Julielle, o del dualismo della creatività

Giulia Migliore, in arte Julielle, leccese classe 1994, sta compiendo un viaggio artistico e personale di grande profondità ed è bene restare aggiornati. L’ha capito la BMG, che l’ha voluta come autrice nel suo team.

Quando Salento Review sarà in edicola, sarà uscito anche il nuovo singolo, Double hour, possibile manifesto del dualismo che anima la sua creatività. Un lavoro perfezionato durante il lockdown, tra le sessioni alla tastiera e le sedute di reiki, la pratica giapponese della sintesi delle dualità: «Il periodo di quarantena non è stato un meteorite, per le mie abitudini. Mi preoccupava di più il lato artistico, perché avevo paura di non riuscire a scrivere nulla. Invece in poche settimane ho abbozzato il nuovo lavoro, che sarà un altro ep, o forse proprio un album intero, che comprenderà anche i brani di (a)Cross. E Double hour si può definire tutto un mio trip sulla “doppia ora”,  quando le lancette si sfiorano per una volta ogni sessanta minuti, ma non si toccano. È la prima canzone che ho scritto pensando a qualcuno. Forse vuol dire questo scendere a patti con sé stessi e capire che le parole, dopotutto, possono essere reali, come le persone a cui vorresti dirle (forse)».  

(a)Cross è stato prodotto da La Rivolta Records di Paolo Del Vitto. Un incontro avvenuto «per caso, non sono mai stata brava a promuovere me stessa. Non sono molto eccentrica, non sono mai stata la bambina che cantava usando la spazzola e saltellando allo specchio. La mia voce ha lottato contro di me per uscire. Da quando ho conosciuto Rivolta è diventato tutto reale, la mia vita è cambiata, mi ha dato la libertà di poter pensare alla musica come un lavoro. Mi ha aiutato a capire cosa significa avere dedizione e obiettivi. Non è facile lavorare con me, ho un caratteraccio, ed è bello avere qualcuno su cui contare sempre».

Già, l’amore per la musica: «Da piccola sentivo l’esigenza di suonare e quando avevo 8 anni ho cominciato a prendere lezioni.  Adesso, quando scrivo e compongo, lo faccio senza una vera coscienza, so che devo mettere “rec” sullo smartphone, vado alla tastiera e viene fuori un brano. Quando mi convince posso passarlo a Lorenzo Nadalini (GodBlessComputers), che produce le canzoni sorprendendomi sempre per la pazienza, la professionalità, la genialità nei suoi tocchi minimal. E anche con gli Inude proseguiremo la collaborazione perché sono persone adorabili e artisti notevoli».

C’erano i rave clandestini degli anni duemiladieci tra Lecce e Bari – «le nostre Woodstock»  – e ci sono gli ascolti che la emozionano: «Soprattutto Christian Lӧffler, della scena elettronica tedesca, perché tutto quello che compone si congiunge perfettamente ad ogni mio stato emotivo. Nella scena italiana ho scoperto di recente Vipra (Giovanni Cerrati) ex voce dei Sxrrxwland. Grazie a lui, per la prima volta, non ho fatto alcuna fatica ad ascoltare e ad amare un genere che prima non consideravo molto. Se Lӧffler riesce a descrivere la mia emotività, Vipra dà voce alle mie giornate con semplicità, naturalezza e dolcezza nell’uso dell’italiano come nessuno ha mai fatto».

In (a)Cross tutto si traduce in una specie di nuvola lisergica elettropop, onirica ed eterea. Julielle descrive l’intero lavoro come un’esperienza di sacralità laica: «Non sono credente, ma sono molto affascinata dal e da ciò che è sacro, in particolare nel cristianesimo, dove convivono spiritualità e carnalità. Il senso dell’ep e della mia esperienza finora è che la musica sia croce e delizia. Posso dire che essa mi attraversa, ma non mi appartiene. È quello che Jacques Lacan ha espresso in uno dei più bei concetti al mondo, definendo la parola “jouissance”, che potremmo tradurre con “godimento”. Secondo questo concetto, chi può dirsi davvero padrone del proprio corpo e delle proprie emozioni? Un altro concetto per cui ho scelto di chiamare (a)Cross questo lavoro è perché sono legata, in senso laico, al simbolo della croce».

(a)Cross è un ciclo che va dal senso di vittoria a quello di resa, non senza speranza. Julielle lo racconta così: «In (a)Cross, ogni traccia ha i suoi colori e le sue immagini. Toys è stata tradotta da una poesia che dedicai ai miei genitori, è il mio canto di liberazione dopo una lotta con me stessa, cantando “I shot the sheriff, he stole my toys” io sono sia lo sceriffo che la bambina con i suoi giocattoli. Voices credo sia la più straziante,  ma vale lo stesso senso di lotta con la mia parte più autodistruttiva. Ether è una ninnananna, l’ho scritta quando una mia amica mi disse di aspettare un figlio. Mi sono chiesta cosa potessi dire a un bambino per dargli il benvenuto in questo mondo così arido, complesso e cattivo. Ho risposto con l’immagine dei serpenti, di cui ho paura e che sono sempre stati presenti in tutto ciò che scrivo, “but look those eyes, they don’t look so bad” guarda quegli occhi, non sembrano, poi, così cattivi. Bisogna sempre cercare di vedere la bellezza nelle cose, anche nelle paure.  Survivors è un inno alla forza e alla fiducia. Aliens&Flowers per me è una fotografia di un letto al mattino, e la notte la fotografia è completamente diversa, “sing me to sleep tonight”e “I see flowers in your eyes, I see aliens in my bed” è la presenza assente e l’assenza presente di qualcuno che forse non ho mai amato, ancora. Mi piace scrivere le canzoni come lettere mai spedite a qualcuno che immagino solamente».

