Julielle, o del dualismo della creatività

Giulia Migliore, in arte Julielle, leccese classe 1994, sta compiendo un viaggio artistico e personale di grande profondità ed è bene restare aggiornati. L’ha capito la BMG, che l’ha voluta come autrice nel suo team.

Quando Salento Review sarà in edicola, sarà uscito anche il nuovo singolo, Double hour, possibile manifesto del dualismo che anima la sua creatività. Un lavoro perfezionato durante il lockdown, tra le sessioni alla tastiera e le sedute di reiki, la pratica giapponese della sintesi delle dualità: «Il periodo di quarantena non è stato un meteorite, per le mie abitudini. Mi preoccupava di più il lato artistico, perché avevo paura di non riuscire a scrivere nulla. Invece in poche settimane ho abbozzato il nuovo lavoro, che sarà un altro ep, o forse proprio un album intero, che comprenderà anche i brani di (a)Cross. E Double hour si può definire tutto un mio trip sulla “doppia ora”,  quando le lancette si sfiorano per una volta ogni sessanta minuti, ma non si toccano. È la prima canzone che ho scritto pensando a qualcuno. Forse vuol dire questo scendere a patti con sé stessi e capire che le parole, dopotutto, possono essere reali, come le persone a cui vorresti dirle (forse)».  

(a)Cross è stato prodotto da La Rivolta Records di Paolo Del Vitto. Un incontro avvenuto «per caso, non sono mai stata brava a promuovere me stessa. Non sono molto eccentrica, non sono mai stata la bambina che cantava usando la spazzola e saltellando allo specchio. La mia voce ha lottato contro di me per uscire. Da quando ho conosciuto Rivolta è diventato tutto reale, la mia vita è cambiata, mi ha dato la libertà di poter pensare alla musica come un lavoro. Mi ha aiutato a capire cosa significa avere dedizione e obiettivi. Non è facile lavorare con me, ho un caratteraccio, ed è bello avere qualcuno su cui contare sempre».

Già, l’amore per la musica: «Da piccola sentivo l’esigenza di suonare e quando avevo 8 anni ho cominciato a prendere lezioni.  Adesso, quando scrivo e compongo, lo faccio senza una vera coscienza, so che devo mettere “rec” sullo smartphone, vado alla tastiera e viene fuori un brano. Quando mi convince posso passarlo a Lorenzo Nadalini (GodBlessComputers), che produce le canzoni sorprendendomi sempre per la pazienza, la professionalità, la genialità nei suoi tocchi minimal. E anche con gli Inude proseguiremo la collaborazione perché sono persone adorabili e artisti notevoli».

C’erano i rave clandestini degli anni duemiladieci tra Lecce e Bari – «le nostre Woodstock»  – e ci sono gli ascolti che la emozionano: «Soprattutto Christian Lӧffler, della scena elettronica tedesca, perché tutto quello che compone si congiunge perfettamente ad ogni mio stato emotivo. Nella scena italiana ho scoperto di recente Vipra (Giovanni Cerrati) ex voce dei Sxrrxwland. Grazie a lui, per la prima volta, non ho fatto alcuna fatica ad ascoltare e ad amare un genere che prima non consideravo molto. Se Lӧffler riesce a descrivere la mia emotività, Vipra dà voce alle mie giornate con semplicità, naturalezza e dolcezza nell’uso dell’italiano come nessuno ha mai fatto».

In (a)Cross tutto si traduce in una specie di nuvola lisergica elettropop, onirica ed eterea. Julielle descrive l’intero lavoro come un’esperienza di sacralità laica: «Non sono credente, ma sono molto affascinata dal e da ciò che è sacro, in particolare nel cristianesimo, dove convivono spiritualità e carnalità. Il senso dell’ep e della mia esperienza finora è che la musica sia croce e delizia. Posso dire che essa mi attraversa, ma non mi appartiene. È quello che Jacques Lacan ha espresso in uno dei più bei concetti al mondo, definendo la parola “jouissance”, che potremmo tradurre con “godimento”. Secondo questo concetto, chi può dirsi davvero padrone del proprio corpo e delle proprie emozioni? Un altro concetto per cui ho scelto di chiamare (a)Cross questo lavoro è perché sono legata, in senso laico, al simbolo della croce».

(a)Cross è un ciclo che va dal senso di vittoria a quello di resa, non senza speranza. Julielle lo racconta così: «In (a)Cross, ogni traccia ha i suoi colori e le sue immagini. Toys è stata tradotta da una poesia che dedicai ai miei genitori, è il mio canto di liberazione dopo una lotta con me stessa, cantando “I shot the sheriff, he stole my toys” io sono sia lo sceriffo che la bambina con i suoi giocattoli. Voices credo sia la più straziante,  ma vale lo stesso senso di lotta con la mia parte più autodistruttiva. Ether è una ninnananna, l’ho scritta quando una mia amica mi disse di aspettare un figlio. Mi sono chiesta cosa potessi dire a un bambino per dargli il benvenuto in questo mondo così arido, complesso e cattivo. Ho risposto con l’immagine dei serpenti, di cui ho paura e che sono sempre stati presenti in tutto ciò che scrivo, “but look those eyes, they don’t look so bad” guarda quegli occhi, non sembrano, poi, così cattivi. Bisogna sempre cercare di vedere la bellezza nelle cose, anche nelle paure.  Survivors è un inno alla forza e alla fiducia. Aliens&Flowers per me è una fotografia di un letto al mattino, e la notte la fotografia è completamente diversa, “sing me to sleep tonight”e “I see flowers in your eyes, I see aliens in my bed” è la presenza assente e l’assenza presente di qualcuno che forse non ho mai amato, ancora. Mi piace scrivere le canzoni come lettere mai spedite a qualcuno che immagino solamente».

Tra (a)Cross e Double hour cos’è accaduto? «Ho collaborato come autrice con grandi professionisti, come Dani Faiv e Jake La Furia, insieme ad Andrea Simoniello (Kanesh), un mio caro amico, e ne sono molto felice, perché la scena rap italiana mi ha sempre appassionata. In uno dei miei momenti più intensi, l’apertura al concerto degli Editors e dei Cigarettes After Sex, al Medimex 2019 di Taranto, oltre all’adrenalina e alle endorfine che mi dà ogni concerto, credo di aver trasmesso la passione per quello che faccio anche ai miei parenti più cari. E ho capito soprattutto cosa non mi piace: dire no alle esperienze».

* Pubblicato su Salento Review, estate 2020

La geografia emotiva di chi ha scelto il Salento

I nuovi salentini è il titolo dell’ultimo libro della giornalista Giorgia Salicandro, edito da Tau per la collana Testimonianze e Esperienze delle Migrazioni, curata dalla Fondazione Migrantes.

Il testo raccoglie alcune delle più significative esperienze raccolte da Salicandro per Il Nuovo Quotidiano di Puglia, con l’aggiunta degli ultimi tre capitoli, inediti. Le esperienze raccontate raccolgono un arco temporale tra il 2016 e il 2019. Il lavoro trova più che degne firme di corredo: la presentazione di Giovanni De Robertis, direttore generale della Fondazione Migrantes, la prefazione di Leonardo Palmisano,scrittore e attivista, la postfazione della scrittrice Igiaba Scego.

Abbiamo parlato con l’autrice partendo da un concetto interessante che lei dichiara subito nella sua introduzione: «Io non ho mai voluto lasciare il Salento». Una dichiarazione di attaccamento e di amore che sta alla base della curiosità e della volontà d’indagare i perché dei “nuovi” salentini, cioè di tutte le persone che scelgono di vivere nell’estremo lembo di a Sudest d’Italia, tra integrazione e idee di futuro. Un dialogo dal quale potremmo uscire tutti più ricchi.

Giorgia Salicandro con la copertina del suo libro I nuovi salentini

Se dovessi descrivere un’istantanea del Salento riguardo il livello di multiculturalismo, quali concetti useresti? Quali credi che siano i punti di forza del territorio nell’aver “acquisito” questi nuovi cittadini? E quali le criticità?

«Non sono brava con i concetti, per questa “istantanea” vorrei partire piuttosto da tre luoghi a mio avviso rappresentativi. Il primo è contrada Spigolizzi a Salve, nel Capo di Leuca. Qui negli anni Settanta approdarono Norman Mommens e Patience Gray, artista fiammingo lui, scrittrice inglese lei, i quali fecero di una masseria abbandonata una casa d’arte e di cultura che aprì questo periferico lembo di terra a un circuito da tutta Europa. Un luogo esemplare dell’apporto dato al Salento dalla piccola ma significativa comunità di artisti e intellettuali che ha saputo riconoscere la poesia lenta del territorio prima degli stessi salentini, contribuendo a rilanciare l’immagine delle masserie e dei centri storici. Il secondo luogo è un campo di angurie nelle campagne di Nardò, con centinaia di lavoratori provenienti dall’Africa, giovani, giovanissimi e meno giovani, schiene spezzate e, spesso, un giaciglio sporco e inadeguato a ristorare la stanchezza. Questi lavoratori sostengono ogni giorno una parte non marginale della nostra economia, e tuttavia qui come altrove non hanno diritti né visibilità, vivono segregati ai margini della società e non sono messi nelle condizioni di poter arricchire il territorio con la loro esperienza culturale oltre che le loro braccia. L’ultima immagine allarga l’inquadratura a paesi e cittadine, si eleva su case, negozi, scuole come captata da un drone in volo: vediamo domestici, macellai, insegnanti madrelingua, ristoratori, la moltitudine dei nuovi salentini “di mezzo”. Il loro contributo è evidente, anche se spesso è proprio questa la categoria meno rappresentata, perché si tende a privilegiare ciò che “fa notizia”, il vip straniero di turno o i drammi più cupi».

