Una questione di tatto

Sì, ammettilo. Una sera ti sei accorto che Bari in fondo ti è piaciuta. Lascia perdere che adesso a Lecce stai recuperando il tempo perduto e che quella è casa tua, ovunque tu sia. Certe cose capitano all’improvviso.

E quando capitano, deleghi sempre la faccenda alle mani. Scorrere con la levità di una carezza il dorso di una panchina sul lungomare Nazario Sauro in una notte deserta d’estate. Lo stesso gesto che d’istinto hai fatto per tutti i cinque piani del corrimano di quella redazione milanese. Era quasi un addio e hai stretto con forza, come chi sa di aver perso una donna prima di averla un’ultima volta.

Al termine della scalinata pensavi di avere le mani sporche di polvere e invece no. E così con le schegge nodose di quella panchina. Una parte di te passeggia ancora lì di notte, pipa accesa e pensieri fumanti.

Con la bocca provavi a formare nuvole di progetti futuri, ma il vento ti sembrava li portasse via. Non era così. Diceva la sua, li modificava, li estendeva, ci scherzava forte. Un po’ permaloso, tiravi su lo scaldacollo e squadravi muto l’oscurità. Forse un ubriaco ti veniva incontro, forse una coppia rideva della tua solitudine.

Al tuo passo, dall’accademia di aeronautica a piazza Umberto I ci sta tutta “…And Justice for All” e la Bari notturna incide sui tuoi reni: una questione di fissità delle cose, di forza del vento, di ars vivendi e di qualcosa di mostruoso alla coda dell’occhio destro di molte persone. Buste e altri rifiuti orchestrano danze macabre al ritmo della tramontana notturna su via Sparano. Provi a seguirle e già le hai perse. Perché le persone giuste erano in fondo al vicolo. Emanavano una luce che non riuscivi a vedere. Eri troppo impegnato a sfregare sulle polarità del tuo contatore. Con le mani.

 

*Foto di Andrea Aufieri, Bari – Zona Portuale. Licenza Creative Commons Attribuzione – Non opere derivate – Non commerciale 3.0

Il bagonghi e le fototessere a Milano

Nei dintorni di piazzale Cadorna è così. Mettiamo che Trenord ci metta uno sproposito di tempo per inviare da qualche parte le tessere degli abbonamenti. Entrate sul sito e, dopo aver compilato moduli non proprio veloci e intuitivi, se non avete dovuto ripetere nessuna operazione, vi apprestate a inserire la foto migliore che avete nei terabyte di memoria stipati nei vostri 200 hard-disk. O meglio, in previsione di una sessione di internet così complessa, la foto o ve la siete scattata sul momento (per poi scartarla perché l’aria di Milano a voi, abbrustoliti all’estate del sud, vi ha screpolato velocemente il faccino e, a prescindere, se siete a Milano avete l’aria stanca) oppure l’avete accuratamente selezionata, da quella volta in cui la rotazione dell’asse terrestre, la congiuntura lunare e le tempeste solari vi permettevano di sfoggiare un bel sorriso, in un ambiente neutro, e magari non troppo recentemente: nessuna ruga, capelli dal colore omogeneo, niente pancia. Ecco, avete fatto. Un bel click e buonanotte. Perché la tessera, che vi serve domani, arriverà tra un mese.

Così il giorno dopo, incazzati, andate a parlare con l’operatrice della compagnia, che è delle vostre parti, è più abbronzata di voi e vi guarda accondiscendente. Prima che le facciate pesare il fatto di aver pagato il biglietto secondo la tariffa intera giornaliera, vi dice che lei può solo vendere i biglietti o ricaricare tessere già esistenti. Nel giro di pochi minuti, invece, l’abbonamento che vi serve sarà immediatamente disponibile in quel gabbiotto in fondo. Ci andate, controllate, è vero.

Compilate tutti i moduli al volo, eppure erano gli stessi che su internet sembravano complicati. Vabbé mettiamoci il gap dell’effetto-apprendimento. L’impiegato ha stampato la tessera, ne annusate la plastica, fate per arraffarla e lui ve la sventola sul naso con segno di biasimo: «Eh no, signore, occorre la fotocopia dei documenti d’identità». Alle sue spalle c’è una stampante grande quanto la Morte Nera di Star Wars, lo guardate con sussiego e infine con invidia. Niente:«Serve per il back office». Non è quello il back office? Vabbè, vi dicono che proprio fuori c’è la fotocopiatrice della cartoleria.

Aspettate che il titolare prenda con molta calma il caffè con il suo bel tesserino, senza foto, da Spizzico. Foto? Non è che adesso…Sì, al rientro dal vostro impiegato preferito, quello vi fa: «Bene, ora manca solo la fototessera. Se non l’avete con voi…-Posso aggiungerla a casa?-chiedete-No, c’è una macchinetta automatica proprio a fianco alla cartoleria». Dai, su. Tutto sommato è l’inizio della giornata, il lavoro vi costringe a usare una camicia e una giacca, si può fare, non ci vuole nulla, non c’è neanche fila. Perché dovrebbe esserci la fila?

Siete dentro, avete tirato la tendina, neanche un secondo per concentravi con voi stessi: il neon che si accende è spersonalizzante. Strano per una foto in cui in sostanza si mostra la vostra persona. Ma tant’è. Poi notate che il tempo è poco, i tentativi sono solo tre e voi state avendo davvero molta difficoltà a entrare nella silhouette che delimita il fuoco della macchina. Perché? È il disagio esistenziale che affiora in momenti come questi? Il caffè a colazione vi ha dato fastidio? L’aria della metropoli fa affiorare il vostro riflusso? No, è che il seggiolino della postazione è rigidamente inarcato in avanti. Per questo motivo state per buttare via “cinque euro cinque”. In due tentativi siete finiti fuori fuoco e avete annullato il risultato. Al terzo tentativo la macchina mangerà i soldi sputando per forza fuori l’ultimo tentativo che avrete fallito.

Alla meno peggio il risultato vi vede con gli occhi a palla, nello sforzo di sostenere il vostro peso a mezza altezza simulando una comoda seduta. Insomma, comoda: sembrate seduti sul cesso nell’atto di espiare la colpa di giorni di carboidrati. E sembra anche che abbiate la chierica, perché un pezzettino della vostra zazzera è stato tagliato fuori dall’inquadratura.

