggi si respira nelle sue stanze. Abbiamo subito creato un rapporto di collaborazione con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Provincie di Lecce, Brindisi e Taranto, che si è dimostrata disponibilissima e di estremo supporto alla nostra iniziativa».
Un entusiasmo condiviso anche dalla soprintendente Maria Piccarreta: «Ancora una volta la Soprintendenza si fa promotrice di iniziative che dinamizzano il patrimonio culturale, collaborando con realtà indipendenti e declinando linguaggi e forme comunicative. Questa puntata propone un lavoro che coniuga perfettamente i linguaggi della musica elettronica e la fruizione tradizionale dei beni culturali. Immagini e sperimentazione musicale danno vita a un’inedita quanto efficace e intrigante narrazione del Castello Carlo V».
Il risultato? Daniele Marzano: «Abbiamo fluttuato senza nessun attrito nello spazio profondo della struttura insieme a centomila utenti raggiunti, creando un’esperienza digitale d’impatto per una vastissima comunità web, se consideriamo che degli utenti raggiunti circa quarantamila sono rimasti con noi per tutta la diretta su Facebook».
Un modo di vivere i luoghi storici delle città attraverso linguaggi che possano attrarre un pubblico giovane e uscire fuori dal luogo comune del museo impolverato e di una storia trita e ritrita. Dopo aver toccato alcuni dei punti più suggestivi e scolpiti nell’immaginario collettivo del Salento, come Porto Selvaggio, il faro di Punta Palascìa e il Castello Aragonese di Otranto, i faraglioni di Castro e la Grotta sulfurea di Santa Cesarea Terme solo per dirne alcuni, Music Platform si prepara a uscire dai confini del territorio in cui ha mosso i suoi primi passi, come spiega Marzano: «Il 2020 sarà un anno pieno di novità perché non vogliamo relegarci in un confine. Fino ad ora abbiamo realizzato le nostre puntate in Puglia per diverse ragioni, quali la celerità nei processi burocratici e la semplicità negli spostamenti, ma per la prossima stagione abbiamo in serbo nuove avventure che naturalmente non possiamo ancora svelare. Sarebbe entusiasmante valorizzare e scoprire luoghi e beni culturali in giro per il mondo lavorando con artisti del panorama nazionale ed internazionale. Inoltre, chiunque volesse collaborare con noi in qualità di artista o proporre luoghi per le nostre performance può contattarci tramite i nostri profili social: siamo alla continua ricerca di artisti, realtà musicali e paesaggi mozzafiato».
«Sono contento di tornare qui perché ho trovato grande ospitalità e mi sono trovato bene. Non so se una mia prossima storia parlerà della Puglia, ma di sicuro mi piacerà tornarci». Alessio Spataro abbraccia così i suoi stimatori pugliesi, apprestandosi a fare il tour di presentazione del suo Biliardino. Sarà a Taranto il 6 novembre, il 7 a Bari, l’8 a Lecce e il 9 a Foggia.
Biliardino (BAO Publishing) è il primo libro a fumetti che Alessio Spataro ha realizzato da solo. È un libro importante, che segna una svolta nel lavoro dell’autore classe 1977, catanese emigrato a Roma. Prima ci sono stati sette libri satirici e alcuni albi a fumetti. Alcuni titoli: Zona del silenzio. Una storia di ordinaria violenza italiana(Minimum fax, 2009) sulla morte di Federico Aldrovandi, scritto a quattro mani con Checchino Antonini; Heil Beppe!1! (Altrinformazione, 2014) con Carlo Gubitosa e la trilogia La Ministronza (i primi due albi pubblicati nel 2009 e nel 2011 da Grrrzetic e il terzo nel 2012 da Pick a Book). Alessio ha collaborato dal 1999 con riviste satiriche e altre testate giornalistiche, come Cuore, Left, e Frigidaire, poi Bile, Mamma! e il Male di Vauro e Vincino.