Tra (a)Cross e Double hour cos’è accaduto? «Ho collaborato come autrice con grandi professionisti, come Dani Faiv e Jake La Furia, insieme ad Andrea Simoniello (Kanesh), un mio caro amico, e ne sono molto felice, perché la scena rap italiana mi ha sempre appassionata. In uno dei miei momenti più intensi, l’apertura al concerto degli Editors e dei Cigarettes After Sex, al Medimex 2019 di Taranto, oltre all’adrenalina e alle endorfine che mi dà ogni concerto, credo di aver trasmesso la passione per quello che faccio anche ai miei parenti più cari. E ho capito soprattutto cosa non mi piace: dire no alle esperienze».

* Pubblicato su Salento Review, estate 2020

Music Platform, vibrazioni elettroniche nei luoghi della storia

Le caratteristiche del Castello di Carlo V di Lecce come non si sono mai sentite. Le ampie scalinate, i corridoi con le volte a botte, le sale interne che sorprendono per la capacità di attrarre l’illuminazione naturale.  Dal 14 agosto 2019 è possibile vivere un’esperienza virtuale immersiva tutta nuova negli ambienti della fortezza, sonorizzati con i beat e i frame della musica elettronica per il webdoc Music Platform.  Sempre disponibile sull’omonimo canale YouTube, un’ora per lasciarsi trasportare dall’immutata bellezza che attraversa i secoli in un insolito e riuscito connubio con un ritmo spesso associato alle suggestioni degli scenari metropolitani.  Proprio in questo dettaglio risiede la bravura degli autori del progetto, giunti con il capoluogo salentino alla diciassettesima puntata del loro indovinato format.

Music Platform è un progetto attivo in Puglia dal 2016. Narrazione territoriale, musica elettronica, live performance e paesaggio culturale rappresentano le anime di un percorso specializzato nella produzione di documentari. Music Platform invita artisti della scena nazionale e internazionale a interagire con paesaggi naturali e luoghi spesso inaccessibili al pubblico per creare nuove narrazioni, fruibili attraverso la rete. La sua comunità è soprattutto virtuale: corre sui social e sulle piattaforme digitali che accolgono l’archivio delle sue produzioni culturali. Oltre ai live set, ai corti e lungometraggi, Music Platform si esprime attraverso la fotografia e la comunicazione innovativa dei saperi storici. Il collettivo omonimo che ha ideato il progetto è composto da una decina di giovani professionisti provenienti dal mondo della musica e del club culture.

Daniele Marzano, presidente del collettivo che dà il nome al progetto,  ne racconta la genesi: «Siamo un gruppo di amici accomunati dalla passione per la musica elettronica. Abbiamo avuto le idee chiare fin da subito. Intendevamo creare un format che potesse essere uno strumento di scoperta e valorizzazione del paesaggio della Puglia in maniera innovativa, fuori dai luoghi comuni. Volevamo coinvolgere soprattutto un pubblico nuovo, mosso dalla passione per la musica elettronica, un target ben specifico che si avvicina alle nostre stesse esigenze. L’idea si è concretizzata nella realizzazione di video documentari a puntate sul web, in cui la musica elettronica potesse fare da padrona. Di volta in volta invitiamo artisti nazionali e internazionali a sonorizzare luoghi storici con l’obiettivo di creare la colonna sonora che accompagna una visione inedita del patrimonio storico e artistico. Una vera e propria connessione tra contemporaneità̀ e passato».

Il docufilm propone un’inedita visione del castello grazie al lavoro site specific firmato da Fragment Dimension, trio pugliese composto da Drafted, Kaelan e Unthone. La puntata è incentrata sui sotterranei, che hanno ospitato il set per la sonorizzazione, ma regalano momenti di grande emozione sorvolando i  fossati, le gallerie, le due torri senza dimenticare il Museo della Cartapesta e la piazza d’armi. L’indagine visiva del docufilm si sofferma sui dettagli della struttura architettonica restituendo al fruitore un’esperienza diversa dello spazio. I Fragment Dimension approntano tre diversi approcci in un live set onirico: suoni ambientali e naturali sono filtrati da sintetizzatori e strumenti dell’avanguardia techno per costruire sonorità ancestrali fortemente connesse con l’inconscio. Un lavoro personalizzato e unico, strutturato su sonorità ambient, che richiamano aspetti morfologici e architettonici dello spazio: in questo modo lo spettatore è spinto con la psiche in una dimensione onirica e può assistere online a un cortocircuito tra l’asetticità delle componenti hardware e l’emozionalità che è in grado di trasmettere la storia del luogo.

Il risultato, disponibile su YouTube, è frutto di un lavoro professionale e accorto, come racconta Marzano: «Abbiamo studiato  il Castello attraverso un tour diretto, analizzando personalmente la struttura con l’aiuto del personale molto preparato dell’infopoint gestito dalla cooperativa Theutra.  Le attività che precedono la realizzazione della puntata forse sono le più difficili e complesse, ma fin da subito siamo rimasti colpiti dall’imponenza della fortificazione e dalla storia che ancora oggi si respira nelle sue stanze.  Abbiamo subito creato un rapporto di collaborazione con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Provincie di Lecce, Brindisi e Taranto, che si è dimostrata disponibilissima e di estremo supporto alla nostra iniziativa».