È tardi e dovete andare a lavoro: va bene così. Ma il tempo libero che vi rimane, sul percorso fino al lavoro, lo impiegate a valutare le condizioni dei seggiolini di ogni macchinetta in giro per la città. Sono tutti inarcati allo stesso modo, quelli che vedete. È chiaro che si tratta di un complotto. Ma non ne avete le prove, per di più non le volete trovare, diranno che siete paranoici.

Poi una sera avete fatto tardi in giro con gli amici, tra una risata e l’altra giù fiumi di birra. Avete perso il tram che vi riporta in stazione e la metro è chiusa o non trovate l’ingresso giusto perché siete brilli. Gli amici vi hanno salutato da un bel pezzo e voi vagate, anime perse, tra una traversa e l’altra, pensando ogni volta che sia quella giusta. Scampate all’agguato di un cane che vi ha valutati come un’enorme e gustosa polpetta. Siete sudati, disperati e in preda al panico. Per di più fa pure freddo in pieno settembre. Imboccate una viuzza fetidamente illuminata.

È allora che lo vedete: dopo aver rabbrividito al suo ghigno. Quel suono che vi ha tolto l’idea che fosse un gatto a passarvi sui piedi. È una specie di folletto, di sicuro un nano. È tutto verde, ha una scarpa con le ghette e un piedone scoperto. In testa al posto del cilindro del cappello ha un panettone. È il Bagonghi! Qualche giorno prima in redazione hanno tirato fuori la storia del folletto che avrebbe dovuto rappresentare Milano a metà degli anni novanta. Subito scartato e dimenticato. Univa la Milano povera con quella ricca, la bellezza sopraffina e l’immediatezza corposa e sincera del popolino. Però brutto era brutto.

Lo inseguite e notate di aver espresso un giudizio pesante, nei suoi confronti. Per vendicarsi del giudizio di ciascuno il Bagonghi vaga nel cuore della notte tirando calcioni col suo piede nudo e dal pelo irto. Colpisce sempre i seggiolini delle macchine per le fototessere: non potete esprimere la vostra bellezza perché non sono belli coloro che escludono. Il folletto non perdona e sarà difficile fargli cambiare idea, perché è difficile che la cambiamo noi.

Show me something I don’t know! (apparizioni dal giro di giostra milanese)

Immagine

Show me something I don’t know. L’esperienza di due mesi a Milano, nella redazione di un grande quotidiano, ha avuto caratteri rizomatici. E tra le possibilità di racconto, sottotesto e rigenerazione, mi è venuta in mente una delle espressioni che più sono risultate simboliche nell’esperienza del master in giornalismo, finora. La frase è ripresa dal film «Cosmopolis», diretto da David Cronenberg, Del film avrei voluto parlarne, quando è uscito nel 2012, perché mi aveva scioccato il fatto che il protagonista, Eric Parcker/Robert Pattinson, a un certo punto esclama qualcosa del tipo che siccome ha ventott’anni, allora la sua vita è praticamente finita. E io, chiaramente, avrei compiuto 28 anni a giorni, oppure li avevo appena compiuti, non ricordo.

Tutt’altro, dopo. Per esempio di lì a un anno me ne sarei andato a giocare al giornalista a Milano e a giugno del 2012 neanche lo immaginavo.

E così, quando qualcosa assume uno sguardo vergine, resta scolpito nella mente e nel cuore. Un imprinting emozionale indelebile. Per la paura a MIlano, il primo giorno ho avuto le seguenti manifestazioni cutanee: indolensimento del collo per la rigidità delle spalle, sangue dal naso (non mi accadeva da quando avevo dodici anni) e balbettìo. Ma poi le cose sono andate meglio. La prima cosa da dire è che sono rimasto allibito perché i milanesi s’incazzano per dieci minuti di ritardo di un treno o di un tram. Viaggiate sulle Ferrovie Sud-Est, dico io, e ne riparliamo.  Per il resto, essendo uno che di natura tende a essere più o meno silenzioso, anche se comunque per ingombrare ingombro, e sporco anche, mi va di fare una lieve carrellata di volti e persone, a volte con nomi di fantasia, che ho incontrato nella Gràn Milàn. Non ci sono amiche, amici, parenti e colleghi: il mio rapporto con loro è stato sincero, intimo o parentale, a seconda, e sanno tutto quello che c’era da sapere. Alla «verginità dello sguardo» di cui dicevo sopra andrebbe anche aggiunto che c’erano qualcosa e qualcuno che mi facevano danzare su un filo di seta. Una cosa raffinata, proprio, al punto che pensare che me la sono meritata mi fa rabbrividire di piacere. Andrebbe introdotto il concetto di biografia romanzata, maledetta influenza del diario di Anais Nin. Ma ci arrivate da soli, no? I pop corn, caldissimi, sono già sul bracciolo. Per le bevande pensateci voi, io ho potuto provvedere solo alle diapositive e al whisky.Silenzio in sala, prego. La musica è solo strumentale e potete dormire, ecco qua.

Marianna ha due occhi che sono il mondo. Ma il fatto di avere due grosse cuffie sulle orecchie glieli svuota. Mi avvicino per chiederle un’informazione, ma non avendomi «percepito», sussulta. La cosa fa ridere entrambi. Saliamo sulla stessa linea della metro. Restiamo non troppo distanti, ma lei è ancora assorta nella musica, mentre il dinamismo della sua capigliatura castana m’incuriosisce e diverte. Mi viene in mente quella canzone di De Andrè sulle passanti. Lei si appresta a scendere a Cairoli, una fermata prima della mia. Non lascio che questo accada senza fermare il momento. In altri tempi lo avrei fatto mentalmente. Questione di carattere. Le sfioro lievemente la spalla destra, si volta incuriosita. La saluto e le regalo uno dei sorrisi più dolci che abbia fatto in questi anni. Ricambia. Le chiedo se non abbia il tempo di scendere alla fermata successiva e di ritornare a piedi. Ce l’ha. Ha una voce di un tono che a Milano è raro sentire, una dolcezza non troppo affettata e un acuto non troppo compiuto e tendente alla profondità. Una delle migliori chiacchierate, ancora molti sorrisi, e un racconto che prosegue verso altre trame rizomatiche.

Tamara ha la pelle scura, le labbra morbide e una silhouette molto…milanese. Ma è egiziana. Possiede una simpatia naturale, trascinante. E a ogni pausa del respiro ti guarda con i suoi occhi verdi e sembra sempre di essere lì ad aspettare che la baci. Giochi a vedere se perde la pazienza e lo fa lei. E succede. Di Mara si possono apprezzare tante cose. Anche il fatto che la incontri per caso a un aperitivo con gli amici e lei ti metta subito a tuo agio, come ti conoscesse da sempre. Anche il fatto che poi ti dice di essere una prostituta e che il primo giro te lo offre la casa. Tu dici no grazie, e la reincontri in un altro bar, a far colazione con le guance infreddolite, tremante. Non è sempre una passeggiata, ti dice e vorrebbe fare l’amore. L’amore, dice.