Il libro è l’epopea di Alexandre Campos Ramírez (1919 – 2007), originario di Fisterra, in Galizia. Poeta, scrittore e (non) inventore del popolare gioco di calcio da tavolo, il biliardino. Ramírez ha avuto una storia rocambolesca e oscura, intessuta di persecuzioni sotto il regime franchista e di amicizie importanti come quella con Pablo Neruda e Albert Camus. Ha cambiato molti nomi: per i nemici era Alejàndro Finisterre. Nel 1936 è ferito alla gamba durante il bombardamento di Madrid. Trasferito a Montserrat, in Catalogna, prende spunto dal tennis da tavolo per realizzare un gioco che permetta ai bambini storpi e mutilati dalla guerra di emozionarsi ancora al gioco del calcio.
Alessio Spataro
La vera nascita del biliardino e delle sue innumerevoli varianti è incerta e contesa almeno da quattro nazioni europee: Inghilterra, Francia, Germania e Spagna. Spataro sceglie quest’ultima perché è il luogo «più distante da facili tifoserie nazionaliste». Il libro è avvincente, domina il grottesco, è colorato in rosso e in blu come le divise dei giocatori di legno; i capitoli riprendono diverse situazioni tipiche del gioco; la trama è lineare fino a un certo punto, poi diviene cubista e astratta, lasciando aperto il finale.
Alessio Spataro prova a guidarci nel suo capolavoro:
«Quando è morto de Fisterra (un altro dei nomi con i quali era conosciuto Ramírez – ndr), sono stato attratto dalla sua vita. Che però è piena di lacune e di zone d’ombra. Esiste anche una biografia che non ha mai visto la luce. Sullo sfondo, molti e lunghi esili che fanno della vita del personaggio uno dei tre protagonisti del libro, oltre alla storia del gioco e a quella del Novecento. Il finale, dunque è interpretabile e aperto perché i tre protagonisti non sono esauriti, non finiscono davvero. Abbiamo detto della biografia del personaggio, possiamo dire lo stesso del gioco e di tutte le dinamiche messe in moto dagli eventi del secolo scorso».
La prospettiva storica è alla base della scelta narrativa di Spataro, che solo in apparenza ha abbandonato l’impegno civile assunto con i suoi lavori di satira: «Nel Novecento si sono messe in moto molte cose belle, ma anche e, per me, soprattutto quello che odio e che mi fanno paura. E che oggi vedo ritornare a proporsi: l’impunità ai fascisti e l’indifferenza nei confronti delle stragi politiche, per esempio».
La cattiveria sottile di alcuni ritratti, e in fondo una ricerca del sorriso beffardo con lo stile grottesco sono evidenti nel libro come lo erano in molti lavori precedenti. Ci sono una rabbia minore o modulata e una maggiore volontà di racconto: «Meno rabbia, per forza, perché guerre e persecuzioni non le ho vissute da contemporaneo e le ho dovute rendere con uno studio e una documentazione approfondite. Provengo da una grossa produzione satirica e il tratto cattivo e il cinismo si ritrovano nelle fattezze esteriori che ho voluto rappresentare. Non ho disegnato, però, curandomi troppo delle esigenze del lettore, ma cercando di esprimere ciò che ho dentro e che questa storia mi ha stimolato. Certo, mettendomi nei panni del lettore trovo sicuramente divertenti molte cose».
La metafora del biliardino, già usata in precedenza, ha un significato preciso, intuibile nel prologo di questo libro: «C’è già il biliardino come passione in alcuni miei fumetti. In Zona del silenzio ha la funzione di uno stimolo ad andare avanti, a cercare la verità. Questo gioco è un po’ una metafora della mia vita, non sono mai stato molto bravo, vincere resta un mistero. Spesso ho perso anche nei tornei di presentazione del libro. Infatti all’inizio avevo pensato di regalare un libro a chi mi batteva, poi sono sceso solo a uno per presentazione. Poi non sempre!».