Un entusiasmo condiviso anche dalla soprintendente Maria Piccarreta: «Ancora una volta la Soprintendenza si fa promotrice di iniziative che dinamizzano il patrimonio culturale, collaborando con realtà indipendenti e declinando linguaggi e forme comunicative. Questa puntata propone un lavoro che coniuga perfettamente i linguaggi della musica elettronica e la fruizione tradizionale dei beni culturali. Immagini e sperimentazione musicale danno vita a un’inedita quanto efficace e intrigante narrazione del Castello Carlo V».

Il risultato? Daniele Marzano: «Abbiamo fluttuato senza nessun attrito nello spazio profondo della struttura insieme a centomila utenti raggiunti, creando un’esperienza digitale d’impatto per una vastissima comunità web, se consideriamo che degli utenti raggiunti circa quarantamila sono rimasti con noi per tutta la diretta su Facebook».

Un modo di vivere i luoghi storici delle città attraverso linguaggi che possano attrarre un pubblico giovane e uscire fuori dal luogo comune del museo impolverato e di una storia trita e ritrita. Dopo aver toccato alcuni dei punti più suggestivi e scolpiti nell’immaginario collettivo del Salento, come Porto Selvaggio, il faro di Punta Palascìa e il Castello Aragonese di Otranto, i faraglioni di Castro e la Grotta sulfurea di Santa Cesarea Terme solo per dirne alcuni, Music Platform si prepara a uscire dai confini del territorio in cui ha mosso i suoi primi passi, come spiega Marzano: «Il 2020 sarà un anno pieno di novità perché non vogliamo relegarci in un confine. Fino ad ora abbiamo realizzato le nostre puntate in Puglia per diverse ragioni, quali la celerità nei processi burocratici e la semplicità negli spostamenti, ma per la prossima stagione abbiamo in serbo nuove avventure che naturalmente non possiamo ancora svelare. Sarebbe entusiasmante valorizzare e scoprire luoghi e beni culturali in giro per il mondo lavorando con artisti del panorama nazionale ed internazionale.  Inoltre, chiunque volesse collaborare con noi in qualità di artista o proporre luoghi per le nostre performance può contattarci tramite i nostri profili social: siamo alla continua ricerca di artisti, realtà musicali e paesaggi mozzafiato». 

Music Platform

Facebook: facebook.com/music.platform.it

La puntata sul Carlo V: youtu.be/U1I3yd1T7VI

*Pubblicato su Salento Review, inverno 2019

Riapre Casa Comi, si risveglia una Comunità

“Armonia: consonanza di voci o di strumenti” (Enciclopedia Treccani). Non poteva esistere una parola migliore per definire l’esperienza umana, artistica e spirituale di Girolamo Comi (Casamassella , Lecce, 1890; Lucugnano,  Lecce,  1968) e del suo lascito nella cultura contemporanea.  Il “Festival dell’Armonia” gli tributa la paternità ideale della manifestazione letteraria che si svolge soprattutto nel suo palazzo di Lucugnano, nel Basso Adriatico; “Spirito d’armonia” è il titolo di una mostra che gli è stata dedicata quest’anno, ma è anche il titolo della selezione delle sue poesie. E il termine ricorre molto spesso nelle sue opere, sebbene al barone di Lucugnano ne interessasse più la simbologia religiosa, mentre a noi preme valorizzare le vicende terrene e lo spirito armonioso di chi ne vuole perpetrare la memoria. Difficile non cogliere una consonanza tra la biografia del fondatore dell’Accademia Salentina e le vicissitudini del suo palazzo, oggi tornato a disposizione di curiosi, visitatori e assetati di cultura.

Già, perché superato il roseto con il suo mezzobusto che campeggia nella piazza che porta il suo nome a Lucugnano, solcato il portone e l’ampio atrio che ospita numerosi incontri pubblici, oggi possiamo ancora leggere la frase che accoglie i visitatori del suo palazzo, estratta da un messaggio che il poeta Alfonso Gatto lasciò al suo amico Girolamo: “In questa casa anche le ombre ti sono amiche”. E possiamo ancora immergerci in un’intensa visita guidata con Angela Caputo Lezzi perché l’associazione di cui fa parte, Tina Lambrini – Casa Comi, si è assunta l’impegno del dialogo con gli enti comproprietari dell’immobile, Provincia di Lecce e Regione Puglia, dopo aver persino occupato il palazzo, che rischiava d’esser ceduto in mano a privati.

Simone Coluccia, presidente di Tina Lambrini – Casa Comi, racconta di questo vero e proprio risveglio di coscienza culturale: «La riapertura del palazzo è stato il riaprirsi di un’intera comunità. È iniziato tutto con il Comitato Pro Palazzo Comi, sponsorizzato dalla Libera Università Popolare del Sud Salento, quando nell’estate del 2015 si seppe che la Provincia aveva emesso un bando per la cessione dell’immobile. L’esperienza dell’occupazione ha cambiato tutto. Una comunità si riavvicinava grazie a Comi. La Provincia revocava il bando e si apriva a una nuova stagione di opportunità e stimoli».