Guenda in realtà si chiama Fatma. Fa parte di trecento siriani in stazione. Sembra una modella, è giovanissima, con un top che le valorizza un seno molto generoso. Dice di avere diciannove anni. Sono simpaticissima e mangerei volentieri una pizza, dice sorridendo. Prende una coperta di lana e se ne fa un turbante. Quando la pizza arriva la mangia compostamente. Solo dopo scende dalla passerella e tira fuori una storia magica: ci sono minareti, cannoni, eroi di guerra,benefattori reali e benefattori fasulli. Fa una preghiera per quelli veri. Ci sono i datteri, parecchi. Poi c’è il papà che fa il meccanico e le dà i soldi. C’è una barca, c’è il mare, c’è l’attenzione e il rispetto degli amici, che si prendono cura di lei quando uno scafista prima, e poi un poliziotto a Lampedusa, e ancora uno che non era in barca con loro, e poi due siciliani e alla fine uno della polfer e un altro  milanese provano a metterle le mani addosso. Sentiamoci, dice, ma poi le consigliano di non darmi il numero. Le do il mio, ma non l’ho più sentita.

Vincenzo sta ogni giorno con delle cianfrusaglie all’angolo delle poste. Se devi capire qualcosa di Milano, i giorni che non è ubriaco, e dopo aver provato a venderti anche le mutande, può raccontatela lui, con qualche licenza. Impiegato delle poste, dice, ma il dubbio che proprio quella sia una licenza ti viene. Ha visto la gente nella vicina piazza Mezzanotte, arrivare in giacca e cravatta e andarsene con le brache calate. Lui, mai fatto distinzione: una sigaretta scroccava quando andavano e una quando tornavano. Gli piace tanto, lo fa ridere ogni volta, il dito di Cattelan all’alba, se si vede il sole, se no se lo immagina.

Marco fa il barman dalle parti della Centrale, cammina a un passo dalla velocità insostenibile. Si è fermato solo due volte quando l’ho conosciuto. Una volta per grattarsi in testa e guardarsi intorno disorientato, un’altra perché l’accendino ha fatto una fiammata che lo ha impressionato. Pensavo si fermasse una terza volta quando gli si è incastrata la lampo della giacca, ma ha risolto in corsa. Trentadue anni, una moglie diciottenne, già sedici anni di contributi. Hai sbagliato tutto nella vita mi dice, ma questo pensiero lo avevo fatto molto più velocemente di lui.

Mary va ogni giorno da Bovisio Masciago a Domodossola, una fermata prima del capolinea a Cadorna. Ha lavorato fino a settembre per Google Italia, nelle mense. Mangiano bene tutti lì, puoi inventarti un macdonalds o fare un pranzo da ristorante. Ma adesso ha un business di cui parla in inglese ogni volta con la sua amica di Bruxelles. Una volta è venuto con noi anche un signore di Glasgow. Lei, sessantenne, era scocciata per la sua presenza, un pretendente di cinquant’anni. Abbiamo chiuso la cucina, ormai, dice.

Dodi dice tre cose nel viaggio che è costretto a fare per una settimana fino a Milano. Ho fame e che vita di merda. Poi passa sei giorni a parlare con la sua fidanzata di Cesano. Ha vent’anni più di me, dice la terza volta. E svapa come un asiatico.

Quanto cazzo era più facile sfanculare i marocchini quando ti davano il grano per i piccioni in piazza Duomo, dice Carmine. Prima era allergico e lavorava per una ditta di costruzioni. Adesso è in pensione e ha molto più tempo per essere importunato. E vi si dedica volentieri.

La campanella è suonata, but I don’t want to be awake.

Tè nero francese, aroma di vaniglia

Febbraio 2011. Il treno espresso da Lecce per Roma era arrivato alle sei di mattina e il seminario sarebbe cominciato soltanto dopo le due di pomeriggio. «Libertà d’informazione in Europa», molto interessante. Non lo sapevo ancora, ma mi avrebbero dato conto dello tsunami che presto avrebbe coinvolto Murdoch nel Regno Unito.

Intanto, però, c’eranténerofranceseo otto ore da riempire. Uno dei bar di piazza Cavour si era rivelato molto ospitale. Portavo con me uno dei libri che aspettavano di essere letti da anni. Ma quel giorno di inizio febbraio era il preludio di una delle primavere più intense e calde e gioiose che avrei mai passato. E io neanche questo sapevo ancora, ma se il sole ti sorride mica gli neghi la risposta.

Così, dopo un caffè necessario- e sicuramente una pasterella-, cominciavo a girare nei dintorni della chiesa valdese, cercando e trovando una biblioteca, che però restava chiusa. Avevo passato almeno un’ora in una libreria antiquaria, e trovato anche una libreria specializzata in diritto. Cercavo e trovavo un po’ troppe risposte ad alcune semplici domande.

A proposito di risposte, in quei giorni c’era nella mia casella privata di facebook, una timida discussione appena iniziata con una certa persona. Ancora non lo sapevo, ma quella lì sarebbe diventata il mio tsunami personale e prevalente degli anni a venire.

A un certo punto, un negozietto di una signora romana verace, coltissima. Una gran chiacchierona. Dopo, per riprenderemi ho dovuto bere un altro caffè. Aveva ricami fatti a mano, tazzine di porcellana finissima e una quantità di spezie, tè, aromi, cioccolate e biscotti che ci sarebbe voluto un anno a farne l’inventario.

Per fortuna quasi tutte le mercanzie erano fuori della portata delle mie tasche, e così mi limitavo a far domande sul modo in cui si preparava questo o quel manicaretto, e a farmi chiedere di annusare questo o quell’aroma. Poi il mio olfatto si è innamorato di un semplicissimo tè nero aromatizzato alla vaniglia. Un pacchettino di carta alimentare sottilissima e l’etichetta francese completavano un’esperienza sensoriale che, io non lo sapevo ancora, ma potrei dire che sarebbe stata la prima epifania di un modo di attivare i sensi. Quando uno strano calore parte dalla base della nuca e scende, rilassando la schiena, spesso in tensione, e dando agli occhi, alla testa, al cuore e al respiro una sorta di realtà aumentata, lucida e vogliosa.