Con Biliardino perdiamo un satiro potente, in un’epoca che sembra fatta apposta per la satira, e acquistiamo un narratore attento ai particolari? È un addio all’impegno politico? «Biliardino è una pausa, perché mi sono stufato di rimestare nella spazzatura di partiti razzisti e filonazisti. Ma non è una vera e propria pausa. Nel libro si legge un: “Meno male che Franco c’è!”. Di sicuro oggi la satira viene più facile che in passato, nessuno si sottrae perché abbiamo i politici più ridicoli e vergognosi di sempre. Non ho visto mai tanta ipocrisia e mai così diffusa».
Se non avesse scritto Heil, Beppe!1! si intravedrebbe un accenno di grillismo nelle sue parole: «Io sono un comunista convinto, non sono un militante o un attivista, anche se aiuto molto i centri sociali. Rifiuto le categorie attuali di sinistra, destra e centro, non in favore del qualunquismo, ma perché credo non siano ben definite. E trovo i tradimenti delle promesse elettorali della sinistra molto peggio di quelle degli avversari politici. Sono più critico e cattivo con i “miei”».
«Al momento – dice – non lavoro su altri grandi progetti, ma su tre o quattro storie che ho da tempo nel cassetto e che sento di fare uscire come Biliardino. Certo, potrebbero non essere importanti come questo, che per me è stato un vero punto di svolta narrativo, ci tengo molto».
Roma sembra essere un’isola felice per la fortuna dei fumettisti, in questo momento. Cerco di far concludere l’intervista con una cattiveria gratuita o almeno uno sfottò per Zerocalcare e Natangelo, ma resto spiazzato: «Non c’è rivalità tra noi, ma stima reciproca, credo. Di recente Nat ha anche preso le mie parti per gli attacchi che ho ricevuto dal Movimento 5 Stelle e domenica 1 novembre abbiamo fatto una presentazione insieme al Lucca Comics. Tra i tre, però, io sono quello che viene perculato di più, sempre e soprattutto da Nat, perché purtroppo sono goloso di Kinder Cereali come il suo leggendario personaggio, Dibla. Comunque, per quanto possiamo frequentarci e prenderci in giro a vicenda, non raggiungeremo mai il livello di ispirazione che ci forniscono le nostre muse esterne, i bersagli della nostra satira».
Nel giorno della raccomandazione di Matera a rappresentare la nazione come Capitale europea della Cultura per il 2019 da parte del governo italiano, ripubblico qui l’intervista al direttore artistico di Lecce2019, Airan Berg. L’intervista è stata pubblicata su Mediaterraneo News. Sono particolarmente affezionato alla risposta che Berg mi ha dato sul possibile proseguimento dell’impegno della città a prescindere dal risultato. Sono curioso di capire se questa città farà davvero passi in avanti. Come quelle squadre chiamate a giocare campionati da gregarie, senza impegni oltre al campionato. Serenità, progetti, maturità da dimostrare.
Lecce è tra le sei città italiane ancora in corsa per la candidatura a Capitale europea della Cultura per il 2019. E se il potenziale del capoluogo salentino sarà valorizzato a dovere, dopo la consegna del dossier definitivo a luglio, un ruolo importante andrà riconosciuto ad Airan Berg, direttore artistico della candidatura leccese.
Nato a Tel Aviv il 18 luglio 1961, maturato a Broadway e direttore artistico di diverse compagnie teatrali austriache, Berg ha casa a Istanbul con sua moglie e un bambino, è stato nel team creativo di Linz, Capitale del 2009. Tutte le attività che si svolgono in città e le proposte d’innovazione si reggono su un concetto che ha coniato lui: Reinventare Eutopia.