Provincia e Regione sono ora proprietari delle sale al piano terra, dove si trovavano le stalle, il frantoio e il palmento e che adesso ospitano una mostra permanente sulla lavorazione della terracotta e del ferro, tipicità lucugnanesi; la biblioteca dei bambini; parte delle migliaia di volumi che compongono il distaccamento del Polo bibliomuseale leccese, composto dal fondo Fuortes, dal fondo francese dello stesso Comi e dal fondo curato dall’emerito rettore dell’Università del Salento, Donato Valli, grande amico del barone. Completa il tutto il meraviglioso giardino che ospita ancora un alloro piantato dal poeta e una passiflora piantata da Tina, sua domestica, poi moglie e infine custode di Casa Comi e dei suoi tesori, figura da conoscere e amare, non solo per comprendere davvero la consonanza di Girolamo con l’amore, con l’arte e con la cittadinanza, ma degna di una sua traiettoria, tutta da scoprire, che si è meritata la compresenza nel nome dell’associazione che da lei ha ereditato la cura della Casa.

Al primo piano, di proprietà della Provincia, troviamo la biblioteca con i suoi appunti, i carteggi con altri grandi autori come Paul Valéry, le annotazioni sui libri, il celebre e bellissimo salotto in cui si riuniva l’Accademia Salentina, fondata nel 1948 e che vedeva protagonisti, tra gli altri, Maria Corti, Vittorio Bodini, Vittorio Pagano, nucleo redazionale anche della rivista L’Albero, divenuta l’epicentro di una linea meridionale d’idee e scritture. Ai contenuti non sono da meno gli scenari: arazzi progettati dal barone e realizzati dalle celebri maestranze di Casamassella, Surano e Maglie; quadri di pregio; foto e stampe d’epoca, candelabri di legno dorato e ferro battuto; ceramiche artigianali esposte nella sala da pranzo e nella splendida cucina economica; le stanze da letto francescane; l’altarino votivo dedicato alla Natività.

Luigi De Luca, funzionario regionale e direttore del polo biblio-museale di Lecce delinea gli interventi futuri: «Insieme alla Provincia e alla Soprintendenza restaureremo gli interni, le opere d’arte e i libri. Palazzo Comi deve tornare uno spazio di discussione e comunione tra il mondo intellettuale e le comunità intorno ai temi della poesia, del sud e della fraternità. E per il futuro immaginiamo ulteriori progetti, magari residenze per poeti, scrittori e artisti. Abbiamo bisogno di poesia e questa Casa assolverà il suo compito, anche per la preziosa biblioteca che ogni giorno accoglie studiosi e studenti, che già si sentono una comunità».

Nonostante la riforma Del Rio, la Provincia conserva ancora un ruolo importante nella gestione di Palazzo Comi e il suo rilancio rientra nelle linee programmatiche dell’attuale gestione, che il presidente Stefano Minerva riassume in una nota: «La valorizzazione di Palazzo Comi riuscirà ad avere sempre più forza se in sinergia con Regione, Soprintendenza e Comune di Tricase riuscirà ad attrarre investimenti e risorse finalizzate alla promozione delle attività culturali, intensificando il “lavoro di squadra” che enti, associazioni e privati stanno già mettendo in atto».

La strada dell’armonia è quella del futuro per Casa Comi, casa di tutti i salentini e di tutti gli amanti della cultura nel mondo.

*Pubblicato su Salento Review, estate 2019

Masseria Tagliatelle, un nuovo attrattore culturale di comunità

C’è una nuova visione di Lecce che è destinata a entrare nell’immaginario collettivo di abitanti e turisti, modificandone la logistica, l’urbanistica e la geografia culturale.

Il tanto agognato ribaltamento della stazione ferroviaria, i cui tempi di realizzazione sono previsti entro la fine del 2020, porterà con sé la riqualificazione di tutto il Parco delle Cave di Marco Vito con il Ninfeo delle Fate. L’intera area sarà sorretta e impreziosita dalle opere dell’archistar portoghese Álvaro Siza. I leccesi, dunque, sono autorizzati a sognare a occhi aperti, ma non solo:  dal dicembre 2018 hanno potuto sperimentare in concreto come sarà vivere in una città attenta agli stimoli culturali che non partano solo dal centro storico.

L’occasione è stata quella del mancato affidamento della gestione di Masseria “Tagliatelle”, cuore pulsante del Parco delle Cave. Il primo bando non vide la partecipazione di alcun soggetto e l’allora neo amministrazione, guidata dal sindaco Carlo Salvemini, decise di emanare un bando di gestione temporanea dell’immobile, cercando di trasformare quel flop in un’esperienza positiva. Rita Miglietta, ex assessora alla Pianificazione territoriale, ne racconta l’evoluzione: «Il bando di affidamento andò deserto perché questo non prevedeva una partecipazione della città. Ho proposto così alla giunta di avviare un percorso sperimentale che fosse anche una riflessione sui temi chiave dei beni comuni».

I temi individuati riguardano la gestione innovativa di questi immobili attraverso la realizzazione di reti, l’identità visiva e la loro comunicazione, e infine la sostenibilità economica: «Abbiamo immaginato un percorso collettivo, “rafforzando le gambe” dei soggetti che hanno deciso di partecipare, inventandoci un concorso con il nome: “Cosa siamo capaci di fare?”».

Il premio per la partecipazione al bando prevedeva la gestione temporanea della masseria: «Il piccolo miracolo che ne è seguito è che i tre progetti vincitori si sono consorziati nell’associazione Cavie, garantendo l’apertura al pubblico e la proposta di attività sulle loro specifiche competenze».

Scriviamo proprio a ridosso delle nuove amministrative e chiediamo come proseguirà quest’esperienza: «Ci auguriamo di non tornare indietro e che la prossima amministrazione realizzi un bando innovativo, grazie anche ai nuovi strumenti legislativi nazionali come quello del “dialogo competitivo” tra l’amministrazione e gli enti privati e sociali».