Al di là del Salento del sole, del mare, del turismo e delle masserie, ci sono maree di lavoratori invisibili: cosa si può fare per accendere un faro sulle loro condizioni di vita?

«Ci sono diversi livelli di discorso. Uno è politico: da cittadini, pretendere leggi e pratiche che tutelino i lavoratori più vulnerabili, tenendo anche a mente che il misconoscimento dei diritti di ogni minoranza significa, alla lunga, un arretramento dei diritti di tutti. Con le misure per l’emersione dal lavoro nero e la regolarizzazione dei migranti contenute nel decreto Rilancio io trovo che non si sia fatto un grande passo avanti nei confronti dei lavoratori. È stata prorogata la scadenza del permesso di soggiorno di sei mesi: il tempo necessario per la raccolta. Sì certo è qualcosa, è decisamente meglio di niente, ma non credo affatto sia abbastanza. Più che la loro dignità, mi sembra che l’oggetto sia la nostra convenienza. Oltre alla politica, c’è poi una dimensione fondamentale che non dovremmo dimenticare, e lo dico senza retorica: è quella informale, delle relazioni umane, delle relazioni “di vicinato”. È successo con gli albanesi negli anni Novanta: quando abbiamo avuto voglia di chiedere a chi veniva dal mare il suo nome e cognome, di raccontarci la sua storia, si sono strette solide amicizie e rapporti virtuosi di crescita umana, sociale, anche economica».

Com’è stato conoscere il popolo di lavoratori notturni che anima la vita del Salento? E che cosa, invece, ti ha colpito di più in questo lavoro di conoscenza di un aspetto del tessuto sociale di questo territorio?

«I lavoratori della notte sono le “Giovanna D’Arco” del sistema. Pensiamo ai market notturni, pensiamo alle assistenti agli anziani, soprattutto donne, madri che hanno lasciato le proprie famiglie in patria, e che spesso dopo anni di lavoro sfiancante sviluppano la tipica forma di depressione chiamata appunto “sindrome Italia” o “sindrome della badante”. Una delle mie interlocutrici mi ha raccontato la sua vita quotidiana alle prese con questi nonnini salentini che i figli vedevano solo per le feste, e dei suoi due figli diventati adulti da soli. Alla fine della nostra intervista mi ha detto “spero tanto che da vecchia i miei ragazzi si prenderanno cura di me”, e il suo volto era carico di domande, di conti aperti con la vita. Parlando della notte, a volte si cade nell’errore di richiamare il degrado, la prostituzione in schiavitù, lo spaccio come prime e uniche immagini. Ma questi drammi sono del tutto parziali rispetto all’interezza del tessuto sociale e produttivo a cui ci riferiamo. I lavoratori della notte con cui sono entrata a contatto io sono persone comuni, spesso mamme e papà di famiglia, che lavorano sodo, e che io davvero ammiro molto. Un piccolo universo fatto anche di storie ed esperienze divertenti, di ballerini professionisti che illuminano le discoteche con i loro passi provenienti dal mondo, di gestori di chioschi che con i clienti scherzano in un dialetto filologicamente ineccepibile».

Trovi ci siano differenze nel livello di entusiasmo e appagamento dei “nuovi “ salentini più giovani rispetto ai “nuovi” che vengono qui in età avanzata? E in generale quale credi che sia, se c’è, un punto da mettere in risalto, se non è quello dell’età?

«In realtà, l’età anagrafica è quasi sempre collegata al luogo di provenienza, e questo a sua volta alle motivazioni del viaggio. I “nuovi” che arrivano qui in età matura di solito sono partiti dai Paesi del Nord Europa o del Nord America, sono artisti, designer, stilisti, imprenditori che possono permettersi di scegliere il proprio luogo di lavoro, e il Salento è per loro un’oasi di ispirazione. Oppure sono pensionati che qui trovano il loro “buen retiro”: facoltosi, benestanti, ma anche comuni ex professionisti che nelle loro metropoli sarebbero strozzati dagli affitti e qui godono di un costo della vita molto più basso. È questa la grande differenza con i giovani, che arrivano in cerca di lavoro e provengono molto spesso da Paesi economicamente più svantaggiati – a parte alcune categorie di professionisti, come gli esperti linguistici. Chiaramente, per gli “anziani” il Salento è un paradiso esotico, anche se non mancano intellettuali e attivisti che ne sottolineano le criticità, ne difendono il paesaggio con lo spirito partecipe dei “cittadini adottivi”. Per i giovani il quadro è più variegato ed è difficile sintetizzarne il punto di vista, che andrebbe rintracciato piuttosto nelle singole esperienze».

Che idea ti sei fatta dei fedeli musulmani presenti sul territorio? Credi ci siano punti di dialogo e cooperazione per migliorare la convivenza sociale?

«In questo momento nel Salento abbiamo la fortuna – tutti, musulmani e non – di avere come imam della comunità islamica di Lecce Saifeddine Maaroufi, medico, mediatore interculturale, un uomo colto e illuminato che ha dato un grande impulso al dialogo e alla convivenza pacifica tra le persone. È sua, ad esempio, l’idea della prima Giornata del dialogo interreligioso, a cui hanno aderito anche i rappresentanti delle altre religioni. Ma quest’opera di integrazione è rivolta anche agli stessi fedeli dell’Islam. Nella Moschea di via Tempesta, per fare un esempio, la funzione del venerdì è sempre condotta in italiano – a parte la recitazione dei passi sacri – la “lingua franca” dei fedeli che arrivano dal Senegal così come dal Pakistan, dal Nord Africa o dai Balcani. Una lingua “trasparente” per tutti, italiani compresi. Io stessa, nel condurre le mie ricerche per questo libro, non ho mai trovato una porta chiusa, e quando sono entrata nella Moschea sono stata accolta con garbo dalle signore che pregavano nella saletta riservata alle donne. Vedendomi un po’ impacciata mi hanno anche suggerito, affettuosamente, i gesti da compiere durante la funzione. Tuttavia credo che un clima di serenità, anche religiosa, non dipenda solo da ciò che accade in una moschea, quanto dal grado di benessere diffuso in una comunità, e dalla percezione di avere una possibilità. Ecco, penso che in generale nel Salento questo clima ci sia, vuoi perché i numeri di chi si stabilisce qui non sono quelli difficili di Roma o Milano, vuoi perché i salentini sono persone accoglienti e calde e non sono mai state ottusamente chiuse agli altri».

Il cinema occidentale ai tempi del sovranismo psichico

Due film distribuiti in Italia nel 2018 che dicono qualcosa all’Occidente nell’epoca del sovranismo psichico

Nel corso del 2018 sono stati distribuiti in Italia due film che raccontano con grande maestria e quasi senza retorica il collo di bottiglia in cui si è infilato l’Occidente, fregandosene degli aspetti economici del business cinematografico, o quanto meno trovando una quadra convincente, per sfociare nell’arte pura.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri racconta del brutale stupro e assassino della figlia della protagonista Mildred – episodio che incredibilmente non vedremo mai, nonostante si tratti di un film statunitense – e delle conseguenze gravissime che la ricerca della giustizia a tutti i costi rischia di generare.

L’ottima sceneggiatura, sostenuta poi da un’attenta regia e dalla bravura degli attori permette al film di affrontare diversi generi, dal poliziesco al thriller psicologico, alla commedia romantica o a quella nera, per decantare poi sul vero punto della questione: se le radici della nostra storia affondano nella violenza, non dobbiamo dimenticare l’altro lato della medaglia, quello della ragione.

Proprio perché si sono resi conto di essere “umani”, i pensatori occidentali hanno potenziato il valore di questa umanità, qualcuno anche al punto di immaginarsi un unico dio e di venerarlo come altro da sé.

Raccogliendo l’ideale testimone di Francis Ford Coppola con Apocalypse Now, nel 2016 Martin Scorsese aveva affrontato la stessa questione con la piccola perla Silence, uno dei suoi film meno piaciuti al pubblico, forse, ma dotato di grande intensità, dove però l’impianto retorico non permette al film di dirsi riuscito del tutto.