Una roba vagamente proustiana, insomma, ma Proust non l’avevo ancora…audioletto. Poi l’incontro, poi gli amici, la vita, il ritorno in treno, e il ricordo di quell’0dore a coprire il puzzo dei compagni di viaggio al ritorno, sull’espresso di mezzanotte da Roma per Lecce.

Io ancora non lo sapevo, pensavo di aver preso un tè pregiatissimo che avrei consumato però in men che non si dica. Due anni è mezzo è durato. I primi esperimenti, senza il colino per il tè, prevedevano il sacrificio, a rotazione, di un canovaccio di casa. L’etichetta e la carta si sono sciupate col tempo. Ne ho trasferito il contenuto in un barattolo di vetro.

Poi tante cose sono maturate, evolute, spostate come mai negli anni che avevano preceduto l’arrivo del tè nella credenza di casa. Di casa mia, di un’altra stanza, poi di un’altra stanza ancora. E, per finire, di un’ulteriore stanza. Pochi giorni fa ho bevuto la sua ultima tazza. In tutto ne avrò bevute, da solo oppure no, una cinquantina.

Ho pensato che questo fosse un buon modo per rendere onore al tè proustiano. Il pensiero, questo un po’ cinico e decisamente antiproustiano, della bellezza di bere un tè, da beati ignari.

Il migliore amico dei single che lavorano a tempo pieno è il bonsai. O dell’ardimento

Tharreo e la schiuma dei giorni

Il migliore amico dei single che lavorano a tempo pieno è il bonsai.

Il fervore iperreligioso di Terrence Malick fa porre una bellissima domanda alla sua protagonista in The Tree of Life:

Ci sono due vie per affrontare la vita: la via della natura, e la via della grazia.

La narrazione si dipana su questa dicotomia. L’esistenza è un mistero e non è accessibile a coloro che vogliono sempre analizzare, selezionare, ma solo a coloro che sono disposti a innamorarsene, a danzare con lei: c’è scritto questo in un frammento del biglietto che accompagnava il bonsai che mi è stato regalato qualche mese fa.
Il periodo non era dei migliori, dopo la situazione è peggiorata.

Ma trovo sia una bella consuetudine quella di trovare un nome ai bonsai, se non altro dedicando un po’ di tempo alla maestosità di un albero che è stato costretto in una pianta. E non è che non avessi subito la risposta, ma le certezze teoriche possono solo in qualche modo orientare un comportamento o un’idea che poi deve scontrarsi con la realtà empirica.
E la volontà, anche la più granitica, ha mille piccole frazioni fatte di desiderio.

Così in questo momento di lunga transizione, avvenuta non proprio per mia volontà, che anzi più di una strada l’avrei anche abbozzata, il problema è non riuscire a immaginare un futuro pieno di assenze, cosa cui purtroppo dovrò abituare uno sguardo asciutto e privo di miopie e congiuntiviti (non di congiuntivi, no).

Il passato è una terra straniera; fanno le cose in modo diverso laggiù.
(Leslie Poles Hartley, L’età incerta)

Ho dovuto ripetere spesso questa frase a me stesso, da un certo giorno di agosto, perché qualcuna, tra quelle assenze, urla più forte di altre, dentro la nebbia lattea dei giorni.  Il mio nome è Andrea, deriva dal greco àndreia, significa coraggio. Coraggio, in italiano, era il nome che avevo scelto per il bonsai, ma le idee teoriche non sempre sono buone idee.

Non basta professare la propria visione della vita: cosa accade se si deve mettere in pratica quello che si è detto? No, dico, magari qui c’è un pesce piccolo in un lago minuscolo, ma sempre a far quattro chiacchiere sul cosmo, si finisce. E intanto la vita avviene. Ho giudicato importante la qualità-coraggio per poter uscire dal passato senza legarmici con i mattoni nelle scarpe. E per affrontare il presente, questo sì mattone dopo mattone, senza troppa paura del futuro.

Con un automatismo psichico degno di Breton (André), ho scelto Tharreo perché sottintende un’azione, quella di darselo, di infonderselo, questo coraggio. Scusa, piccolo Tharreo, se vuoi protesta all’anagrafe ma è così che ti battezzo, perché questo quello che ho bisogno di annaffiare, coltivare, giorno per giorno, perché i desideri non sfioriscano in passioni tristi. Per generare una stella danzante!

Boris Vian, la vita a ritmo di jazz

I libri di letteratura francese, ma solo quelli à la page, gli dedicano un minuscolo riquadro, se va bene anche un foto. Se lo studente ha la fortuna di arrivare a quel punto del programma, la stagione esistenzialista con i giganti Sartre, Camus, Prévert, Simone de Beauvoir e l’esuberante gruppo di Saint-Gremain de Prés, allora rischia di scorgerlo. Basta una foto per carpire in quegli occhi in bianco e nero creatività sorniona e passione assorta, tesa al prossimo pasticheUn’espressione che sembra comunicare qualcosa del tipo: «ho una fottuta fretta, non mi metterò mai in posa per nessuna foto, devo fare quel che devo fare, non ho molto tempo,…».

Non molto tempo perché Boris Vian è vissuto – pericolosamente –  trentanove anni, suonando da sofferente di cuore, cantando e criticando jazz. Lavorando come ingegnere ha inventato strani aggeggi meccanici. Come attore, cantautore e soggettista cinematografico ha lasciato il segno creando testi d’indimenticabile distratta profondità e poesia. Come esperto narratore e commediografo, tra fantascienza e pornografia, ha dato vita al meglio e al peggio di una biografia che sembra alludere ad un aggiornato prototipo del vero umanista. Non c’è male per uno vissuto a contatto con i teorici del vuoto, della nausea e dell’assurdo!

Il secondo dopoguerra aveva affamato un po’ tutti gli artisti indipendenti, che se la passavano piuttosto male e alcuni di loro avevano affrontato i lager. In questo contesto è da inserire la caduta di stile di Boris, che nel 1946 pubblicò una serie di romanzi sotto lo pseudonimo di Vernon Sullivan e la spinta del suo stomaco. Romanzi verso i quali, grazie alle edizioni MarcosyMarcos, s’è risvegliato anche in Italia un certo interesse.

Essi rappresentano un incontro/scontro ideale tra Sade e Hemingway con schegge noir e porno-pulp, tra i quali i più famosi hanno titoli inquietanti e promettenti: J ’irai cracher sur vos tombes (Sputerò sulle vostre tombe, ‘46 ); Les morts ont tous la même peau (I morti hanno tutti la stessa pelle, ‘47).

In un certo senso il fittizio autore nordamericano cela, nella sua essenza e nella sua opera, il carattere distintivo del suo creatore: sarcasmo crudele e dissacrante verso la società d’un dopoguerra infinito, verso un sistema ipocrita e verso gli stessi lettori che compongono la società e sono influenzati dall’ipocrisia piuttosto che dal sistema ipocrita, lettori che acquistano quella robaccia che fa fare tanti soldi.

Ecco cosa scrive ne La schiuma dei giorni:

“L’essenziale, nella vita, è dare giudizi a priori su tutto. In effetti, sembra che le masse stiano sempre dalla parte del torto, e che gli individui abbiano sempre ragione. Bisogna tuttavia stare attenti a non dedurre nessuna regola di condotta da questa constatazione: certe regole non hanno bisogno di essere formulate per essere eseguite. Solo due cose contano: l’amore, in tutte le sue forme, con ragazze carine, e la musica di New Orleans o di Duke Ellington…”

In questo senso, la produzione che più gli somiglia è quella teatrale, con lavori tecnicamente vicini all’opera di Jarry e Ionesco: L’équarissage pour tous (L’inquadramento per tutti, 1950), Les bâtisseurs d’empire (I costruttori dell’impero, ‘59), e i postumi: Le goûter des généraux (La merenda dei generali), e Le dernier des métiers (L’ultimo dei mestieri, ‘64).
In mezzo al pecorume, la profezia sussurrante di un jazzista tachicardiaco, che svolge la sua opera liberatrice, l’arte secondo filosofie e dettami sociologici dell’epoca, divertendosi egli stesso.

E’ vero però che nessuno è profeta in patria se la reazione ai suoi scritti è stata l’interdizione per oltraggio al pudore, eppure i quindici volumi sfornati in quindici anni testimoniano la grande vena creativa dell’autore e il suo incontenibile entusiasmo. Sono di quegli anni i suoi più riusciti romanzi, Veroquin et le plancton (1945), che gli valse la stima e l’amicizia di Raimond Queneau, L’ecume des jours (La schiuma dei giorni), L’Automne à Pékin (Autunno a Pechino,‘46), L’ herbe rouge (’50), ma anche alcuni racconti – Chroniques du Menteur (’46), Les Fourmis (Le Formiche, ‘49)- e le raccolte di poesia considerate minori rispetto alla più nota Je voudrais pas crever (Non vorrei morire,’59), dove intenso lirismo e gioco verbale si rincorrono divertendo il lettore e, soprattutto l’autore- Barnum’s Digest (’48), Cantilènes en gelée (’49).

La produzione musicale di Vian è sconfinata, conosce numerose contaminazioni nel suono, ad opera soprattutto di quei marrons (i jazzisti di colore americani, visti sotto l’ottica razzista francese) di cui si dichiara figlio, e nella parola (Queneau e Prévert aggiungono poesia alla sua poesia). Pur avendo scritto per numerosi interpreti, Juliette Gréco su tutti, l’egocentrismo di Boris lo spinse, in carriera, a comporre, interpretare e musicare oltre 400 brani. Nel 1955, ai vertici della Philips, egli registra un memorabile microsolco di 12 canzoni, intitolato Chansons possibles et impossibles, che incappa in un’altrettanto memorabile censura per la presenza di forti allusioni nei testi e, soprattutto per il capolavoro Le déserteur, inneggiante all’obiezione ed alla diserzione proprio quando scoppiava il conflitto franco-algerino. Lo stesso che faceva inimicare Camus e Sartre, azzittendo ancora una volta il piccolo Vian.Questa volta, però, la grandezza dell’opera è consacrata da decine di cantautori in tutto il mondo. L’Italia ha calato uno storico tris con le versioni della Vanoni, di Tenco e, soprattutto, di Fossati.

Come sceneggiatore cinematografico e compositore teatrale, nel ’53, rappresentata l’opera Le Chevalier de Neige à Caen. Nel ’56 adatta una versione de L’Automne à Pékin, poi, su partitura di Georges Delerue, arrangia come opera musicale Le Chevalier de Neige, e compone per il teatro Les Bâtisseurs d’Empire (rappresentato poi nel ’59). Del ‘58 saranno la rappresentazione dell’opera Fiesta (musiche di Darius Milhaud) a Berlino e la pubblicazione di En avant la zizique.

Nel ’59 diviene direttore artistico della Barclay, ma l’insufficienza cardiaca lo ha arrugginito parecchio, per cui smette quasi di farsi vedere a Saint-Germain e, presi accordi per la trasposizione cinematografica di     J’irai…, cerca di monetizzare presentandone la sceneggiatura per il cinema, con la speranza di dirigere un altro film ancora, magari proprio sull’opera da lui più amata, L’arrache-coeur (Lo sterpa-cuore). I produttori lo snobbano finché qualcun altro non copia tutto e realizza il film, senza menzionarlo neanche. L’ultimo, fatale, schiaffo, Vian lo tira presentandosi alla prima senza essere invitato, ma dopo pochi minuti dall’inizio della proiezione, forse disgustato dalla carne di porco fatta della sua opera, il suo cuore non regge più.