Segretario generale dell’associazione Mecenate 90, Ledo Prato è esperto di politiche per la tutela e la valorizzazione dei Beni Culturali. Per il Comune di Lecce ha strutturato e coordinato i laboratori di partecipazione in team con la già citata Rita Miglietta, l’ex assessora alla Cultura Antonella Agnoli e il vicesindaco uscente Alessandro Delli Noci. «L’obiettivo dei laboratori era quello di coinvolgere un certo numero di partecipanti per trasferire loro delle esperienze di gestione di beni pubblici. La metodologia e le procedure messe a punto per questo progetto rappresentano davvero un unicum in Italia per questo tipo di politiche e anche gli esiti sono stati sorprendenti.  Era condizione imposta quella di garantire la presenza all’intera durata dei laboratori, che non prevedevano soluzione di continuità per quindici giorni. Non ci si voleva fermare alla sola teoria e si è aperto alla possibilità di raggruppare i partecipanti in alcuni macrogruppi che hanno poi elaborato i loro progetti, arrivando alla selezione e al finanziamento per la gestione temporanea grazie alla loro decisione di consorziarsi»

Un esempio di buona pratica che potrebbe fare da capofila in tutta Italia, ma che Prato si augura possa ripetersi sempre a Lecce: «La città ha altri beni pubblici per i quali si deve ancora decidere la destinazione. Sarebbe bello che questa esperienza possa essere adottata come una metodologia di routine. L’affidamento di un bene comune non può avvenire a freddo, ma ha bisogno di una traiettoria tale da portare la comunità che la vivrà a identificarsi».

E sull’aspetto della risposta data alla comunità cittadina, a partire dalla realtà urbana che ruota intorno a viale Grassi, hanno riflettuto Giacomo Potì, Davide Negro e Chiara Idrusa Scrimieri, coordinatori, rispettivamente, di Binario Zero, Caveau e Cava delle Fate, poi consorziati nell’associazione Cavie: «Tutte le attività svolte nel periodo di sperimentazione, da dicembre 2018 a maggio 2019, sono state sold out. Si è cominciato con la riscoperta e la riappropriazione dei luoghi con le visite guidate che sono state anche oggetto di performance teatrali e artistiche, proseguendo poi con la partecipazione alle attività proposte secondo i progetti di ciascuno, per coronare il tutto con la sempre più assidua richiesta da parte dei cittadini di essere i protagonisti delle stesse performance e di mettere a disposizione della comunità determinati strumenti per la fruizione e la cura del luogo». Una risposta entusiasmante da parte di tutta la città, al punto che è impossibile descrivere in questi spazi tutte le attività proposte, dal videomapping realizzato nella cava al co-living che rispetta la tradizione di ospitalità della masseria, a disposizione di artisti e innovatori, passando per i laboratori di atelier, autocostruzione e giocoleria per bambini, al co-working e alle mostre di scultura con la realizzazione di un catalogo professionale e agli showcooking.

«La gestione temporanea è stata fondamentale anzitutto per confermare gli interessi intorno agli obiettivi prefissati: l’aspetto culturale legato al luogo; l’attenzione ai bambini; la concessione dello spazio ai freelance e ai lavoratori; la possibilità di gestire mostre ed eventi culturali di alto livello. Per il futuro ci auguriamo si parta sempre dalla comunità che deve vivere questo luogo per strutturarlo in modo “orizzontale” perché non sia abbandonato a sé stesso. Andrebbero poi riviste alcune limitazioni legate ai costi di gestione e alla natura stessa delle realtà cui il bene sarà affidato, ma la strada che abbiamo tracciato la troviamo straordinaria».

Proviamo a visitare brevemente i tesori della Masseria Tagliatelle. La struttura deve il suo nome al fatto di essere una piccola cava di tufo urbana, dunque poco profonda: in genere le tagghiate sono le strisce verticali che si formano sulle pareti per l’attività del taglio di quella pietra leccese che ha dato lustro al rinomato barocco cittadino. Essendo una cava di piccole dimensioni, tali segni sono meno evidenti, più piccoli, dunque tagghiateddhre, da cui l’impropria traduzione italiana di “tagliatelle”. Prima dell’acquisizione del Comune, la masseria era di proprietà della famiglia Papaleo, nome con cui è segnalata sulla rivista “Fede” dallo studioso Francesco Tummarello nel 1925.

L’autore menziona anche l’adiacente Ninfeo delle Fate, struttura ipogea dal rilevante interesse storico-architettonico, risalente al Cinquecento (datazione disputata), anticamera di un complesso termale. Vi si accede da una piccola scalinata all’interno della corte della masseria, per ritrovarsi in due ambienti dialoganti. Nel primo vi sono dodici nicchie che raffigurano alternativamente sei figure femminili, tre per ciascuna parete, e sei nicchie vuote con un semicerchio in alto, raffigurante delle grandi conchiglie. Le sei figure femminili, raffigurate senza braccia, indossano abiti eleganti e, come per tutte le anticamere delle terme, rappresentano delle ninfe. La tradizione popolare le ha trasformate in fate e alcuni racconti popolari narrano che queste di notte si rianimassero per recuperare e nascondere la cosiddetta acchiatura, ovvero il tesoro nascosto e magico delle fate. Più prosaicamente, il secondo ambiente ha una forma circolare, quasi cinque metri di diametro, usata per i bagni, con un bordo per le sedute e un foro sul tetto che permetteva la circolazione dell’aria calda.