Come rendere questi contenuti sopportabili allo spettatore medio? Scrivendo battute ironiche se non proprio sarcastiche. Memorabile, per esempio, la risposta di Mildred (Frances McDormand) a padre Montgomery (Nick Searcy) riguardo alle responsabilità collettive e oggettive della Chiesa sulla pedofilia. Un discorso così asciutto e obiettivo, giustificato da un vissuto pieno di dolore, da risultare quasi commovente nel contesto del mainstream.

O ancora la battuta che lo sceriffo Bill (Woody Harrelson) riferisce a un’attonita Mildred (che per altro ha appena subito un’intimidazione da parte del suo dentista) riguardo ai pensieri dei poliziotti sugli omosessuali e sui neri.
Tre_manifesti_a_Ebbing,_Missouri
Una risata ci salverà, dunque, anche in fondo alla disperazione più nera.

Ma c’è qualcos’altro che l’Occidente, e in particolare l’Europa, può apprendere guardando con intelligenza un altro film del 2018, dove ritroviamo Adam Driver, co-protagonista di Silence, questa volta interprete principale dell’atteso lavoro di Terry Gilliam.

L’uomo che uccise don Chisciotte arriva curiosamente nelle sale l’anno del quarantesimo anniversario della Legge Basaglia, fiore all’occhiello di un’Italia che sembrava una volta interpretare la nuova culla della civiltà europea.

La follia, l’altro da sé, un tentativo di governare il caos lasciandosi comunque andare, sono i temi forti e coraggiosi di una pellicola dall’immediato impatto visivo, dove scenografie e fotografia la fanno da padrone.

Il tutto scricchiola un po’ sotto gli abbondanti simbolismi e sotto-argomenti rappresentati: il dogmatismo delle religioni; l’abuso della donna, ora in catene perché vista con disgusto, ora mero oggetto del desiderio; la codardia e il tradimento; l’inganno stesso dello sguardo senza una volontà di conoscere, di andare oltre e scostare il velo di Maja, per generare quella famosa stella danzante che Nietzsche ci ricorda ormai con biasimo, e che Jung ci ammonisce di indagare dentro di noi.

Per sapere che come uomini, anzitutto, e come civiltà, in secondo luogo, abbiamo argomenti per riconoscerci ancora umani e pieni di vita. Un colpo dritto al cuore dell’immaginario collettivo occidentale che uno Slavoj Žižek non avrebbe saputo fare meglio.

Attraverso la catarsi che leggiamo nel finale, capace di accogliere e non respingere il diverso, senza deriderlo come fanno gli stolti e i potenti – arroganti per definizione – ma assecondando l’alterità, ponendo l’ultima e definitiva domanda se costruire un mondo ideale, per imperfetto che sia e riempirlo di vita, o morire sotto regole disumane e routine che regalano gratificazioni effimere e senza significato.

Nell’epoca del “sovranismo psichico”, come lo ha definito Giuseppe De Rita nell’introduzione al Rapporto Censis di quest’anno, il pubblico italiano avrà colto o condiviso, anche solo inconsciamente, i significanti di ciascuna delle opere citate?

A ogni don Chisciotte che ancora esprimiamo da questa parte del mondo, l’augurio di agire sulla consapevolezza che ciascuno sia “colui per il quale sono espressamente riservati i pericoli”. I meravigliosi pericoli e le mirabolanti sfide dei nostri tempi.

*credits della foto in evidenza (L’uomo che uccise don Chisciotte);
credits foto nell’articolo (Tre manifesti a Ebbing, Missouri).

Biliardino, la svolta di Alessio Spataro

«Sono contento di tornare qui perché ho trovato grande ospitalità e mi sono trovato bene. Non so se una mia prossima storia parlerà della Puglia, ma di sicuro mi piacerà tornarci». Alessio Spataro abbraccia così i suoi stimatori pugliesi, apprestandosi a fare il tour di presentazione del suo Biliardino. Sarà a Taranto il 6 novembre, il 7 a Bari, l’8 a Lecce e il 9 a Foggia.

Biliardino (BAO Publishing) è il primo libro a fumetti che Alessio Spataro ha realizzato da solo. È un libro importante, che segna una svolta nel lavoro dell’autore classe 1977, catanese emigrato a Roma. Prima ci sono
stati sette libri satirici e alcuni albi a fumetti. Alcuni titoli: Zona del silenzio. Una storia di ordinaria violenza italiana (Minimum fax, 2009) sulla morte di Federico Aldrovandi, scritto a quattro mani con Checchino Antonini; Heil Beppe!1! (Altrinformazione, 2014) con Carlo Gubitosa e la trilogia La Ministronza (i primi due albi pubblicati nel 2009 e nel 2011 da Grrrzetic e il terzo nel 2012 da Pick a Book). Alessio ha collaborato dal 1999 con riviste satiriche e altre testate giornalistiche, come Cuore, Left, e Frigidaire, poi Bile, Mamma! e il Male di Vauro e Vincino.

Il libro è l’epopea di Alexandre Campos Ramírez (1919 – 2007), originario di Fisterra, in Galizia. Poeta, scrittore e (non) inventore del popolare gioco di calcio da tavolo, il biliardino. Ramírez ha avuto una storia rocambolesca e oscura, intessuta di persecuzioni sotto il regime franchista e di amicizie importanti come quella con Pablo Neruda e Albert Camus. Ha cambiato molti nomi: per i nemici era Alejàndro Finisterre. Nel 1936 è ferito alla gamba durante il bombardamento di Madrid. Trasferito a Montserrat, in Catalogna, prende spunto dal tennis da tavolo per realizzare un gioco che permetta ai bambini storpi e mutilati dalla guerra di emozionarsi ancora al gioco del calcio.

Alessio Spataro
Alessio Spataro

La vera nascita del biliardino e delle sue innumerevoli varianti è incerta e contesa almeno da quattro nazioni europee: Inghilterra, Francia, Germania e Spagna. Spataro sceglie quest’ultima perché è il luogo «più distante da facili tifoserie nazionaliste». Il libro è avvincente, domina il grottesco, è colorato in rosso e in blu come le divise dei giocatori di legno; i capitoli riprendono diverse situazioni tipiche del gioco; la trama è lineare fino a un certo punto, poi diviene cubista e astratta, lasciando aperto il finale.

Alessio Spataro prova a guidarci nel suo capolavoro:

«Quando è morto de Fisterra (un altro dei nomi con i quali era conosciuto Ramírez – ndr), sono stato attratto dalla sua vita. Che però è piena di lacune e di zone d’ombra. Esiste anche una biografia che non ha mai visto la luce. Sullo sfondo, molti e lunghi esili che fanno della vita del personaggio uno dei tre protagonisti del libro, oltre alla storia del gioco e a quella del Novecento. Il finale, dunque è interpretabile e aperto perché i tre protagonisti non sono esauriti, non finiscono davvero. Abbiamo detto della biografia del personaggio, possiamo dire lo stesso del gioco e di tutte le dinamiche messe in moto dagli eventi del secolo scorso».

La prospettiva storica è alla base della scelta narrativa di Spataro, che solo in apparenza ha abbandonato l’impegno civile assunto con i suoi lavori di satira: «Nel Novecento si sono messe in moto molte cose belle, ma anche e, per me, soprattutto quello che odio e che mi fanno paura. E che oggi vedo ritornare a proporsi: l’impunità ai fascisti e l’indifferenza nei confronti delle stragi politiche, per esempio».

La cattiveria sottile di alcuni ritratti, e in fondo una ricerca del sorriso beffardo con lo stile grottesco sono evidenti nel libro come lo erano in molti lavori precedenti. Ci sono una rabbia minore o modulata e una maggiore volontà di racconto: «Meno rabbia, per forza, perché guerre e persecuzioni non le ho vissute da contemporaneo e le ho dovute rendere con uno studio e una documentazione approfondite.  Provengo da una grossa produzione satirica e il tratto cattivo e il cinismo si ritrovano nelle fattezze esteriori che ho voluto rappresentare. Non ho disegnato, però, curandomi troppo  delle esigenze del lettore, ma cercando di esprimere ciò che ho dentro e che questa storia mi ha stimolato. Certo, mettendomi nei panni del lettore trovo sicuramente divertenti molte cose».

IL BILIARDINO p12
La metafora del biliardino, già usata in precedenza, ha un significato preciso, intuibile nel prologo di questo libro: «C’è già il biliardino come passione in alcuni miei fumetti. In Zona del silenzio ha la funzione di uno stimolo ad andare avanti, a cercare la verità. Questo gioco è un po’ una metafora della mia vita, non sono mai stato molto bravo, vincere resta un mistero. Spesso ho perso anche nei tornei di presentazione del libro. Infatti all’inizio avevo pensato di regalare un libro a chi mi batteva, poi sono sceso solo a uno per presentazione. Poi non sempre!».