Testi

16 pensieri sul jazz

Cosa rappresenta il jazz per i giovani? Sarebbe una domanda ben sciocca se si considerasse la gioventù come un tutt’uno e non come un insieme di individui diversi. Ma le divergenze d’opinione che si riscontrano fra i giovani, permettono di distinguere i loro comportamenti di fronte a questa musica invece di assimilarli semplicemente, senza neppure domandarsi se sono tutti d’accordo…
Per molti il jazz è soltanto musica ballabile, come un qualsiasi valzer di Strauss. Poco importa che si tratti di jazz buono o cattivo, di Duke Ellington o di Jo Privat: musica ballabile, pretesto per un flirt o per sciogliere i muscoli in movimenti puramente coreografici.
Il jazz può anche essere un modo di assaporare la bella vita di cui il cinema propone immagine e cerimoniale: champagne, whisky and soda, scollature, pellicce, venti bei musicisti che ritmano il ritornello e l’eroina che mormora le parole incollata al suo innamorato.
C’è anche l’atteggiamento un po’ scontato di chi urla di gioia ascoltando un assolo di batteria, qualunque sia. Per alcuni può essere una forma di snobismo. Le belle menti trovano elegante, in certe epoche, interessarsi di jazz e i giovani li seguono, come li seguirebbero in qualsiasi altra cosa.
Il jazz può anche servire come provocazione, “per far arrabbiare i genitori”. Anticonformismo violenza… trovo quasi strano che i surrealisti abbiano tralasciato questo strumento di scandalo.Infine ci sono quelli che si lasciano toccare, senza riserve, da sensazioni o pensieri, indistintamente… attraverso un ricordo, un’associazione d’idee; poi cercano di approfondire, di sapere, di conoscere. E non si fermano. Si rivolgono a quest’arte che è il jazz con l’entusiasmo della scoperta, magari sbagliando, per estrarre, a poco a poco, la vera sostanza.
Sono proprio questi che resteranno fedeli al jazz e seguiranno la sua evoluzione, mentre per gli altri non si sarà trattato che di un momento della loro vita, una follia di gioventù, del tempo in cui erano “zazous”*.
In verità, amici miei, la letteratura sul jazz dovrebbe limitarsi alla pura pubblicità, poiché tutti i commenti, venendo a posteriori, (come ogni commento che si rispetti) fanno del jazz un mostro che non è mai stato. E tentare di dimostrare brano per brano l’evoluzione avvenuta nello spirito di un musicista, dopo il risultato finale, è sterile, a differenza dell’analisi scientifica dei fenomeni naturali; poiché, in fin dei conti, la scienza vi permetterà di agire sulla materia, mentre il critico non potrà mai, sebbene conosca tutte le risposte, fare qualcosa: un bell’assolo per esempio; o prevedere in anticipo che il tal giorno alla tal ora, un tale farà un assolo formidabile poiché così fa pensare tutta la sua vita fino a quel momento.
Il fatto è, si dirà, che la critica musicale, ancora agli esordi, non ha raggiunto il grado di perfezione delle riflessioni di Einstein sulla fisica, che gli permisero di dire anni prima, nel 1912, che sarebbe stato facile verificare le sue affermazioni alla successiva eclissi solare (e fu così, infatti, nel 1919). Bene, sono d’accordo. Ma prendiamo un altro tipo di critica più consolidata, quella della pittura. Tutto va esattamente nello stesso modo e, in fin dei conti, non restano che i quadri nei musei assieme a un mucchio di noiose scartoffie.
Spiegare, spiegare! “lo non capisco” dice lo spettatore davanti alla pittura astratta; ma il fatto è che non c’è niente da capire: bisogna guardare. Cosa fanno di meglio quelli che capiscono? Poco. Succede che a loro la visione dei colori susciti un riflesso grafico mentre le parole scorrono, scorrono sulla carta. Ma perché questo riflesso? Perché proprio questo? Perché quello? E perché, perché sì o perché no? Falso problema! Certamente sono sinceri quelli che, presi dall’entusiasmo, vogliono rendere partecipi anche altri. E qualche volta ce la fanno; ma cosa hanno guadagnato? Non la comprensione del quadro o del disco, ma solo l’adesione alla loro opinione. È così che, senza volerlo, molti giovani si sono lasciati prendere dalla “guerra degli aggettivi” come la definisce giustamente Hodeir. È un’illusione che si può far risalire a tempi lontani, come testimonia la storia del re che credeva di andare in giro con la veste più fine del mondo finché un bimbetto disse candidamente: “Ma il re è tutto nudo!” È una vecchia storia.
Cosa cerchiamo, in fin dei conti? Non posso parlare che per me, ma io so bene quello che cerco: momenti magici come quelli che portano il nome di Ellington, Parker, Gillespie, Louis, Ella, Peterson e altri.
Come fare, per averne di più? Aumentare la domanda? Anche. Gli organizzatori dei concerti hanno delle idee ben arretrate su questo.Ma la domanda, che poi sarebbero gli appassionati, ha mezzi ben limitati. Qualunque sia la domanda, se nessuno ci guadagna, che possibilità ci sono? Allora? Bisogna avvicinare al jazz chi può spendere? Ma come? Con le venti facce che compaiono ogni anno?A questo punto, naturalmente, arriva la critica e dice: facciamo appello all’intelligenza e alla comprensione degli uomini di punta della finanza. E andiamo, precipitiamoci sulla macchina per scrivere. Il guaio è che il fior fiore della plutocrazia non legge altro che la “Cote Desfosses”.
E finalmente ci si accorge che è confondendo le carte e tacendo dell’oscurantismo che si attira l’attenzione. A cosa serve dire banalmente: Durand è un buon musicista, è ben accompagnato, interpreta con gusto un tema bello e semplice e il risultato è piacevole? A niente, cari miei. È fuori discussione. Bisogna risalire alle origini, quando il jazz era agli albori nella giungla birmana, ai tempi in cui Buddy Bolden sputava i polmoni nella bocca disumana del suo ottone e, nello stesso tempo, strappava il cuore a quelli del1’Assistenza e oltrepassava il lago Pontchartrein…
Realmente, in tutta sincerità non c’è, io penso, che un’alternativa: cos’è il jazz, o il pubblico lo sa o non lo sa. La critica non è in grado di farglielo sapere meglio. Lo informerà solo su ciò che Machin pensa che sia. Potrà attirare l’attenzione, certo! E questo non è altro che pubblicità. È una forma più occulta di pubblicità, proposta con un interesse spesso sincero da un appassionato più eloquente degli altri, che intravede quanto può guadagnarci con il fine recondito di schiarirsi le idee sull’argomento.
È triste, davanti a tante belle frasi, dirlo così brutalmente, ma l’utilità della critica mi sembra identica a quella del bollettino meteorologico; ecco come vanno le cose. All’inizio ci sono gli elementi attivi – i cicloni e gli anticicloni, che corrispondono ai musicisti. Qualcosa li determina (ancora un percorso difficile per la critica: chi spinge Dupont a suonare?) L’essenziale è che suonino. Si creano un pubblico – un primo gruppo di seguaci (che può anche includere un critico). Questo pubblico gioca il ruolo del talent-scout hollywoodiano (possiamo definirla critica?) ruolo analogo a quello dell’osservatore di una stazione meteorologica. Questo pubblico segnala: c’è Dupont che fa qualcosa. Lo si fa sapere (questo continua a chiamarsi pubblicità). Subentra la fase statistica: si misura in che grado il successo di Dupont superi quello di Durand. Prima su scala locale, poi in confronto al successo di Duval più lontani. Si tenta di tracciare le curve isobare. Si ipotizza che in un certo lasso di tempo, a determinate condizioni, Dupont diventerà questo o quello; impazzerà sulle coste bretoni o si disperderà al largo. Tutto questo può servire all’appassionato, e può persino suscitare interesse in chi non si è mai occupato di jazz, ma si preoccupa per la sua casa sulla costa. Quando finalmente Dupont arriva, tutto si riduce a questo: o ti piace o non ti piace.
Cosa fa il critico, davvero? Perché non restare nell’ombra? Dopo tutto, quel che conta è il trafiletto di Paris-Presse, che segnala che il tal giorno, alla tal ora, presumibilmente il ciclone Dupont passerà su Carpentras. Che spazio può dare Paris-Presse ai calcoli laboriosi che hanno permesso di prevedere Dupont in anticipo? Il lettore se ne infischia. Tutt’al più possono interessare alla critica che li ha elaborati. La differenza? Non c’è; salvo che chi non oserebbe presentarsi come esperto meteorologo non esita a definirsi critico di jazz o di qualcos’altro. Non si rende conto di fare semplicemente da tramite di notizie o valutazioni (il ciclone e la sua intensità). Vuole spiegare a tutti i costi perché questo ciclone è fatto così. Si accanisce. Rovelli interiori messi a nudo. Non si rende conto che le spiegazioni valgono zero: pura illusione. Non si salvano nemmeno icritici più geniali.
La prova è che già da un’ora io sto tentando, come uno stupido, di spiegarvi che cosa è la critica e perché non si possa dire che serva a qualcosa. La mia lucidità mi ha gratificato e mi ha fatto passare il tempo. Chiunque è libero di immaginare una critica talmente seria da consentirvi un giorno di prevedere, ascoltando cento dischi di Machin, che assolo eseguirà su Lover come back to me, nota per nota. Fortunatamente per tutti, questo momento funesto non è vicino. Quanto alla rassegna stampa, questa è maledettamente compromessa. Per fortuna non succede niente durante il mese di agosto, salvo qualche storia di fregate inglesi; meglio che mi occupi delle mie cose.
*Nome dato in Francia ai giovani appassionati di jazz, durante la seconda guerra mondiale

Le déserteur
Parole di Boris Vian
Musica di Boris Vian e Harold Berg
1954

Monsieur le président
Je vous fais une lettre
Que vous lirez peut-être
Si vous avez le temps
Je viens de recevoir
Mes papiers militaires
Pour partir à la guerre
Avant mercredi soir
Monsieur le Président
Je ne veux pas la faire
Je ne suis pas sur terre
Pour tuer des pauvres gens
C’est pas pour vous fâcher
Il faut que je vous dise
Ma décision est prise
Je m’en vais déserter

Depuis que je suis né
J’ai vu mourir mon père
J’ai vu partir mes frères
Et pleurer mes enfants
Ma mère a tant souffert
Qu’elle est dedans sa tombe
Et se moque des bombes
Et se moque des vers
Quand j’étais prisonnier
On m’a volé ma femme
On m’a volé mon âme
Et tout mon cher passé
Demain de bon matin
Je fermerai ma porte
Au nez des années mortes
J’irai sur les chemins

Je mendierai ma vie
Sur les routes de France
De Bretagne en Provence
Et j’irai dire aux gens
Refusez d’obéir
Refusez de la faire
N’allez pas à la guerre
Refusez de partir
S’il faut donner son sang
Aller donner le vôtre
Vous êtes bon apôtre
Monsieur le président
Si vous me poursuivez
Prévenez vos gendarmes
Que je n’aurai pas d’armes
Et qu’ils pourront tirer

Non vorrei crepare

Non vorrei crepare
prima di aver visto
i cani neri del Messico
che dormono senza sognare
le scimmie dal culo nudo
che divorano pistilli
i ragni d’argento
nei nidi pieni di bolle
non vorrei crepare
senza sapere se la luna
sotto la sua falsa faccia della medaglia
ha una parte a punta
se il sole è freddo
se le quattro stagioni
davvero sono solo quattro
senza aver provato
a portare una gonna
sui grandi boulevard
senza aver guardato
in un tombino della fogna
senza aver messo il pisello
in qualche angoletto bizzarro
non vorrei finire
senza conoscere la lebbra
o le sette malattie
che si beccano là sotto
il bene e il male
non mi darebbero pena
se se se sapessi
di avere la precedenza
e c’è anche
tutto quel che so
tutto quel che apprezzo
che so che mi piace
il fondo verde del mare
dove girano di valzer i fili delle alghe
sulla sabbia ondulata
la paglia in fumo di giugno
la terra che si screpola
l’odore delle conifere
e i baci di quella là
quella che qui che là
la bella che voilà
il mio Orsacchiotto, l’Ursulà
non vorrei crepare
prima di aver consumato
la sua bocca con la mia bocca
il suo corpo con le mie mani
il resto con i miei occhi
non dico altro si deve
avere un po’ di rispetto
non vorrei morire
senza che nessuno abbia inventato
le rose eterne
la giornata di due ore
il mare in montagna
la montagna al mare
la fine del dolore
i giornali a colori
tutti i bambini contenti
e ancora tanti trucchi
che dormono dentro i crani
dei geniali ingegneri
dei giardinieri gioviali
dei soci socialisti
degli urbani urbanisti
e dei pensierosi pensatori
tante cose da vedere
da vedere e da intendere
tanto tempo da attendere
a cercare dentro il nero

e io io vedo la fine
che si spiccia e arriva
con la sua gola mocciosa
e che mi apre le braccia
di rana sciancata

Non vorrei crepare
nossignore nossignora
prima d’aver assaggiato
il gusto che mi tormenta
il gusto che è il più forte

non vorrei crepare
prima d’aver gustato
il sapore della morte.

Perché vivo

Perché vivo
Per la gamba gialla
D’una donna bionda
Appoggiata al muro
In pieno sole
Per la vela gonfia
Di un battello del porto
Per l’ombra delle tende
Il caffè ghiacciato
Che si beve con la cannuccia
Per toccare la sabbia
Vedere il fondo dell’acqua
Che diventa così azzurro
Che discende tanto in basso
Con i pesci
I calmi pesci
Pascolanti sul fondo
Che si librano sopra
I capelli delle alghe
Come uccelli lenti
Come uccelli azzurri
Perché vivo
Perché è bello.

*L’articolo è stato pubblicato nel settembre del 2006 sulla rivista letteraria on line Musicaos.it

Fontane

 

Forestiero sorpreso dalla fontana chiusa sulla Passeggiata di Otranto

Di Andrea Aufieri. Se l’incanto non è acqua: del triste destino delle fontanelle nelle marine del Salento.

Dello Ionio ho già detto. Ma l’Adriatico è più vicino al mio modo d’intendere una sortita balneare: per uno strano fenomeno fisico è più facile trovare l’ombra, e quasi sempre un vento tenue accarezza la testa, e il sole non ha bisogno di fare il dittatore, finito il turno delle diciotto può farti godere anche in un pomeriggio di afa mozzafiato. Lascio volentieri il desiderio di farsi frustare dopo quell’orario ai pervertiti dello Ionio.

Sempre grazie all’intenso week-end dei coinquilini ho rivisitato posti incantevoli, veri e propri scorci artistici come Roca Vecchia, frazione di Melendugno che precede d’un soffio l’inflazionatissima Torre dell’Orso, e che quest’anno è poco frequentata anche ad agosto, un po’ per la crisi, ma, credo, soprattutto per una questione di moda.

E poi la magia di Otranto: Luna Otrantina, non a caso, è una delle canzoni della tradizione più affascinanti e dense di significato, il cui testo è stato partorito dalla mente di Rina Durante.  Tra i teschi degli ottocento martiri e i vicoli in cui sembra ancora di inseguire Idrusa, rischiando uno schiaffo per l’insolenza, e l’ardere delle carni dalla pianta dei piedi fino alla testa fondente. Emozioni che necessiterebbero di essere bevute alla sorgente. E in effetti la sete viene sia a Roca che a Otranto, e anche la necessità di lavare via il sale dalla pelle.

E così si parte alla ricerca di una fontana, che in entrambi i posti troviamo, insieme a una brutta sorpresa. Le fontane sono chiuse. Ed è facile fare due più due se vicino a quelle fontane ci sono bar e chioschi pronti a vendere una bottiglietta del prezioso liquido incolore a peso d’oro.

Persino nelle piccole cose, non solo nelle leggi, il trasporto popolare che ha portato al referendum per la ripubblicizzazione dei servizi idrici è stato tradito:” gusteremo acqua libera!” era uno degli slogan, e lo vedi tradito nella quotidianità. Una piccola cosa, una cosa pessima.

 

*Si ringraziano Marco e Nicola, il primo per essersi reso ridicolo al mondo, il secondo per averlo reso possibile. 🙂

Guerrieri

 


Chissà quanto ancora avrei dovuto aspettare prima di rivedere le cosiddette “Maldive del Salento”, ovvero quel filotto altamente spettacolare di territori che precede immediatamente il finibus terrae leucano. Per fortuna i coinquilini baresi si sono concessi un week-end salentino, e con loro ho rivisto posti bellissimi. Tra questi, Posto Vecchio, Marina di Pescoluse, Torre Vado: la bellezza estasiante racchiusa in un fazzoletto di spiaggia e di scogli bassi.

Sullo Ionio il sole domina l’estate molto più che sull’Adriatico: è un martello continuo sparato negli occhi fino a sera.  Ovvio che senza un minimo di ombra e di vento non ce l’avrei fatta e così, con il solo conforto di un ombrellone andavo ripetutamente a bagnarmi e a esplorare la lunga distesa d’acqua cristallina e accecante.

Ma più delle bellezze naturali mi ha colpito la varietà umana. E così mi trovo a osservare, tra gli altri, un omino corpulento che va a spasso con il nipotino. È anziano, ha un tic che lo porta ad allargare il sorriso spiritato sporgendo la dentiera in avanti.I capelli brizzolati tirati indietro gli scendono fin sulle spalle, e proprio sulla spalla destra troneggia il tatuaggio del volto del “Che”.

Mi chiedo cosa spinga un settantenne a tatuarsi il volto di Ernesto Guevara sulla spalla, dopodiché mi prende la tristezza: dagli anni sessanta che lo hanno iconizzato è passato mezzo secolo. Un nostalgico lui, penso, un giovane vecchio io, pensiero di terrore fulmineo che mi gela più dell’acqua. Dovrei bardarmi con una kefiah e nascondermi in fondo al mare.

Dopo un attimo di horror vacui mi ricordo che Maradona ha un tatuaggio simile, sempre sulla spalla: Sarà un tifoso del Napoli- penso. E intanto ascolto: sì, l’accento è campano.  Faccio un giro nuotando sul dorso intorno alla figurina e poi attacco bottone.

«Come, non lo sai? È stato un grande guerriero, come me nella vita, che ho sempre lottato per tutto: il lavoro, l’amore, la famiglia. Le ideologie non c’entrano niente, quelle muoino: è l’esempio delle persone che resta, quello che fanno, non quello che dicono o pensano».

Mi butto ancora in acqua: la lucentezza di un racconto dentro a un racconto. Quanta profondità per essere l’otto luglio…

E dàje!

 

 

Dai primi giorni di marzo questa è l’esclamazione di cui ho più abusato.
Agire scandire i ritmi stordirsi l’inconscio come neanche  Hunter S.Thompson in uno qualsiasi dei suoi reportage. ma senza lo stesso talento. o forse no, dàje, che la depressione dipende da come la vedi in questa storia.

E dàje, come la vedi?

Tra certi profumi passati, alcuni nuovi olezzi, le lanugini in penombra e colombi poco pasquali.
Il nuovo che avanza, mai il nuovismo. Fragilità che rischiano di saltare nella lentezza dell’elevatore.
E allora il sorriso che diviene routine.

E dàje!

A ‘sta tesi che non si moriva (muoriti tesi, dàje!), al corpo immobile per il piede infermo, al silenzio astioso di ogni cosa. Al capolinea multimediale del pc, alla linea d’orizzonte sfocata.

Sfòrzati, sii buono mondo, e dàje!

E ai download, ai manuali umani per le lavatrici, le lampade saputelle.
I peli, qui ne è pieno.
Poi rifletti, con una canzone imposta, se è vero che bisogna esser convinti che tutto sia marcio per essere gaudenti. La porta della depressione dipende dalla risposta a questa domanda.

Ma l’autobus, intanto, non passa, Čechov gioca alla frocia isterica dalle sue letture pre-Sachalin e intanto i tuoni, quelli, hanno sempre ragione.

E dàje!

En disséquant ton coeur, madame Bovary, au bout de la nuit
Prendi e fuggi, se no muto.

Sì, muto, e dàje!
Che l’acqua non bolle il gas è lento e lei annega, inesorabile negli abissi del cuore, prima ancora che la cenere tocchi il pavimento e il suo impercettibile impatto vada a titillare il Caos sovrano.

Muoversi, muoversi, muoversi. Da fermi, le sudate carte…

 

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