*Pubblicato su Salento Review, estate 2019

Tra arte e scienza, il Salento dei quadranti solari

«I quadranti solari sono la classificazione più corretta per includere diversi strumenti usati per computare i giorni, le ore o il mezzogiorno dall’età del bronzo fino a un paio di secoli fa»

«Certo, i contadini di Puglia non erano adeguatamente acculturati, ma ci arrivarono lo stesso con esperienza e intuito»

Esiste un Salento inaspettato, quello dei quadranti solari storici e moderni presenti in tutta la provincia, che attrae un numero importante di collezionisti e di visitatori. Cosa sono i quadranti solari? Risponde un grande appassionato, Vito Lecci, fondatore del primo parco astronomico nel Salento, a Salve: «È la classificazione più corretta per includere diversi strumenti usati per computare i giorni, le ore o il mezzogiorno dall’età del bronzo fino a un paio di secoli fa. Sono noti come meridiane, ma la vera meridiana segnala il mezzogiorno, mentre gli altri sono orologi solari – che registrano le ore – oppure calendari astronomici, che indicano alcuni giorni dell’anno come gli equinozi e i solstizi».

L’interesse contemporaneo per questi strumenti ha avuto grande impulso dagli anni Settanta, quando il professore Francesco Azzarita, per pura passione, ha cominciato a fare un censimento, la cui evoluzione è oggi il sito Sundialatlas.eu. L’ex presidente dell’Unione astrofili italiani e fondatore della sezione Quadranti solari ha segnalato oltre quindicimila quadranti, 330 dei quali solo in Puglia. Nel Salento, il più antico quadrante risale al XIV secolo e appartiene alla chiesa di Santa Maria della Strada di Taurisano: «Si tratta dell’unica testimonianza della presenza greca a Taurisano in un misto di sovrapposizioni latine. Finora sembra essere l’unico esemplare di un manufatto di tal genere in Italia, dove già son rari gli esemplari latini dell’epoca medioevale. Il quadrante è incastrato nella facciata a un’altezza di 6,35 metri e non è lontano dallo spigolo orientale. È costituito da un unico blocco circolare di pietra; è fornito di uno stilo perpendicolare al disco. Vi si trovano due iscrizioni e anche lettere isolate».  Sono interessanti anche le opere di Parabita e di Santa Maria di Leuca, ed è possibile realizzare un itinerario che, citando solo i luoghi pubblici, comprende: Casarano, Lecce (nella splendida chiesa dei Santi Nicolò e Cataldo, appena restaurata, ma visibile dal tetto dell’ex Monastero degli olivetani), Campi in Piazza della Libertà, la chiesa di Santa Maria Maddalena a Uggiano, San Foca, San Pietro in Lama, Racale, Taviano, la chiesa di San Giovanni ad Acquarica, il museo di Ugento, le chiese matrici di Galatina e Zollino, la Piazza del Municipio a Matino, Piazza della Repubblica a Gallipoli, via Roma a Carpignano, il Monumento ai Caduti di Salve.

La contemporanea riscoperta dei quadranti solari, dei quali Vito Lecci è uno dei più stimati costruttori nel Salento, si fonda su tre direttrici: l’interesse didattico (molti quadranti sono realizzati nelle scuole), la passione del committente e la pura estetica ornamentale, che ogni tanto porta a realizzare meridiane non funzionanti. Se ne possono trovare di tutti i tipi: semplicemente dipinte sulle pareti, incise e intarsiate nel marmo o nel granito, enormi come quella realizzata a Salve o piccolissime. Grazie a Lecci, il censimento di Azzarita si è arricchito di alcuni elementi molto pregiati, come il quadrante del liceo scientifico “Banzi – Bazoli” di Lecce, elegantemente intarsiato nel marmo, oppure i tre quadranti dell’agrario “Columella”, tecnicamente completi e complessi. Lo stesso parco astronomico di Salve presenta pezzi rari, tra i quali spicca una riproduzione in scala ridotta della piramide Maya a gradoni dedicata al dio Kukulcan: «I Maya credevano che negli equinozi sulla gradinata della piramide si manifestasse il serpente di luce per simboleggiare l’incontro con il popolo. Per esigenze didattiche, io l’ho resa funzionante alle nostre latitudini e in qualsiasi giorno dell’anno, grazie alla base rotante di cui i Maya non potevano disporre!».

Non sono poche le nozioni di cui bisogna disporre per realizzare una meridiana, spiega Lecci: «Le pareti devono essere rivolte il più possibile al sud, bisogna correggere il fuso, tenere presente l’equazione del tempo. Cose che oggi suonano molto complicate, perché si è perso il rapporto con gli astri». Come si faceva a progettare queste piccole meraviglie secoli fa? Risponde Azzarita: «Se andiamo indietro nella storia troviamo veri e propri scienziati, attenti osservatori del cielo. Eratostene di Cirene (276-194 a.C.) costruì un orologio solare in un pozzo in cui cadeva la luce del sole a mezzogiorno e calcolò la circonferenza terrestre con uno scarto minimo rispetto ai valori odierni. Certo, i contadini di Puglia non erano adeguatamente acculturati, ma ci arrivarono lo stesso con esperienza e intuito».

*Pubblicato da Salento Review, ottobre 2017

Trekking Costiero: itinerari adriatici tra mare e cultura

Dal punto di vista dei turisti il litorale salentino può essere vissuto in totale relax sulle spiagge e sugli scogli, ma può diventare anche lo sfondo di esperienze più intense a contatto con la natura. Il trekking costiero è uno dei modi più autentici di vivere le coste del Salento, soprattutto d’estate e in particolar modo in un momento in cui sono tante le discussioni e le proteste che riguardano lo sfruttamento intensivo dell’Adriatico.