Con Biliardino perdiamo un satiro potente, in un’epoca che sembra fatta apposta per la satira, e acquistiamo un narratore attento ai particolari? È un addio all’impegno politico? «Biliardino è una pausa, perché mi sono stufato di rimestare nella spazzatura di partiti razzisti e filonazisti. Ma non è una vera e propria pausa. Nel libro si legge un: “Meno male che Franco c’è!”. Di sicuro oggi la satira viene più facile che in passato, nessuno si sottrae perché abbiamo i politici più ridicoli e vergognosi di sempre.  Non ho visto mai tanta ipocrisia e mai così diffusa».

Se non avesse scritto Heil, Beppe!1! si intravedrebbe un accenno di grillismo nelle sue parole: «Io sono un comunista convinto, non sono un militante o un attivista, anche se aiuto molto i centri sociali. Rifiuto le categorie attuali di sinistra, destra e centro, non in favore del qualunquismo, ma perché credo non siano ben definite. E trovo i tradimenti delle promesse elettorali della sinistra molto peggio di quelle degli avversari politici. Sono più critico e cattivo con i “miei”».

«Al momento – dice – non lavoro su altri grandi progetti, ma su tre o quattro storie che ho da tempo nel cassetto e che sento di fare uscire come Biliardino. Certo, potrebbero non essere importanti come questo, che per me è stato un vero punto di svolta narrativo, ci tengo molto».

Roma sembra essere un’isola felice per la fortuna dei fumettisti, in questo momento.  Cerco di far concludere l’intervista con una cattiveria gratuita o almeno uno sfottò per Zerocalcare e Natangelo, ma resto spiazzato: «Non c’è rivalità tra noi, ma stima reciproca, credo. Di recente Nat ha anche preso le mie parti per gli attacchi che ho ricevuto dal Movimento 5 Stelle e domenica 1 novembre abbiamo fatto una presentazione insieme al Lucca Comics. Tra i tre, però, io sono quello che viene perculato di più, sempre e soprattutto da Nat, perché purtroppo sono goloso di Kinder Cereali come il suo leggendario personaggio, Dibla. Comunque, per quanto possiamo frequentarci e prenderci in giro a vicenda,  non raggiungeremo mai il livello di ispirazione che ci forniscono  le nostre muse esterne, i bersagli della nostra satira».

Il caso Moro, una retrospettiva dal Bifest 2014

La proiezione del film di Ferrara, avvenuta nel contesto del Bifest 2014, era gratuita e giustificata nel contesto della retrospettiva su Gian Maria Volonté. Basta questo a spiegare la sala piena nel primo pomeriggio al Multisala Galleria di Bari?

Nel 1986, Il caso Moro incassò 60 milioni di lire nei primi tre giorni di proiezione. Alla fine dell’anno si piazzò al trentaduesimo posto nella classifica degli incassi. Per intenderci, quello era l’anno de Il nome della Rosa, Platoon, Top Gun, Highlander, Mr. Crocodile Dundee, Il colore dei soldi, ma anche di Yuppies 2, Sette chili in sette giorni e Ultimo tango a Parigi. E Ferrara aveva competitor nella stessa cerchia degli addetti ai lavori engagé: La famiglia di Ettore Scola si piazzò al 15esimo posto, Cronaca di una morte annunciata di Franco Rosi, ancora con Gian Maria Volonté al 29esimo e Il camorrista di Tornatore al 58esimo. Il lavoro del regista sopravanzò cult come Radio Days di Woody Allen, Morning After di Sidney Lumet e anche Alien- Scontro finale di James Cameron.

Il pubblico premiò il coraggio del regista, che fu il primo a realizzare un lungometraggio sui 55 giorni che passarono tra il rapimento dello statista Aldo Moro– avvenuto in via Fani a Roma il 16 marzo 1978–  e il ritrovamento del suo corpo in via Caetani il 9 maggio.Com’è noto via Caetani è a metà strada tra via delle Botteghe Oscure, dove si trovava la sede del Pci, e Piazza del Gesù, dov’era la sede della Dc. A differenza del lavoro dei registi successivi, il film usa una luce fredda, che contribuisce a rendere l’idea di un clima rigido nella politica e nella società. E che, soprattutto, riflette la volontà del regista di attenersi scrupolosamente ai materiali delle inchieste giudiziarie fino a quel momento disponibili.

Non si parla di P2, non si parla di banda della Magliana – ancora attiva nell’86– soprattutto non si parla delle connivenze dei servizi segreti. Sono però ben chiare le dinamiche della «politica della fermezza» e del contesto della società italiana, nella quale le Brigate rosse sembrano piuttosto esecutori materiali di un volere più forte. Quello degli americani nello specifico, che avevano il tramite di Giulio Andreotti, l’«intoccabile», come lo stesso Ferrara lo ha definito nelle numerose interviste che ha rilasciato riguardo alla sua opera. Nessun italiano senziente può dimenticare dov’era e cosa stava facendo quando è stato ritrovato il corpo di Moro. L’immaginario collettivo italiano, la cui coscienza voleva essere interpretata da una classe dirigente «pura» come la Democrazia cristiana voleva vendersi, colpito al cuore perse del tutto la sua innocenza, resettata con la Costituzione del 1948. Come nel libro «I giorni dell’ira. Il caso Moro senza censure» di Robert Katz, co-autore della sceneggiatura, non è solo Andreotti ad essere accusato, ma attraverso le lettere di Moro dal carcere del Popolo è tutto il suo partito a macchiarsi del suo sangue: Cossiga, Zaccagnini, Fanfani su tutti. E poi c’è la scelta di Enrico Berlinguer di aderire alla fermezza dei democristiani, per le ragioni contrarie a quelle degli americani: per non sabotare, cioè, quel «compromesso storico» che con molta fatica e altrettanta pazienza aveva costruito proprio con lo statista salentino. La scelta del leader Pci accelererà la caduta del suo partito -per Ferrara anche al vita del politico- in favore del Psi di Craxi, unico a opporsi alla rigidità dei suoi colleghi in parlamento, e a cui di lì a poco i poteri forti consegneranno le chiavi della transizione.

Affinché i giochi possano compiersi è necessario eliminare la «pietra d’inciampo», come Eleonora Moro definì suo marito in un processo, prima a notare che dall’auto dov’era stato prelevato il marito era stata successivamente rimossa una valigia di documenti (il sangue degli uomini della scorta aveva avuto il tempo di rapprendersi intorno a un oggetto rettangolare).

Nel film non si trascurano dettagli come quello appena citato, poi l’intensità del volto di Moro/Volonté e gli scambi con i suoi carcerieri fanno il resto fino al suo assassinio, reso con crudezza in tutto il suo squallore.

Ci sono due scelte narrative che non corrispondono alla realtà storica. Anzitutto l’assalto dei brigatisti alla scorta- la scena più dinamica e purtroppo più debole del film- è effettuato senza passamontagna, come invece accade nella realtà. Della dinamicità e delle fasi concitate dell’azione, nonché della sua preparazione rimane ben poco: tutto è coperto da un modo grottesco di rappresentare la morte, con i corpi che ballano in maniera molto vicina al ridicolo. Peccato.

Il secondo stratagemma narrativo è la visita di don Stefani, prete molto vicino alla famiglia Moro, al covo di via Gradoli. L’incontro, frutto di fantasia, è un artificio che introduce l’approccio a dir poco molle di papa Paolo VI alla vicenda. È anche un artificio che serve a raccontare retroscena e ipotesi collegabili alla vicenda, che fanno luce sulle vicende dello Ior e sugli interessi di Stati Uniti e Germania sulle politiche italiane, dal petrolio all’anticomunismo. L’impatto emotivo di questa scena è paragonabile a quello visto e apprezzato ne Il Divo di Paolo Sorrentino, allorquando il protagonista Giulio Andreotti/Toni Servillo fa un lungo monologo sull’uso del potere e delle sue responsabilità nella strategia della tensione: pensieri, parole, opere e omissioni a lui riconducibili. Monologo innescato tra l’altro proprio dalle parole contenute nelle lettere di Moro da via Gradoli, tese a squalificare la cupezza e i disegni reazionari del divo.

La prova d’attore di Gian Maria Volonté è eccelsa e gli valse l’Orso d’oro a Berlino. L’intensità del volto, il tormento e il dolore fisico e spirituale accompagnano un uomo valutato da principio soltanto come portatore di una carica istituzionale («Presidente», lo chiamano i suoi carcerieri, spiegando di non essere interessati a colpire l’involucro borghese, in altre parole la relazione di affetti che ne faceva anche un padre, un marito e in generale un uomo stimato) e pian piano portato alla sua destituzione e annullamento. Pur sapendo com’è finita, gli spettatori sperano con lui che qualcuno possa ascoltare i colpi sul soffitto, o che qualcuno si ravveda con le sue parole, e infine è difficile trattenere l’emozione riascoltando la sua lettera di commiato. La lettera non viene piazzata al termine del film come in molti hanno fatto, perché c’è lo smascheramento dei progetti dei brigatisti da affrontare, e infine il suo corpo esanime e straziato nell’auto in via Caetani.