Edutopia; profitopia; artopia; ecotopia; talentopia; polistopia; democratopia; esperientopia sono i petali della margherita da sfogliare interrogandosi sulla possibilità di rappresentare l’Italia e l’Europa sotto il segno della cultura. Otto campi che raccolgono l’esperienza, i talenti, gli artisti, la ricchezza culturale e sociale, l’innovazione amministrativa e la trasparenza che la città è in grado di produrre. Ecco da vicino i suoi piani per fare di Lecce l’avanguardia culturale europea.
Quali sono i punti di forza che la città deve valorizzare per ambire al titolo di Capitale europea della cultura?
«Anzitutto questa città ha una fantastica tradizione culturale. La forza di questo territorio sta poi nella varietà straordinaria dei saperi della società civile. E poi ci sono artisti meravigliosi. E il cibo, che è una parte molto importante della vostra cultura».
Come nascono le sfide di «Eutopia»? E perché «reinventarla»?
«Il concetto del “reinventare” non è mio, l’ho sentito spesso dalle persone che ho incontrato: “Dobbiamo reinventarci ogni giorno per poter vivere”, mi hanno detto. C’è bisogno di un cambiamento sostanziale, lo sappiamo, per tutto il Sud: non basta un cerotto e via per sistemare le cose. E siccome nel progetto esiste anche una dimensione europea, c’è bisogno di reinventare un po’ anche il nostro essere cittadini europei e abbiamo creato un’eutopia, un’idea cui aspirare per migliorare».
Lecce2019 propone una visione differente della cittadinanza: come cambia il rapporto con la pubblica amministrazione?
«Un elemento importate è la mancanza di fiducia, sul territorio, tra la cittadinanza e gli amministratori, ma questo è un territorio pieno di potenziale umano, cosa che sfortunatamente gli umani sanno distruggere facilmente. Dobbiamo essere più meticolosi nell’usare di più questa conoscenza collettiva e questo processo può essere affrontato solo partendo dal basso. Responsabilizzando i cittadini per ottenere maggiore responsabilità (capacità di risposta) da parte dell’amministrazione».
Il progetto in sé, a prescindere dal risultato, cosa lascerà a Lecce?
«Il risultato che rimarrà sul territorio dipende da quanto le persone coinvolte vorranno e sapranno investire sul territorio. Se l’esito di ottobre sarà negativo, starà comunque alla cittadinanza premere per attivare i progetti, anche se in modo più umile-bisognerà ridimensionare tutto-, ma cercheremo di attivare un cambiamento tale per cui non si potrà più tornare indietro».
I muscoli della sfida si sono basati sulle Curiosity Zone-punti informativi, ma anche di discussione e di proposta- e i Laboratori urbani aperti creativi (Luac)-promotori di innovazioni e attività di ogni tipo. Che risposta avete avuto?
«Un grande feedback, molte idee, la gente si è divertita, ha compreso, ha esplorato e impiegato la piattaforma che noi abbiamo messo a disposizione. Tante piccole associazioni che prima pensavano di lottare da sole per una causa o progetto li hanno messi insieme nei Luac e gli diciamo: vi creiamo una piattaforma per creare più dialogo ma dovete prendere in carico voi la riuscita del progetto, con responsabilità. La dimensione europea, inoltre, è fondamentale. Il lavoro deve essere svolto dalla popolazione, ma bisogna cercare di sviluppare una popolazione europea. Questo non è il momento di mangiare la torta, ma si investe, la si fa insieme con gli ingredienti giusti e bisogna anche aspettare e non mangiarla troppo presto. Ci sarà infatti una sorta di collo di bottiglia nel quale bisognerà selezionare le idee per portarle avanti».
Lei si considera un globetrotter, ma cosa potrebbe spingerla a rimanere a vivere a Lecce?
«In questi mesi sono ingrassato parecchio! Una delle attrattive maggiori è il cibo, ma mi piace la gente, mi piace che appena vai fuori dalla città trovi subito dei bei posti, e gli uliveti, mi piace vivere tra due mari. Io sono nato a Tel Aviv e in generale ho il Mediterraneo nel cuore. Posso ben immaginare di poter vivere qui, ma poi mi piace essere spontaneo con quello che viene, le opportunità che si presentano, e devo ascoltare i bisogni della mia famiglia. È facile sentirsi cittadini del mondo se non si resta nello stesso posto in cui si è nati per molto tempo. A 11 anni io ero a Vienna, poi in America. È più facile non sviluppare radici profonde. E mi sento sicuramente legato al Mediterranneo, il mio cordone ombelicale è lì».
Matera sarà la prima città del Sud Italia a essere nominata Capitale della Cultura per il 2019. Ho scambiato qualche scambio di tweet con il direttore artistico che l’ha portata al trionfo, Joseph Grima, nel giorno del suo insediamento.
Un curriculum di tutto rispetto, l’attitudine alla creatività, dal respiro cosmopolita, e con un programma per il 2014 già ricco di eventi. Anche Matera ha il suo direttore artistico, presentato stamattina: è Joseph Grima, 37 anni, nato ad Avignone, di nazionalità inglese e naturalizzato italiano, con uno studio d’architetto a New York.
«Un progetto bellissimo e ambizioso»: Joseph Grima esprime con un tweet la sua gioia per la nomina a direttore artistico per Matera 2019. La città dei sassi è tra le sei città della short-list che correranno per ottenere lo status di Città europea della cultura tra cinque anni. Sulle città in lizza con Matera, in rigoroso ordine alfabetico Cagliari, Lecce, Perugia, Ravenna e Siena, il verdetto dell’apposita commissione europea sarà entro novembre di quest’anno. Per vincere la sfida d’internazionalizzazione che si pone al Comitato per Matera 2019, il presidente Salvatore Audace e il segretario Paolo Verri calano il loro asso: Joseph Grima, appunto. Architetto, scrittore, ricercatore, direttore della Storefront for Art and Architecture, galleria d’avanguardia e spazio eventi a New York, messa su anche per incentivare la promozione di posizioni innovative in architettura, arte, design e pratiche territoriali. È stato anche redattore e corrispondente internazionale per la rivista Domus di Milano, autore di «Instant Asia» (Skira, 2007), una rassegna critica dei recenti esiti di pratiche architettoniche nuove e d’avanguardia in tutto il continente asiatico, e tra i curatori di «Shift» (Lars Mueller, 2008), oltre a numerosi contributi scientifici per libri e altre pubblicazioni di settore come AD, Tank, Volume e Urban China. Attualmente è inviato speciale della rivista di architettura Abitare .
Grima è stato nominato direttore artistico questa mattina, durante la conferenza stampa di presentazione del programma 2014 del comitato e per tracciare un bilancio dell’attività svolta nel 2013 che è stata incentrata su diciannove eventi. Il nome del creativo cosmopolita, nato ad Avignone, con cittadinanza inglese, ma naturalizzato in Italia e residente a Milano, l’ha spuntata sulle nove candidature finali selezionate tra le novantasette presentate. Il neodirettore sarà a Matera agli inizi di marzo e sarà impegnato nell’attuazione di programmi e nei percorsi che porteranno gli organismi europei alla scelta finale. «Il programma del comitato per il 2014 sarà incentrato su tre tappe – hanno detto Adduce e Verri -, riguardanti il coinvolgimento di cittadini e centri della Basilicata sulla candidatura, in vista dell’arrivo della commissione di valutazione; un grande lavoro nazionale di rete con città come Torino, Milano, Pisa e altre, di promozione e interscambio internazionale; il concerto omaggio a Giuseppe Verdi registrato a Matera e che sarà trasmesso dalla televisione bulgara, un grande evento sul cinema promosso dalla Camera di commercio legato alla European Film Accademy che si terrà in marzo a Matera, eventi sportivi, come “Un canestro per Matera 2019” e artistici cadenzati nel corso dei prossimi mesi».