Andrea Sansone e Maria Teresa De Vitis, curatori dell’associazione di turismo esperienziale DieNneAvventura, propongono di seguirli lungo la costa di Otranto. «Un percorso ricchissimo di storia, uno dei più completi e più meticolosamente realizzato dalla nostra associazione – dice Maria Teresa – con attenzione alla cura dei fatti, dei luoghi, della storia e anche dei racconti della gente del posto. Un percorso che coniuga l’attività di trekking alla bellezza e alla conoscenza».

Equipaggiati con un buon paio di scarpe da trekking e dell’acqua, partiamo dalla Torre del Serpe, che rientra nella categoria delle torri a base circolare e forma tronco-conica. Parzialmente diroccata, sono visibili una sola parete e la scarpa, l’ampliamento del basamento per dare una maggior superficie di appoggio alle murature che si ergono in altezza. Torre del Serpe è costantemente presente nell’immaginario di questi luoghi, tanto da essere entrata nell’araldica della città di Otranto dove è rappresentata con un serpente nero che l’avvolge. Si ritiene che la sua costruzione risalga al periodo romano e che la torre avesse la funzione di faro e fu restaurata in seguito ad un potenziamento strategico voluto da Federico II di Svevia. Il nome è legato a un’antica leggenda che racconta di un serpente che ogni notte saliva dalla scogliera per bere l’olio che teneva accesa la lanterna del faro. Un’altra leggenda narra che pochi anni prima della presa di Otranto, nel 1480, i saraceni si fossero diretti verso la città salentina per saccheggiarla, ma anche in quell’occasione il serpente, avendo bevuto l’olio, aveva spento il faro. Secondo il racconto i pirati senza punti di riferimento passarono oltre e attaccarono Brindisi.

Si prosegue dalla Cava di Bauxite. Scoperta negli anni Quaranta da uno studente di Storia naturale che trovò un grosso minerale, il giacimento non si rivelò nel tempo un buon affare per i gestori, perché non si trattava di una vera e propria bauxite, ma di pisoliti bauxitiche (conosciute come “uddhrie” nel dialetto locale) che presentano un livello di allumina piuttosto scarso. Il laghetto è di origine naturale, come se la natura si fosse riappropriata di qualcosa di originariamente suo.

Il cammino sulla scogliera ci porta all’estremo lembo a est d’Italia, dove si trova il faro della Palascìa. Nelle carte nautiche questo è anche il punto di separazione tra l’Adriatico e lo Ionio, con un panorama unico. Il faro è stato recentemente ristrutturato e figura tra i cinque siti culturalmente più rilevanti del Mediterraneo. Qui si è radicata l’usanza di trascorrere la notte di San Silvestro per godere della prima alba del Capodanno italiano.

Rientrando nella fitta macchia mediterranea è possibile visitare la Masseria fortificata medievale Cippano, abitata fino agli anni Cinquanta, scelta tra le location di “Mine Vaganti”, film di Ferzan Ozpetek. La bellissima masseria è integrata nel sistema difensivo e di avvistamento voluto dal re Carlo V per presidiare le coste dell’Adriatico, il cui architetto fu soprattutto Gian Giacomo dell’Acaya. Un capitolo a parte meriterebbero tutte le costruzioni difensive sulla costa salentina. Soltanto la provincia di Lecce conta circa una cinquantina di torri di avvistamento. Sono un risultato di diverse esigenze e sedimenti storici, dall’epoca romana ai normanni fino alla dominazione spagnola. Come abbiamo visto per la Torre del Serpe, tutte hanno una leggenda o una piccola o grande storia da raccontare e che le identifica alla perfezione. Purtroppo di molte di esse restano solo dei ruderi, a volte anche degni di nota, come le Quattro Colonne di Santa Maria al Bagno, ma solo poche sono state oggetto di un serio intervento di recupero e di restauro. Per vivere l’emozione degli scorci di panorama offerti dalle torri ci sono numerose possibilità, con DieNneAvventura e non solo. Le più intense sono sicuramente da vivere in bici.

Proseguendo sull’itinerario proposto, invece, è obbligatorio il passaggio nella Valle delle Memorie. Questo luogo è nascosto tra la vegetazione, dove sembrano siano andati ad annidarsi nel corso dei secoli tutti i ricordi, gli avvenimenti importanti e le tragedie, storia e leggenda.

Più in là, all’ombra dei pioppi, si trova la Cripta di San Nicola, scavata nella roccia insieme ad altre piccole cavità. È una testimonianza del passato bizantino della città, sopravvissuto in clandestinità dopo la conquista normanna. La cripta presenta tre piccole con le absidi orientate a sud. Si scorgono alcuni materiali di spoglio in un corridoio laterale, tra i rovi di un restauro mai avvenuto, ci sono i resti di una specie di atrio e molte croci greche e latine incise sulle colonne. Restano anche delle tracce di affreschi solo abbozzate: sono i volti di alcuni santi. Su un’abside non si distingue bene quello che dovrebbe essere il nome di un sacerdote, mentre è più nitida l’iscrizione su un pilastro, dove si distingue il nome di “Stefano”.