Volonté riprova a rappresentare Aldo Moro dopo l’esperienza di Todo Modo, nel 1976, per la regia di Elio Petri. In mezzo è successo di tutto. Prove dure per la vita privata di Gian Maria: nel ‘77 muore suicida in carcere il fratello Claudio e poco dopo lo stesso attore deve affrontare un tumore. Gli eventi del 1978 fanno apparire quanto meno azzardato l’esperimento di Petri, sciolgono di fatto l’intesa artistica tra i due e pongono una lunga cesura tra i film impegnati politicamente. Nel film del ‘76 Aldo Moro non è nominato, ma Volonté ne impersona i tratti in maniera impressionante, realizzando però una dura satira contro di lui. E il film per intero, come del resto l’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia da cui è tratto, è una lunga invettiva satirica e grottesca contro il sistema di potere messo in piedi dalla Dc. L’interpretazione umana e dolorosa del Moro di dieci anni dopo ha uno spessore differente. Forse più facile e diretto a un pubblico ampio. Le polemiche politiche però non si sono sgonfiate e la presenza di Ferrara e di Volonté sui canali del servizio pubblico è fortemente ostacolata. E ventotto anni dopo, a Bari, il pubblico dimostra ancora il suo affetto e la sua rabbia per quegli eventi.

Il corpo di Pennac incanta Bari

In un mondo dominato dal pressappochismo e dalla ridondanza, la chiarezza e la sensibilità potente della parola scritta e detta da Daniel Pennac suonano così confortanti da far gridare al miracolo. Un miracolo di umanità, senza dover stupire con effetti speciali o, per dirla con Raymond Carver, senza «trucchi da quattro soldi».

«Journal d’un corps» («Storia di un corpo») nella forma del romanzo edito in Italia da Feltrinelli nel 2012, ha avuto un grande successo, tanto da confermare la formula alchemica che permette ai grandi scrittori di soffiare dolcemente sul cuore dei lettori.

L’intimità, la tenerezza e la complicità raggiunte da Pennac con la sua ultima fatica si sono rivelate tali da permetterne una messa in scena convincente. Una sceneggiatura minimalista: uno scrittoio, uno schermo dai toni caldi,che riproduce la calligrafia dell’autore come su un vero diario, e lo stesso scrittore che dona ai suoi ammiratori la sua capacità di lettura, così tanto assaporata in opere come la serie di Benjamin Malaussène, che in Italia ha superato i cinque milioni di copie vendute.

In ossequio ai «diritti imprescrittibili di ogni lettore», che proprio lui ha enunciato nel suo «Come un romanzo», Pennac seleziona dal libro i momenti più «densi di energia», espressione che torna spesso nel «Journal», donando la potenza e la dolcezza della sua voce. Un incantesimo che ha tenuto in ostaggio per poco meno di due ore un Petruzzelli pieno, eccezionalmente, di giovani orecchie e di portatori sani di quello che Gianni Rodari, collega nostrano di Pennac, non meno illustre, definiva «orecchio acerbo». Un particolare anatomico che riesce a far restare un po’ bambino ogni adulto. E che ha permesso, per una sera, di assistere a una rigenerante e appunto confortante onda emotiva percepibile a occhio nudo, che ha attraversato l’emiciclo dello storico teatro tra tensione, lacrime di gioia e risate di gusto.

Aver già letto sulla pagina della scoperta di un corpo, e degli altri corpi che lo circondano come fossero un unico corpo, attraversato da gioia e dolore, ma sempre accettato con amore e curiosità per sé stesso e per gli altri, non restituisce l’esperienza di ascoltare la stessa avventura dalla voce del suo autore, e nel suo francese, per giunta, così limato e lavorato al punto da risultare naturale e diretto. Una freccia, scoccata dritta al cuore dello spettatore.

Cosa accade accettando l’invito a questo banchetto intimo? Lison, rientrata dal funerale del padre, riceve da lui un ultimo e singolare dono: il diario che ha deciso di tenere riguardo al suo corpo. E sulla storia dei corpi con cui è entrato in contatto, per le carezze, da bambino, con la tata Violette come per la passione con Mona, sua moglie, o per un semplice viaggio in autobus.

Descrivere cosa accade al corpo rende automatica l’onestà, non si può mentire: e così allo spettatore non si risparmia nulla, dalla prostatite alle flatulenze, passando per le polluzioni notturne. E alle sensazioni che scuotono la carne, come il piacere fisico, la bellezza della prima volta o presunta tale; il dolore per l’assenza ormai irrimediabile di corpi amati: il padre, la tata Violette, il nipote Grégoire.

Allo spettatore il banchetto è offerto tutto, fino in fondo, fino a quando, dal punto di vista del corpo, la morte si rivela nella sua drammatica semplicità: cessazione, assenza. Il diario s’interrompe, dopo essersi «regalato» anche la minuziosa annotazione dell’agonia, per poi semplicemente non essere più. O proseguire, forse, nel sangue e nel cuore di chi ha amato quel corpo come rappresentazione e frontiera dell’essere e dell’esistere per donare amore a una figlia.

Sei personaggi in cerca d’autore, adattamento tv Rai

Qual è il limite tra verità e rappresentazione? Cosa distingue dramma e commedia? Quali relazioni intercorrono tra autore, attori, personaggi e pubblico? Sono solo alcune delle domande che Luigi Pirandello si è posto nel realizzare uno dei capisaldi del teatro italiano contemporaneo, che ne hanno permesso in qualche modo la rifondazione. «Sei personaggi in cerca d’autore» è questo e molto altro. La sua prima messa in scena, al Teatro Valle di Roma nel maggio 1921, suscitò lo sdegno del pubblico borghese abituato alla distrazione e allo scherzo, quasi una riproposta della Commedia dell’arte. Già pochi mesi dopo, per la rappresentazione milanese, l’autore corresse il tiro provando a inserire alcune modifiche consigliate dai critici. Il vero successo arrivò all’estero, grazie all’interpretazione parigina del ’23 allestita da Georges Pitóeff. In quella occasione Pirandello accettò ulteriori modifiche proposte dalla compagnia che portò in scena il dramma.

Nel 1925, ancora per il pubblico italiano, l’autore di Agrigento decise di redigere una lunga introduzione al fine di spiegare il suo intento. Lo sforzo dell’autore non bastò ancora a far entrare la sua opera nell’immaginario collettivo, intento che riuscì però solo nel 1965 alla Compagnia dei giovani del duo De Lullo-Falk, che ne realizzò anche l’adattamento televisivo e riuscì a far diventare davvero popolare la forza dirompente dei personaggi-archetipi  proposti da Pirandello.

La regia di De Lullo resta piuttosto fedele alla versione del 1925, modificandone però il finale. Anche nella versione per la televisione si può ritrovare l’idea di Pirandello di rinnovare il teatro. Prima ancora che nei contenuti, l’idea programmatica si realizza nell’abbattimento della «quarta parete», spesso squarciata dal richiamo alla partecipazione emotiva del pubblico, che nel ’25 veniva distolto dall’intenzione di ridere e basta, chiamato a cogliere l’ironia dei «comici onorati», che realizzano qui un misto tra commedia bassa e tragedia classica comprensibile proprio dal pubblico borghese: la compagnia mette in scena, non a caso, «Il giuoco delle parti». L’adattamento televisivo ricorre allo stratagemma dello sguardo in camera da parte dei personaggi-attori, che vogliono toccare il cuore dei telespettatori invitandoli caldamente alla partecipazione emotiva. Lo stesso pubblico borghese riconosce negli elementi scenografici il proprio mondo (il tavolino di mogano, la busta cilestrina, i cappellini ricamati e i vestiti delle signore del bordello, ricamati però da chi quel mondo può solo osservarlo o ne resta ai margini, o ancora lo ignora) e soprattutto nell’istituto della famiglia, contraddistinto dal simbolo connotativo e denotativo dell’immaginario borghese: la casa. Luogo che non è già più simbolo della protezione e dello sviluppo della personalità quanto invece dello scadimento dello sbandierato rigore morale, fino a divenire prigione e luogo della tragedia.

A scapito delle modifiche introdotte e del sarcasmo sul teatro e sui critici, Pirandello cerca di stabilire un legame indissolubile tra l’opera (la sua creazione) e la sua rappresentazione. Ne sono testimoni le pesanti didascalie precettive presenti nella sceneggiatura del ’25, le quali escludono filtri e mediazioni. Eppure l’autore stesso ha raccolto i consigli di critici e attori; eppure l’autore stesso, nell’introduzione alla terza edizione, racconta l’artificio della servetta fantasia, che «immediatamente» gli sottopone un’intera famiglia, personaggi che rifiutano anch’essi la mediazione attoriale. Nel senso che l’attore deve spogliarsi del suo personaggio ed essere il personaggio richiesto dal dramma. Un dramma che a differenza della mutevolezza della vita resta eterno e immutabile. Solo questo può dare il senso della tragedia che costringe i personaggi a ripercorre ogni volta gli eventi, e sempre con la stessa intensità, aggravata ormai dalla consapevolezza degli eventi e delle colpe.

I personaggi in cera d’autore non hanno nome e presentano tanto un tratto classico quanto una visione personale dell’autore. Come nel racconto introduttivo, essi si presentano al direttore e agli attori di una commedia leggera esigendo di interpretare essi stessi la loro commedia, proponendo al direttore di diventare autore scrivendo la sceneggiatura del loro dramma. Si crea così un tira e molla tra i personaggi, gli attori e tutti coloro che hanno a che fare con il palcoscenico. A dare esempio del mistero, della magia e del «serio gioco» che avviene sul palcoscenico c’è l’apparizione del settimo personaggio, la proprietaria del bordello, Madama Pace (Elsa Albani): un fantasma che si materializza usando i mezzi propri della scena, che devono essere gli stessi concepiti dalla creazione. Ne nasce un personaggio che si materializza dalla specchiera e parla un misto tra italiano e spagnolo, sintesi del grottesco, di quel Sancho Panza e di quel don Abbondio resi immortali grazie alla potenza creativa dei loro autori che così ne hanno mediato l’esistenza nella mente e nel cuore dei lettori. Al Capocomico i personaggi chiedono appunto di compiersi come opera, di scrivere le pagine che potranno renderli immortali. Questa situazione è interrotta quasi accidentalmente dalla calata apparentemente inopportuna di un sipario. Il cambio di scena è rappresentato televisivamente con un’ellissi.

Personaggi e archetipi prendono ora la consistenza necessaria per lo svolgimento del dramma, convincendo sempre più il Capocomico, che in poco tempo abbozza una sceneggiatura.  L’archetipo della Madre è maschera della mater dolorosa; la Figliastra è perduta, la Bambina perde la vita e non arriva a compiersi come donna. I personaggi femminili pirandelliani, se perdono l’innocenza sono istinto, sono ferini oppure sono madri: sono sempre strumenti di perdizione e inganno. All’opposto di questa visione c’è l’uomo, qui rappresentato dal Padre: la pura ragione che, spinta da «esperimenti» e «moralità» procede inesorabile verso la tragedia. Il Bambino non parla, comunica solo con uno sguardo sempre più disperato. Lo sguardo è un altro elemento della poetica pirandelliana: l’occhio, lo strumento che dovrebbe rendere la realtà, rende al personaggio una realtà deformata, individuale. È il caso del Padre che decide di osservare dall’esterno la nuova vita della moglie, che per esperimento ha fatto allontanare da sé, incoraggiandola a frequentare il suo segretario, poi morto, che la lascia con tre figli. È il caso del Bambino, uno dei tre figli che la moglie ha avuto con il segretario, che perde ogni carattere di meraviglia e innocenza, perso per sempre, i cui occhi ne indicano la lenta morte. E c’è poi il Figlio di primo letto, incompiuto anche come personaggio ed apparente corpo estraneo alla vicenda, sempre presente di spalle, che tenta di tirarsi fuori, ma non può perché il suo destino di personaggio vive solo nel dramma che deve rappresentare. Lo stesso è per i bambini: i loro personaggi, muti, muoiono davvero nella finzione, e il loro destino è segnato.

La Figliastra è la donna perduta, costretta a prostituirsi nel bordello che la madre crede essere un atelier, e che, ancora vestita a lutto per la perdita del padre, sta per vendersi al patrigno, ma l’irruzione della madre, che lancia un urlo assordante, interrompe l’atto e segna la svolta tragica. Il padre riprende in casa la donna e l’intera famiglia. Questo provoca lo sdegno del primo figlio, che non ricorda nulla della madre ed è stato allevato in campagna da una balia. La figliastra tenta continuamente di umiliare il padre provando sempre a sedurlo, la bambina gioca nella piscina e muore annegata, perché il fratellastro, che tenta di salvarla, resta immobile e non si compie come eroe, accorgendosi che il tutto avviene gli occhi del fratellino inerme, che tira fuori una rivoltella e si spara.

Al culmine della tragedia, gli attori e il Capocomico si interrogano sulla morte effettiva dei bambini, ma vanno via scandalizzati. Il Capocomico chiede al macchinista di spegnere le luci. Accidentalmente resta accesa una luce di sfondo. Nella versione in bianco e nero per la televisione non possiamo vedere che la luce è di colore verde, omaggio all’istinto tellurico dell’espressionismo (indica che l’energia dei personaggi ha trovato realizzazione?). Nella regia di De Lullo non è possibile godere del finale originale: la Figliastra, irrecuperabile, che scappa via dal palcoscenico squarciando la «quarta parete», lanciando un urlo che scuote il cinico direttore. Si vedono le ombre dell’intera famiglia proiettate sullo sfondo dalla luce, arrivare lentamente in primo piano, silenziose.

La versione della Compagnia dei giovani è quella che ha portato Pirandello alla popolarità diffusa, registrando un grande successo di pubblico. Restano indimenticabili le interpretazioni del Padre, Romolo Valli, con il suo crudele «esperimento»; l’urlo strozzato della madre di fronte al possibile incesto tra il marito e la Figliastra, nel bordello. Su tutti è indimenticabile l’interpretazione di Rossella Falk, bellissima, tormentata e intensa.

Peccato per alcune scelte che «addomesticano» il dramma, aggiungendoci un po’ troppo melò: il finale, invece di incarnare lo choc voluto da Pirandello contro i borghesi e contro un certo modo d’interpretare il teatro, risulta a confronto quasi un buffetto per lo spettatore. Non è un caso se la versione della Compagnia sarà anche l’ultima da considerare in qualche modo la più «manieristica»: assolto l’obbligo di riabilitare e omaggiare il suo autore, gli interpreti e i registi che seguiranno avvertiranno la necessità di sperimentare e prendersi altri rischi. L’enigma del teatro è infine (ir)risolto.

Teatro Astràgali, fisiologia mitralica

Terza e momentaneamente ultima puntata del viaggio tra le realtà che hanno fatto la storia del teatro a Lecce. 

“L’attore è un’atleta del cuore” scriveva Antonin Artaud, a sottolineare il doppio sforzo di ogni uomo di teatro, tutto teso a conoscere e senti­re attraverso il corpo, un corpo senza fronzoli, decostruito ed essenziale. Da questo pensiero prende le mosse “Il corpo minimo”, workshop inter­nazionale a cura di Astràgali Teatro, che si terrà in tre tranches tra ottobre e dicembre (dal 20 al 24 ottobre, dal 10 al 14 novembre e dall’1 al 5 dicembre).

Ma l’attenzione ed il lavoro rigoroso sul corpo sono ormai al centro della ricerca artistica, ed il contributo personalissimo di Astràgali è evidente in ogni spetta­colo e se ne potrà leggere anche sull’ultimo numero del “Melissi” di Besa, significativamente intitolato “Il corpo in azione: dall’antropologia al teatro”.

Intervistiamo Fabio Tolledi, regista e direttore artisti­co della storica compagnia.

Tolledi
Fabio Tolledi

Direttore, perché una riflessione sul corpo minimo?

“Il lavoro organico che svolgiamo ruota attorno al con­cetto del “corpo dell’arte”: affronteremo con le basi della nostra esperienza le tecniche fondamentali del teatro contemporaneo, dove il corpo assurge a ruolo centrale, senza che questo possa definirsi una moda. Perché la poesia di questo inizio di secolo, nella sua relazione con la contemporaneità più spinta, si espri­me attraverso il corpo. L’attore è un corpo danzante, sente e vive corporeamente. E per questo, perché la vita dell’attore è nell’apprendere attraverso il corpo, è necessario lavorare con impegno costante e l’ausi­lio di tecniche dell’estremo oriente, ma anche, direi, dell’estremo occidente. Un processo duro e rigoroso per arrivare ad una concreta conoscenza della pratica teatrale. Si lavora molto, ma ci si diverte anche”.

Quale indirizzo di ricerca segue Astràgali?

“Qualcuno dice che siamo off o underground, ma con coerenza lavoriamo sulla decostruzione applicata al teatro: molti citano Artaud e noi cerchiamo di lavorare a partire da lui.  La nostra riflessione trova applicazione sul terreno di confine che sta tra teatro e poesia, che non dà luogo ad un teatro di parola ma di immagini. Seguendo questo corso abbiamo cercato di capire quale possa essere una linea meridiana del teatro, incontrando il pensiero di Franco Cassano, che è anche un frequentatore del nostro teatro”.

Cosa caratterizza la linea meridiana del teatro?

“Anzitutto noi non ci dimettiamo dal sud, ma rilanciamo una nuova soggettività, che è meridiana e questo parte dalla costruzione di una rete comune che non serve a fare progetti per guadagnare qualche soldo, ma è una linea coerente e organica di lavoro. La tragedia, ad esempio, è una forma di poesia, non fa male ricordare questo, ed è anche una delle radici comuni del mediterraneo come lo è la comicità, non cabarettistica, ma corporea al limite dell’osceni­tà. In questa linea comune al patri­monio del mediterraneo offriamo il nostro percorso”.

Dalle pagine di questa rubrica cerchiamo di far dialogare gli attori, in senso lato, della scena leccese. Qual è la sua opinione ri­guardo alla “rete comune”?

“Tutte le strutture hanno traiet­torie diverse: Astràgali fa ricerca teatrale, scrittura, produzione, ricerca visiva e sonora. Abbiamo poco interesse a dirci unica real­tà esistente sul territorio come altri fanno. Questo territorio ha costantemente bisogno di atten­zione, di relazioni, e il teatro vive con la capacità di relazione. Ad esempio, con la residenza teatra­le che realizzeremo tra Calmiera e Zollino, progetto speciale del Teatro pubblico pugliese, cerche­remo di fornire passaggi struttu­rali in un territorio significativo. Vogliamo contribuire alla crescita dell’animazione territoriale, per­ché riconoscere l’altro è vitale nelle pratiche culturali. Le realtà grandi e piccole del territorio con­tribuiscono a rendere organico il sistema: un griot canta che anche i rami secchi fanno una foresta, ma l’approccio ministeriale dice di tagliarli, e a volte chi ha fatto il nostro stesso percorso dimentica che il teatro ha bisogno di capaci­tà relazionale e non di concorren­za economica”.

 Luoghi_Astràgali, il gioco del teatro vivo

Astràgali, il cui nome rievoca l’antesignano del gioco dei dadi, è il più longevo gruppo teatrale leccese, fondato nel 1981 da Marcello Primi­ceri e Carla Petrachi, riconosciuto dal Ministero per i Beni e le attività culturali come compagnia teatrale d’innovazione, ed è anche membro cooperante dell’International theatre institute dell’Unesco. Nonostan­te tutto ciò non beneficia di contributi stabili da parte degli enti pubbli­ci, men che meno dal Comune di Lecce.

Di strada ne ha fatta tanta solo a livello artistico, perché in 27 anni ha cambiato sede solo una volta, trasferendosi da via Dogali, presso via Leuca, nell’attuale sede di via Candido. Un trasloco che Primiceri fece appena in tempo a festeggiare, prima di morire nel dicembre ’87, di ritorno dai pellegrinaggi baresi per il riconoscimento della compagnia che ancora oggi sono una piaga della programmazione e della pro­gettualità pugliese. Il primo progetto di Astràgali, realizzato nel 1984, è “Rito Tragedia Rito”, un incipit del dialogo sulle pratiche teatrali che riesce a fare arrivare a Lecce anche l’equipe “L’Avventura” di Jerzy Grotowski. Un’importante attività del teatro è stata quella di rivisita­re i luoghi architettonici più affascinanti del Salento rendendoli par­te integrante della scommessa del teatro vivo, come la realizzazione dello spettacolo “Sulle tracce di Dioniso – i porti del mediterraneo”, realizzato con allestimenti speciali a Marina Serra di Tricase e nei porti vecchi di Zakynthos (Grecia) e di Limassol (Cipro). Dal 2002 parte il progetto “Il corpo dell’ar­te”, che esplora le relazioni tra teatro e live art performance, nell’ambito del pro­gramma dell’Unione europea Cultura 2000 in collaborazione con teatri, università, musei, gallerie di Italia, Grecia, Belgio. Nel 2003 comincia un percorso tra le culture che attraversano il Mediterraneo, iniziato con lo spettacolo “Antigone- anatomia del­la resistenza dell’amore” e culminato ne “Le rotte di Ulisse – per una critica della violenza” che coinvolge Grecia, Cipro, Malta, Turchia, e vede rappresentati diversi episodi dell’Odissea e dell’ Ulisse di Joyce, per arrivare allo spettacolo finale di sei ore “Ulysses’gramophone – the Wake”.

Oggi è in corso il progetto “Fronte/frontiera-dinamiche dell’inclusione dell’altro nel teatro”, sostenuto dal programma dell’Unio­ne europea Cultura 2007, in cui la possibilità di un teatro multilinguistico, che emer­ge dall’incontro di lingue ed esperienze diverse, si pone contro l’idea di frontiera e separazione, come principi di conflitto.

Andrea Aufieri, L’impaziente n.20, ottobre/novembre 2008.

Le altre due puntate della rubrica sul teatro ospitata dall’imPaziente:

Puntata 1 – Fondo Verri
Puntata 2 – Cantieri Teatrali Koreja

 

Koreja, il teatro con la “k” maiuscola

Passo dopo passo. Il teatro secondo Franco Ungaro, direttore organizzativo dei Cantieri Teatrali Koreja.

Ungaro
Franco Ungaro

Dal 19 al 28 giugno il Teatro romano di Lecce ospita la nuova edizione di Ecumenes (Eredità culturali del Mediter­raneo nelle eccellenze storico-architettoniche), cui dedi­chiamo spazio in questa rubrica. Il 24 e il 25 giugno i Can­tieri teatrali Koreja presenteranno La passione delle Troiane, uno spettacolo di Antonio Pizzicato e Salvatore Tramacere tratto dal dramma di Euripide. Così come per altre opere che hanno segnato la storia della compagnia, da Dovevamo vincere a Brecht’s dance e Acido fenico, la ricerca si concen­tra nelle possibilità espressive del corpo e nel legame tra teatralità, musica e tradizione del territorio. A raccontarci questi felici intrecci è Franco Ungaro, storico direttore or­ganizzativo del gruppo.

Direttore, dove si concentra l’attuale ricerca ar­tistica di Koreja?

“Lavoriamo sul teatro musicale, con cantanti e musicisti in scena: le origini della tragedia greca sono proprio musicali, essa era movimento, danza, coralità. Questo lavoro è intri­so fortemente del patrimonio musicale e culturale dell’area grecanica, tanto che vedrà protagonista Ninfa Giannuzzi, pre­senza fissa della Notte della Taranta”.

A maggio si è tenuto un corso avanzato di for­mazione: quanto conta saper fare il secondo passo per un attore?

“La tipologia prevalente di formazione che offre il Salento è quella di base: lavoro su voce, corpo, dizione. Non c’erano occasioni di formazione specialistiche. Quest’anno abbiamo sposato il progetto Interreg “Nuovo attore nuovo”, che ri­guarda esperti e laureati. Era un progetto pilota per la Puglia e la risposta è stata eccezionale per il numero di partecipan­ti, ma anche per la qualità dello spettacolo messo in scena, senza contare le relazioni create con addetti ai lavori di fama e competenza”.

Quale caratteristica un attore ed uno spettacolo devono possedere assolutamente?

“La risposta effettivamente è unica: il segreto dell’attore e del teatro è soprattutto nella capacità di emozionare gli spetta­tori. Solo quando la bravura tecnica è orientata alla ricerca di questo impatto ha senso avere una presenza scenica”.

È vero che “Il teatro fuori dal comune” è molto più di uno slogan?

È noto che Koreja in questi anni non ha potuto avere una relazione con l’amministrazione, caso unico di man­cato sostegno ad una compagnia stabile riconosciuta dal governo.  Anche la nuova giunta a parole dimo­stra una sentita adesione al nostro la­voro, ma nei fatti non succede nulla, visto che i nostri progetti non sono mai approvati.

Qual è il difetto che distingue la realtà leccese?

L’opinione diffusa per cui i progetti teatrali che producono cultura deb­bano dialogare: nel mondo dell’arte la competizione non economica è vitale. L’originalità delle idee e delle poetiche non può che essere positiva. Il giudizio sulla qualità del lavoro delle compa­gnie salentine lo faccia il pubblico.

Eppure quella leccese è una realtà viva ed in fermento, non crede?

Molto fermento e molte attività, ma tutto è limitato al territorio: solo po­chi entrano nei cartelloni di altre città. Questa è un’evidenza della qualità dei lavori, poi c’è anche una debolezza or­ganizzativa che non consente a queste compagnie di curare il mercato oltre il Salento.

Luoghi_Teatro con la “k”maiuscola

Korelja è il griko per la fanciulla, il coro in greco: dalla purezza e dall’azione corale e non sottoposta a leader nasce Koreja, l’idea di teatro di quattro ragazzi di Aradeo, Franco Ungaro, Stefano Bove, Franca Carallo, Sal­vatore Tramacere, che nel 1983 prendono in affitto alcune stanze del castello Tre masserie per incominciare il duro training che li porterà a proporsi nelle estati salentine prima e in giro per l’Italia poi.

L’esperienza, raccontata dallo stesso Ungaro nel libro Dimettersi dal Sud(Laterza edizioni della Libreria, 2006), è così singolare da attirare artisti e curiosi da ogni dove. Lasciano un segno indelebile Iben Nagel Rasmussen e Cesar Brie, oltre ai maestri Ferdinando Taviani, Nicola Savarese ed Eugenio Barba. Le influenze arrivano anzitutto dal mondo della musica e del cinema: Brian Eno, Philip Glass, Stanley Kubrik e David Lynch per fare qualche esempio, ma non si può prescindere dal pioniere Carmelo Bene.

È del 1985 il debutto con lo spettacolo Dovevamo vincere, subito invitato a concorsi di alto livello, ma è solo l’inizio perché poi ci sono l’organizzazione di tredici edizioni della rassegna estiva “Aradeo e i teatri” frequentata dalla crema degli attori, dei critici e dei produttori e, nel ’94, la “Notte del rimor­so”, che anticipa il marketing tarantolato. Si forma così l’idea della relazionali­tà e della convivialità che precedono e seguono ogni rappresentazione e che arriverà anche a trasformarsi in rave. Del ’96 la costruzione in senso letterale che oggi ospita i Cantieri a Lecce, una vecchia fabbrica di mattoni abbandona­ta da 25 anni. Del 2000 il primo tentativo che porta i cantanti ad essere attori di una ricerca che trova la giusta alchimia tra sperimentazione e territorio: è l’Acido fenico che vede i Sud Sound System calcare il palcoscenico. L’esperimento del teatro musicale sarà ripreso e compiuto con maggior successo in un paio d’anni con Brecht’s Dance con gli Almamegretta e Molto rumore per nulla.

Oggi i Koreja sono in grado di formare ad alto livello, sono presenti in numerosi progetti Interreg che mirano alla reciprocità delle esperienze, in particolare tra le aree del Mediterra­neo (Factory ed Ecumenes su tutte), senza scordare l’attenzione alla crescita dei bambini e dei ragazzi con il Teatro scuola, una rassegna dedicata ai più giovani.

Andrea Aufieri L’imPaziente n. 19 maggio/giugno 2008

Le altre due puntate della rubrica sul teatro ospitata dall’imPaziente: 

Puntata 1 – Fondo Verri
Puntata 3 – Teatro Astràgali

Fondo Verri, i luoghi del teatro a Lecce

L’avvio di questa rubrica è simultaneo a quello del labo­ratorio teatrale “Attore opera viva”, un corso di base di due mesi tenuto ogni anno da Piero Rapanà.

L’attore e regista ha fondato quindici anni fa il Teatro Blitz con il sodale Mauro Marino: ha un’esperienza quasi trentennale, dedicata per un terzo allo studio Astràgali, con il quale si è formato prima delle esperienze all’Ert di Modena e con il te­atro della Valdoca. Ha cominciato a mettere a disposizione la sua preparazione per i primi laboratori quando il Blitz nemmeno camminava e da quattro anni ha messo su l’opera viva, l’attore, corpo/voce, autore di sé stesso.

Il corso è aperto a dieci partecipanti di tutte le età che non hanno preparazione o vogliono ripassare: gli appuntamenti bisettimanali, ogni martedì e giovedì dalle 19.30 alle 22, prose­guiranno fino a fine maggio.

È allettante tentare di capire qualcosa di questo mondo, co­minciando proprio dal teatro come momento per sé stessi, un bel po’ al di qua della professione. Anche perché, tanto per capirci, chi scrive è un appassionato di “momenti creativi”, ma non un addetto ai lavori.

Piero, come hai cominciato con questa storia del teatro?

“Io non sono figlio d’arte e di teatro non ne sapevo nulla: nel 1984, a 22 anni, vivevo una fase critica o mistica della mia vita, non so, ero preso dalla ricerca. Casualmente la notte di Natale mi accorgo di un manifesto di un laboratorio di Astragali: c’era un manichino con gli arti rotti e la scritta “L’attore che viene dal futuro”. Fu una folgorazione e infatti la mattina successiva andai da Astragali a chiedere informazioni, e ci sono restato dieci anni”.

Chi è l’attore?

“L’attore è un essere umano che ha la capacità di mediare la realtà attraverso la finzione, ti fa ridere delle disgrazie e ti fa piangere per delle cretinate. L’attore è come un tramite tra quello che è e quello che vorrebbe essere”.

Sembra facile, ma la semplicità è il risultato evi­dente della complessità.

“Infatti, durante il corso cerco di coinvolgere tutti nell’ac­quisire consapevolezza del proprio essere e dei propri limiti e cominciare a sentire, contro una vita che non fa altro che farci mascherare. A parte i giovani determinati a divenire at­tori, molta gente partecipa perché non controlla i propri stati d’animo, non riesce a guardarsi dentro”.

Non sarebbe meglio andare da uno psicoterapeuta?

“Il discorso è simile perché stai lavorando sull’essere uma­no: qui il tuo strumento sei tu e questo ti permette di avere fiducia. Attraverso gli esercizi arrivi a capire come fare per non vergognarti e acquisire fiducia in te. Conosci il corpo con le tecniche di espressione corporea; poi scopri di avere più voci e giochi con il canto. Giochiamo, come i bambini, perché si lavora sulla tela bianca, prima ci si sco­pre e poi ci si conosce”.

Il primo approccio con il pal­coscenico? Cos’è il teatro?

“Teatro è l’anagramma di attore: è parte dell’individuo perché possiamo fare a meno della scena e del luogo, ma non dell’uomo. L’opera è il proprio sé che non si conosce e si cerca di co­noscere. Io ho cominciato anche per­ché credevo che con quest’arte avrei trovato la soluzione di tutti i mali anche se ho scoperto che non è che trovi la soluzione, ma riesci a perce­pirli ed esternarli attraverso l’arte. Poi diventa una malattia, se io non vado in scena poi sto male. Non vorrei però che divenisse un lavoro stabile da rou­tine, c’è il rischio di perdersi: mi hanno sempre insegnato che si deve cercare una mediazione tra le due cose”.

Qual è il secondo passo?

“Magari un corso di livello più ele­vato: quando si scende in profondità è necessario del tempo. I metodi Sta­nislavskij e Grotowski, alla radice di qualsiasi pratica, permettono agli atto­ri di lavorare su sé stessi per almeno otto ore al giorno, continuamente. E non si campa d’aria”.

Luoghi_Blitz al fondo Verri

Raccontiamo i luoghi dove ha trovato sfogo il teatro vivo a Lec­ce per indicare molto della passione che anima gli operatori di questo mondo e per dare alcune implicite risposte a tante do­mande

Blitz è un’incursione corsara del teatro nei territori vasti della poesia o vice­versa, e spesso si è davvero espresso in performance improvvisate nei negozi, nella galleria di piazza Mazzini oppure sul carrozzone delle Notti salentine, quelle bianche o tarantolate.

È il 1993 quando Piero Rapanà e Mauro Marino rientrano a Lecce da un decennio di gavetta e di picaresche avventure. Avvertendo l’esigenza di trovare casa in senso artistico, nonostante a Lecce siano cresciuti (di nuovo, non solo in senso artistico), dalla vecchia amicizia fanno sbocciare un nuovo sodalizio: il Teatro Blitz.

I due ci vanno pesanti da subito: la prima produzione è “Lager”, ispirata all’analisi poetica dell’opera di Primo Levi, Danilo Dolci e Tommaso di Ciaula, ed ottiene una nomination di prestigio al premio “Scenario”.

Negli anni seguenti la ricerca spinge gli autori a sviluppare l’idea che la poesia possa farsi discorso, possibilità d’incontro e di dialogo, soprattutto con i più giovani. Nasce così “Nuvole”, 150 repliche in quattro anni, che affronta la fan­tasiosa possibilità che Angelo chieda a Creatore di raccontargli nientemeno che il mondo. Poi “Sarajeva”, sulla tragedia bosniaca, e “A.r.a (armonioso riso amaro)”, seguito ideale di “Nuvole”, sulla caduta di Angelo sulla Terra, anzi al Sud.

“Che fortuna…sono qui”, l’ultima produzione, è un omaggio alla poesia, il soggetto principale dell’opera, sviluppata proprio in quadri poetici.

Nel frattempo la casa arriva davvero, ed è sul corso, quello prima del progetto Urban, in via santa Maria del paradiso, che dà nome all’associazione. Un angolo da spartire con la cartape­staia Silvia Mangia e le due pittrici Anna Maria Massari e Rita Guido. Poi per fortuna arriva Urban, quei 50 metri quadri possono ospitare quaranta persone ed il fondo è ribattezzato in memoria dell’artista Antonio Leonardo Verri. Perché come lui Marino e Rapanà incoraggiano i sogni di molti esordienti scrittori, attori o musicisti che siano.

Ovvio che di questo habitat Blitz è il figlio prediletto, tanto che ormai gli attori hanno preso confidenza con il palco e lo considerano uno di loro, nonostante siano frequenti le trasferte nelle scuole, nei laboratori, nelle librerie e anche presso la Asl, dove il fondo Verri gestisce un laboratorio di scrittura per gli ospiti del Centro per la cura e la ricerca sui disturbi del comportamento alimentare.

Andrea Aufieri L’imPaziente n. 18 marzo/aprile 2008

Le altre due puntate della rubrica sul teatro ospitata dall’imPaziente: 

Puntata 2 – Cantieri Teatrali Koreja
Puntata 3 – Teatro Astràgali

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