La visita si conclude a Masseria Torre Pinta, sede di un conosciuto Ipogeo. I tre bracci corti della croce sono orientati a ovest, a est e a sud, mentre la buia galleria, lunga 33 metri, che corrisponde al braccio lungo della croce, è orientata a nord. Tutte le nicchie e il corridoio dal basso soffitto, presentano profonde incisioni provocate dalle unghie dei colombi. Se si osserva con più meticolosità, si noteranno alcuni particolari che rimandano direttamente alla cultura messapica: un forno utilizzato per la cremazione o per i sacrifici, centinaia di cavità adoperate come urne cinerarie e un sedile in pietra collocato lungo le pareti, data la loro usanza di deporre i defunti seduti.

*Pubblicato su Salento Review, estate 2017

Valle dell’Idro: meraviglia, mistero, memoria

Forse un luogo fondamentale per la storia e la cultura di un popolo non avrebbe bisogno di tante presentazioni. Però capita di faticare a ricordare cos’è la Valle dell’Idro, fonte di ispirazione per Antonio de Ferrariis detto il Galateo e per le scoperte del Cosimo De Giorgi. Capita, pure, che uno sforzo in più lo si debba fare per comunicare la valle ai turisti, ammaliati dal litorale idruntino e dall’eloquente impatto di Punta Palascìa, primo bacio all’oriente dal Sudest. Ma a ovest di Otranto c’è il letto del fiume che ha dato il nome alla città. La valle è un luogo di culto per gli amanti del trekking e delle escursioni in bici, con le sue salite, le cripte importanti per la storia del territorio e non solo. Il Galateo si meravigliava dell’abbondanza di acqua e dei pozzi dai quali si poteva attingere con le mani, senza usare i secchi. Sembrava di stare, scriveva, in un luogo trapiantato qui dal Peloponneso. Secoli più tardi il De Giorgi si ritrovava in una situazione diversa. La povertà estrema dei coloni e l’aria malsana facevano della zona un ricettacolo di malattie. Dovevano ancora passare diversi decenni prima che la bonifica restituisse la valle com’era ai tempi dei monaci basiliani. In fuga perenne, vuoi dagli iconoclasti bizantini, vuoi dal sacco della città, a loro si devono gran parte degli insediamenti e delle cripte che costeggiano il letto. E il grande mosaico sul pavimento della cattedrale. E il lavoro degli amanuensi di Càsole.

Oggi «La valle è splendida, ma è sporca e poco curata». Sono le parole che troppo spesso i turisti stranieri rivolgono a Salvatore Inguscio, biospeleologo con trent’anni di esperienza sul campo, che con la moglie Emanuela cura Avanguardie, un’agenzia di guide turistiche per il trekking e altre modalità di escursionismo. Sul tema si sono battuti in tanti, soprattutto il Parco Otranto-Santa Maria di Leuca e Bosco di Tricase e poi l’associazione Gnosis, che ha promosso tre settimane di convegni sul territorio con il patrocinio del Comune di Otranto, cui è stato presentato anche un progetto di riqualificazione che la presidente Eliana Masulli descrive così: «Auspichiamo un’indagine archeologica con un approccio multidisciplinare. Dal punto di vista naturalistico speriamo di poter fare una pulizia profonda della valle e recuperare i reperti storici e archeologici anche grazie a una sinergia con i contadini che la rendono sempre rigogliosa e fertile».

Aspettando una rinascita possibile, si può abbozzare un itinerario per godere della meraviglia che la valle sa esprimere. La vegetazione è magnifica, con le querce vallonee, gli alberi di fico che resistono all’edera, le orchidee spontanee, la macchia mediterranea e la formazione di rocce da studiare. E poi anche le specie sconosciute, come il gambero Gammarus niphargus salernianus che Inguscio ha scoperto nei pressi dell’acquedotto di Carlomagno. La sorgente è quasi irraggiungibile, perché si trova nell’area che tutela rare famiglie di pipistrelli, sotto l’impervio costone sul quale si erge il campo che nel 1917 servì agli aviatori inglesi per costruirvi un acquedotto parallelo a metà strada tra la Zona Artigianale e il letto dell’Idro.  

Provenendo dalla città dei martiri, una prima tappa può essere la Masseria di santa Barbara, con il muro megalitico che riporta incisioni di navi (ricorrenza che si ripete nell’omonima grotta) dalle finalità non chiare, probabilmente di avvistamento e di difesa, e con la torre colombaia, anch’essa avvolta da un velo di mistero sul suo impiego. Il mistero ricorre spesso, a Otranto, e per questo la città e la sua storia hanno ispirato numerosi capolavori. Lo troviamo anche nella Grotta della Spiga, ancora sulla sponda destra del fiume, probabilmente un simbolo spirituale inciso nella pietra. E poi il Monte Piccioniere, con le cellette scavate all’interno della roccia.

Sulla sponda opposta, non senza difficoltà, si raggiunge lo splendido Monte Lauro Vecchio. Vi si possono ammirare la già citata Grotta delle Navi e la Grotta del Turco, dove c’è una netta riproduzione di un soldato che brandisce una scimitarra. Entrambe le iscrizioni sembrano risalire all’età del Sacco di Otranto, avvenuto nel 1480. L’ultima tappa è la Selva del Turchese, che precede la meravigliosa vista dal Monte sant’Angelo, dove si trova l’omonima chiesa rupestre nella quale il De Giorgi ritrovò alcune iscrizioni votive in greco, probabilmente realizzate dai basiliani. In questo modo saranno passate tra le quattro e le sei ore e l’imbrunire invita a un ultimo bagno nell’Adriatico per ritemprarsi.

*Pubblicato da Salento Review, primavera 2017

Crea un sito o un blog gratuito su WordPress.com.

Su ↑

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: