Riapre Casa Comi, si risveglia una Comunità

“Armonia: consonanza di voci o di strumenti” (Enciclopedia Treccani). Non poteva esistere una parola migliore per definire l’esperienza umana, artistica e spirituale di Girolamo Comi (Casamassella , Lecce, 1890; Lucugnano,  Lecce,  1968) e del suo lascito nella cultura contemporanea.  Il “Festival dell’Armonia” gli tributa la paternità ideale della manifestazione letteraria che si svolge soprattutto nel suo palazzo di Lucugnano, nel Basso Adriatico; “Spirito d’armonia” è il titolo di una mostra che gli è stata dedicata quest’anno, ma è anche il titolo della selezione delle sue poesie. E il termine ricorre molto spesso nelle sue opere, sebbene al barone di Lucugnano ne interessasse più la simbologia religiosa, mentre a noi preme valorizzare le vicende terrene e lo spirito armonioso di chi ne vuole perpetrare la memoria. Difficile non cogliere una consonanza tra la biografia del fondatore dell’Accademia Salentina e le vicissitudini del suo palazzo, oggi tornato a disposizione di curiosi, visitatori e assetati di cultura.

Già, perché superato il roseto con il suo mezzobusto che campeggia nella piazza che porta il suo nome a Lucugnano, solcato il portone e l’ampio atrio che ospita numerosi incontri pubblici, oggi possiamo ancora leggere la frase che accoglie i visitatori del suo palazzo, estratta da un messaggio che il poeta Alfonso Gatto lasciò al suo amico Girolamo: “In questa casa anche le ombre ti sono amiche”. E possiamo ancora immergerci in un’intensa visita guidata con Angela Caputo Lezzi perché l’associazione di cui fa parte, Tina Lambrini – Casa Comi, si è assunta l’impegno del dialogo con gli enti comproprietari dell’immobile, Provincia di Lecce e Regione Puglia, dopo aver persino occupato il palazzo, che rischiava d’esser ceduto in mano a privati.

Simone Coluccia, presidente di Tina Lambrini – Casa Comi, racconta di questo vero e proprio risveglio di coscienza culturale: «La riapertura del palazzo è stato il riaprirsi di un’intera comunità. È iniziato tutto con il Comitato Pro Palazzo Comi, sponsorizzato dalla Libera Università Popolare del Sud Salento, quando nell’estate del 2015 si seppe che la Provincia aveva emesso un bando per la cessione dell’immobile. L’esperienza dell’occupazione ha cambiato tutto. Una comunità si riavvicinava grazie a Comi. La Provincia revocava il bando e si apriva a una nuova stagione di opportunità e stimoli».

Provincia e Regione sono ora proprietari delle sale al piano terra, dove si trovavano le stalle, il frantoio e il palmento e che adesso ospitano una mostra permanente sulla lavorazione della terracotta e del ferro, tipicità lucugnanesi; la biblioteca dei bambini; parte delle migliaia di volumi che compongono il distaccamento del Polo bibliomuseale leccese, composto dal fondo Fuortes, dal fondo francese dello stesso Comi e dal fondo curato dall’emerito rettore dell’Università del Salento, Donato Valli, grande amico del barone. Completa il tutto il meraviglioso giardino che ospita ancora un alloro piantato dal poeta e una passiflora piantata da Tina, sua domestica, poi moglie e infine custode di Casa Comi e dei suoi tesori, figura da conoscere e amare, non solo per comprendere davvero la consonanza di Girolamo con l’amore, con l’arte e con la cittadinanza, ma degna di una sua traiettoria, tutta da scoprire, che si è meritata la compresenza nel nome dell’associazione che da lei ha ereditato la cura della Casa.

Al primo piano, di proprietà della Provincia, troviamo la biblioteca con i suoi appunti, i carteggi con altri grandi autori come Paul Valéry, le annotazioni sui libri, il celebre e bellissimo salotto in cui si riuniva l’Accademia Salentina, fondata nel 1948 e che vedeva protagonisti, tra gli altri, Maria Corti, Vittorio Bodini, Vittorio Pagano, nucleo redazionale anche della rivista L’Albero, divenuta l’epicentro di una linea meridionale d’idee e scritture. Ai contenuti non sono da meno gli scenari: arazzi progettati dal barone e realizzati dalle celebri maestranze di Casamassella, Surano e Maglie; quadri di pregio; foto e stampe d’epoca, candelabri di legno dorato e ferro battuto; ceramiche artigianali esposte nella sala da pranzo e nella splendida cucina economica; le stanze da letto francescane; l’altarino votivo dedicato alla Natività.

Luigi De Luca, funzionario regionale e direttore del polo biblio-museale di Lecce delinea gli interventi futuri: «Insieme alla Provincia e alla Soprintendenza restaureremo gli interni, le opere d’arte e i libri. Palazzo Comi deve tornare uno spazio di discussione e comunione tra il mondo intellettuale e le comunità intorno ai temi della poesia, del sud e della fraternità. E per il futuro immaginiamo ulteriori progetti, magari residenze per poeti, scrittori e artisti. Abbiamo bisogno di poesia e questa Casa assolverà il suo compito, anche per la preziosa biblioteca che ogni giorno accoglie studiosi e studenti, che già si sentono una comunità».

Nonostante la riforma Del Rio, la Provincia conserva ancora un ruolo importante nella gestione di Palazzo Comi e il suo rilancio rientra nelle linee programmatiche dell’attuale gestione, che il presidente Stefano Minerva riassume in una nota: «La valorizzazione di Palazzo Comi riuscirà ad avere sempre più forza se in sinergia con Regione, Soprintendenza e Comune di Tricase riuscirà ad attrarre investimenti e risorse finalizzate alla promozione delle attività culturali, intensificando il “lavoro di squadra” che enti, associazioni e privati stanno già mettendo in atto».

La strada dell’armonia è quella del futuro per Casa Comi, casa di tutti i salentini e di tutti gli amanti della cultura nel mondo.

*Pubblicato su Salento Review, estate 2019

Masseria Tagliatelle, un nuovo attrattore culturale di comunità

C’è una nuova visione di Lecce che è destinata a entrare nell’immaginario collettivo di abitanti e turisti, modificandone la logistica, l’urbanistica e la geografia culturale.

Il tanto agognato ribaltamento della stazione ferroviaria, i cui tempi di realizzazione sono previsti entro la fine del 2020, porterà con sé la riqualificazione di tutto il Parco delle Cave di Marco Vito con il Ninfeo delle Fate. L’intera area sarà sorretta e impreziosita dalle opere dell’archistar portoghese Álvaro Siza. I leccesi, dunque, sono autorizzati a sognare a occhi aperti, ma non solo:  dal dicembre 2018 hanno potuto sperimentare in concreto come sarà vivere in una città attenta agli stimoli culturali che non partano solo dal centro storico.

L’occasione è stata quella del mancato affidamento della gestione di Masseria “Tagliatelle”, cuore pulsante del Parco delle Cave. Il primo bando non vide la partecipazione di alcun soggetto e l’allora neo amministrazione, guidata dal sindaco Carlo Salvemini, decise di emanare un bando di gestione temporanea dell’immobile, cercando di trasformare quel flop in un’esperienza positiva. Rita Miglietta, ex assessora alla Pianificazione territoriale, ne racconta l’evoluzione: «Il bando di affidamento andò deserto perché questo non prevedeva una partecipazione della città. Ho proposto così alla giunta di avviare un percorso sperimentale che fosse anche una riflessione sui temi chiave dei beni comuni».

I temi individuati riguardano la gestione innovativa di questi immobili attraverso la realizzazione di reti, l’identità visiva e la loro comunicazione, e infine la sostenibilità economica: «Abbiamo immaginato un percorso collettivo, “rafforzando le gambe” dei soggetti che hanno deciso di partecipare, inventandoci un concorso con il nome: “Cosa siamo capaci di fare?”».

Il premio per la partecipazione al bando prevedeva la gestione temporanea della masseria: «Il piccolo miracolo che ne è seguito è che i tre progetti vincitori si sono consorziati nell’associazione Cavie, garantendo l’apertura al pubblico e la proposta di attività sulle loro specifiche competenze».

Scriviamo proprio a ridosso delle nuove amministrative e chiediamo come proseguirà quest’esperienza: «Ci auguriamo di non tornare indietro e che la prossima amministrazione realizzi un bando innovativo, grazie anche ai nuovi strumenti legislativi nazionali come quello del “dialogo competitivo” tra l’amministrazione e gli enti privati e sociali».

Segretario generale dell’associazione Mecenate 90, Ledo Prato è esperto di politiche per la tutela e la valorizzazione dei Beni Culturali. Per il Comune di Lecce ha strutturato e coordinato i laboratori di partecipazione in team con la già citata Rita Miglietta, l’ex assessora alla Cultura Antonella Agnoli e il vicesindaco uscente Alessandro Delli Noci. «L’obiettivo dei laboratori era quello di coinvolgere un certo numero di partecipanti per trasferire loro delle esperienze di gestione di beni pubblici. La metodologia e le procedure messe a punto per questo progetto rappresentano davvero un unicum in Italia per questo tipo di politiche e anche gli esiti sono stati sorprendenti.  Era condizione imposta quella di garantire la presenza all’intera durata dei laboratori, che non prevedevano soluzione di continuità per quindici giorni. Non ci si voleva fermare alla sola teoria e si è aperto alla possibilità di raggruppare i partecipanti in alcuni macrogruppi che hanno poi elaborato i loro progetti, arrivando alla selezione e al finanziamento per la gestione temporanea grazie alla loro decisione di consorziarsi»

Un esempio di buona pratica che potrebbe fare da capofila in tutta Italia, ma che Prato si augura possa ripetersi sempre a Lecce: «La città ha altri beni pubblici per i quali si deve ancora decidere la destinazione. Sarebbe bello che questa esperienza possa essere adottata come una metodologia di routine. L’affidamento di un bene comune non può avvenire a freddo, ma ha bisogno di una traiettoria tale da portare la comunità che la vivrà a identificarsi».

E sull’aspetto della risposta data alla comunità cittadina, a partire dalla realtà urbana che ruota intorno a viale Grassi, hanno riflettuto Giacomo Potì, Davide Negro e Chiara Idrusa Scrimieri, coordinatori, rispettivamente, di Binario Zero, Caveau e Cava delle Fate, poi consorziati nell’associazione Cavie: «Tutte le attività svolte nel periodo di sperimentazione, da dicembre 2018 a maggio 2019, sono state sold out. Si è cominciato con la riscoperta e la riappropriazione dei luoghi con le visite guidate che sono state anche oggetto di performance teatrali e artistiche, proseguendo poi con la partecipazione alle attività proposte secondo i progetti di ciascuno, per coronare il tutto con la sempre più assidua richiesta da parte dei cittadini di essere i protagonisti delle stesse performance e di mettere a disposizione della comunità determinati strumenti per la fruizione e la cura del luogo». Una risposta entusiasmante da parte di tutta la città, al punto che è impossibile descrivere in questi spazi tutte le attività proposte, dal videomapping realizzato nella cava al co-living che rispetta la tradizione di ospitalità della masseria, a disposizione di artisti e innovatori, passando per i laboratori di atelier, autocostruzione e giocoleria per bambini, al co-working e alle mostre di scultura con la realizzazione di un catalogo professionale e agli showcooking.

«La gestione temporanea è stata fondamentale anzitutto per confermare gli interessi intorno agli obiettivi prefissati: l’aspetto culturale legato al luogo; l’attenzione ai bambini; la concessione dello spazio ai freelance e ai lavoratori; la possibilità di gestire mostre ed eventi culturali di alto livello. Per il futuro ci auguriamo si parta sempre dalla comunità che deve vivere questo luogo per strutturarlo in modo “orizzontale” perché non sia abbandonato a sé stesso. Andrebbero poi riviste alcune limitazioni legate ai costi di gestione e alla natura stessa delle realtà cui il bene sarà affidato, ma la strada che abbiamo tracciato la troviamo straordinaria».

Proviamo a visitare brevemente i tesori della Masseria Tagliatelle. La struttura deve il suo nome al fatto di essere una piccola cava di tufo urbana, dunque poco profonda: in genere le tagghiate sono le strisce verticali che si formano sulle pareti per l’attività del taglio di quella pietra leccese che ha dato lustro al rinomato barocco cittadino. Essendo una cava di piccole dimensioni, tali segni sono meno evidenti, più piccoli, dunque tagghiateddhre, da cui l’impropria traduzione italiana di “tagliatelle”. Prima dell’acquisizione del Comune, la masseria era di proprietà della famiglia Papaleo, nome con cui è segnalata sulla rivista “Fede” dallo studioso Francesco Tummarello nel 1925.

L’autore menziona anche l’adiacente Ninfeo delle Fate, struttura ipogea dal rilevante interesse storico-architettonico, risalente al Cinquecento (datazione disputata), anticamera di un complesso termale. Vi si accede da una piccola scalinata all’interno della corte della masseria, per ritrovarsi in due ambienti dialoganti. Nel primo vi sono dodici nicchie che raffigurano alternativamente sei figure femminili, tre per ciascuna parete, e sei nicchie vuote con un semicerchio in alto, raffigurante delle grandi conchiglie. Le sei figure femminili, raffigurate senza braccia, indossano abiti eleganti e, come per tutte le anticamere delle terme, rappresentano delle ninfe. La tradizione popolare le ha trasformate in fate e alcuni racconti popolari narrano che queste di notte si rianimassero per recuperare e nascondere la cosiddetta acchiatura, ovvero il tesoro nascosto e magico delle fate. Più prosaicamente, il secondo ambiente ha una forma circolare, quasi cinque metri di diametro, usata per i bagni, con un bordo per le sedute e un foro sul tetto che permetteva la circolazione dell’aria calda.

*Pubblicato su Salento Review, estate 2019

Il cinema occidentale ai tempi del sovranismo psichico

Due film distribuiti in Italia nel 2018 che dicono qualcosa all’Occidente nell’epoca del sovranismo psichico

Nel corso del 2018 sono stati distribuiti in Italia due film che raccontano con grande maestria e quasi senza retorica il collo di bottiglia in cui si è infilato l’Occidente, fregandosene degli aspetti economici del business cinematografico, o quanto meno trovando una quadra convincente, per sfociare nell’arte pura.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri racconta del brutale stupro e assassino della figlia della protagonista Mildred – episodio che incredibilmente non vedremo mai, nonostante si tratti di un film statunitense – e delle conseguenze gravissime che la ricerca della giustizia a tutti i costi rischia di generare.

L’ottima sceneggiatura, sostenuta poi da un’attenta regia e dalla bravura degli attori permette al film di affrontare diversi generi, dal poliziesco al thriller psicologico, alla commedia romantica o a quella nera, per decantare poi sul vero punto della questione: se le radici della nostra storia affondano nella violenza, non dobbiamo dimenticare l’altro lato della medaglia, quello della ragione.

Proprio perché si sono resi conto di essere “umani”, i pensatori occidentali hanno potenziato il valore di questa umanità, qualcuno anche al punto di immaginarsi un unico dio e di venerarlo come altro da sé.

Raccogliendo l’ideale testimone di Francis Ford Coppola con Apocalypse Now, nel 2016 Martin Scorsese aveva affrontato la stessa questione con la piccola perla Silence, uno dei suoi film meno piaciuti al pubblico, forse, ma dotato di grande intensità, dove però l’impianto retorico non permette al film di dirsi riuscito del tutto.

Come rendere questi contenuti sopportabili allo spettatore medio? Scrivendo battute ironiche se non proprio sarcastiche. Memorabile, per esempio, la risposta di Mildred (Frances McDormand) a padre Montgomery (Nick Searcy) riguardo alle responsabilità collettive e oggettive della Chiesa sulla pedofilia. Un discorso così asciutto e obiettivo, giustificato da un vissuto pieno di dolore, da risultare quasi commovente nel contesto del mainstream.

O ancora la battuta che lo sceriffo Bill (Woody Harrelson) riferisce a un’attonita Mildred (che per altro ha appena subito un’intimidazione da parte del suo dentista) riguardo ai pensieri dei poliziotti sugli omosessuali e sui neri.
Tre_manifesti_a_Ebbing,_Missouri
Una risata ci salverà, dunque, anche in fondo alla disperazione più nera.

Ma c’è qualcos’altro che l’Occidente, e in particolare l’Europa, può apprendere guardando con intelligenza un altro film del 2018, dove ritroviamo Adam Driver, co-protagonista di Silence, questa volta interprete principale dell’atteso lavoro di Terry Gilliam.

L’uomo che uccise don Chisciotte arriva curiosamente nelle sale l’anno del quarantesimo anniversario della Legge Basaglia, fiore all’occhiello di un’Italia che sembrava una volta interpretare la nuova culla della civiltà europea.

La follia, l’altro da sé, un tentativo di governare il caos lasciandosi comunque andare, sono i temi forti e coraggiosi di una pellicola dall’immediato impatto visivo, dove scenografie e fotografia la fanno da padrone.

Il tutto scricchiola un po’ sotto gli abbondanti simbolismi e sotto-argomenti rappresentati: il dogmatismo delle religioni; l’abuso della donna, ora in catene perché vista con disgusto, ora mero oggetto del desiderio; la codardia e il tradimento; l’inganno stesso dello sguardo senza una volontà di conoscere, di andare oltre e scostare il velo di Maja, per generare quella famosa stella danzante che Nietzsche ci ricorda ormai con biasimo, e che Jung ci ammonisce di indagare dentro di noi.

Per sapere che come uomini, anzitutto, e come civiltà, in secondo luogo, abbiamo argomenti per riconoscerci ancora umani e pieni di vita. Un colpo dritto al cuore dell’immaginario collettivo occidentale che uno Slavoj Žižek non avrebbe saputo fare meglio.

Attraverso la catarsi che leggiamo nel finale, capace di accogliere e non respingere il diverso, senza deriderlo come fanno gli stolti e i potenti – arroganti per definizione – ma assecondando l’alterità, ponendo l’ultima e definitiva domanda se costruire un mondo ideale, per imperfetto che sia e riempirlo di vita, o morire sotto regole disumane e routine che regalano gratificazioni effimere e senza significato.

Nell’epoca del “sovranismo psichico”, come lo ha definito Giuseppe De Rita nell’introduzione al Rapporto Censis di quest’anno, il pubblico italiano avrà colto o condiviso, anche solo inconsciamente, i significanti di ciascuna delle opere citate?

A ogni don Chisciotte che ancora esprimiamo da questa parte del mondo, l’augurio di agire sulla consapevolezza che ciascuno sia “colui per il quale sono espressamente riservati i pericoli”. I meravigliosi pericoli e le mirabolanti sfide dei nostri tempi.

*credits della foto in evidenza (L’uomo che uccise don Chisciotte);
credits foto nell’articolo (Tre manifesti a Ebbing, Missouri).

Tra arte e scienza, il Salento dei quadranti solari

«I quadranti solari sono la classificazione più corretta per includere diversi strumenti usati per computare i giorni, le ore o il mezzogiorno dall’età del bronzo fino a un paio di secoli fa»

«Certo, i contadini di Puglia non erano adeguatamente acculturati, ma ci arrivarono lo stesso con esperienza e intuito»

Esiste un Salento inaspettato, quello dei quadranti solari storici e moderni presenti in tutta la provincia, che attrae un numero importante di collezionisti e di visitatori. Cosa sono i quadranti solari? Risponde un grande appassionato, Vito Lecci, fondatore del primo parco astronomico nel Salento, a Salve: «È la classificazione più corretta per includere diversi strumenti usati per computare i giorni, le ore o il mezzogiorno dall’età del bronzo fino a un paio di secoli fa. Sono noti come meridiane, ma la vera meridiana segnala il mezzogiorno, mentre gli altri sono orologi solari – che registrano le ore – oppure calendari astronomici, che indicano alcuni giorni dell’anno come gli equinozi e i solstizi».

L’interesse contemporaneo per questi strumenti ha avuto grande impulso dagli anni Settanta, quando il professore Francesco Azzarita, per pura passione, ha cominciato a fare un censimento, la cui evoluzione è oggi il sito Sundialatlas.eu. L’ex presidente dell’Unione astrofili italiani e fondatore della sezione Quadranti solari ha segnalato oltre quindicimila quadranti, 330 dei quali solo in Puglia. Nel Salento, il più antico quadrante risale al XIV secolo e appartiene alla chiesa di Santa Maria della Strada di Taurisano: «Si tratta dell’unica testimonianza della presenza greca a Taurisano in un misto di sovrapposizioni latine. Finora sembra essere l’unico esemplare di un manufatto di tal genere in Italia, dove già son rari gli esemplari latini dell’epoca medioevale. Il quadrante è incastrato nella facciata a un’altezza di 6,35 metri e non è lontano dallo spigolo orientale. È costituito da un unico blocco circolare di pietra; è fornito di uno stilo perpendicolare al disco. Vi si trovano due iscrizioni e anche lettere isolate».  Sono interessanti anche le opere di Parabita e di Santa Maria di Leuca, ed è possibile realizzare un itinerario che, citando solo i luoghi pubblici, comprende: Casarano, Lecce (nella splendida chiesa dei Santi Nicolò e Cataldo, appena restaurata, ma visibile dal tetto dell’ex Monastero degli olivetani), Campi in Piazza della Libertà, la chiesa di Santa Maria Maddalena a Uggiano, San Foca, San Pietro in Lama, Racale, Taviano, la chiesa di San Giovanni ad Acquarica, il museo di Ugento, le chiese matrici di Galatina e Zollino, la Piazza del Municipio a Matino, Piazza della Repubblica a Gallipoli, via Roma a Carpignano, il Monumento ai Caduti di Salve.

La contemporanea riscoperta dei quadranti solari, dei quali Vito Lecci è uno dei più stimati costruttori nel Salento, si fonda su tre direttrici: l’interesse didattico (molti quadranti sono realizzati nelle scuole), la passione del committente e la pura estetica ornamentale, che ogni tanto porta a realizzare meridiane non funzionanti. Se ne possono trovare di tutti i tipi: semplicemente dipinte sulle pareti, incise e intarsiate nel marmo o nel granito, enormi come quella realizzata a Salve o piccolissime. Grazie a Lecci, il censimento di Azzarita si è arricchito di alcuni elementi molto pregiati, come il quadrante del liceo scientifico “Banzi – Bazoli” di Lecce, elegantemente intarsiato nel marmo, oppure i tre quadranti dell’agrario “Columella”, tecnicamente completi e complessi. Lo stesso parco astronomico di Salve presenta pezzi rari, tra i quali spicca una riproduzione in scala ridotta della piramide Maya a gradoni dedicata al dio Kukulcan: «I Maya credevano che negli equinozi sulla gradinata della piramide si manifestasse il serpente di luce per simboleggiare l’incontro con il popolo. Per esigenze didattiche, io l’ho resa funzionante alle nostre latitudini e in qualsiasi giorno dell’anno, grazie alla base rotante di cui i Maya non potevano disporre!».

Non sono poche le nozioni di cui bisogna disporre per realizzare una meridiana, spiega Lecci: «Le pareti devono essere rivolte il più possibile al sud, bisogna correggere il fuso, tenere presente l’equazione del tempo. Cose che oggi suonano molto complicate, perché si è perso il rapporto con gli astri». Come si faceva a progettare queste piccole meraviglie secoli fa? Risponde Azzarita: «Se andiamo indietro nella storia troviamo veri e propri scienziati, attenti osservatori del cielo. Eratostene di Cirene (276-194 a.C.) costruì un orologio solare in un pozzo in cui cadeva la luce del sole a mezzogiorno e calcolò la circonferenza terrestre con uno scarto minimo rispetto ai valori odierni. Certo, i contadini di Puglia non erano adeguatamente acculturati, ma ci arrivarono lo stesso con esperienza e intuito».

*Pubblicato da Salento Review, ottobre 2017

Trekking Costiero: itinerari adriatici tra mare e cultura

Dal punto di vista dei turisti il litorale salentino può essere vissuto in totale relax sulle spiagge e sugli scogli, ma può diventare anche lo sfondo di esperienze più intense a contatto con la natura. Il trekking costiero è uno dei modi più autentici di vivere le coste del Salento, soprattutto d’estate e in particolar modo in un momento in cui sono tante le discussioni e le proteste che riguardano lo sfruttamento intensivo dell’Adriatico.

Andrea Sansone e Maria Teresa De Vitis, curatori dell’associazione di turismo esperienziale DieNneAvventura, propongono di seguirli lungo la costa di Otranto. «Un percorso ricchissimo di storia, uno dei più completi e più meticolosamente realizzato dalla nostra associazione – dice Maria Teresa – con attenzione alla cura dei fatti, dei luoghi, della storia e anche dei racconti della gente del posto. Un percorso che coniuga l’attività di trekking alla bellezza e alla conoscenza».

Equipaggiati con un buon paio di scarpe da trekking e dell’acqua, partiamo dalla Torre del Serpe, che rientra nella categoria delle torri a base circolare e forma tronco-conica. Parzialmente diroccata, sono visibili una sola parete e la scarpa, l’ampliamento del basamento per dare una maggior superficie di appoggio alle murature che si ergono in altezza. Torre del Serpe è costantemente presente nell’immaginario di questi luoghi, tanto da essere entrata nell’araldica della città di Otranto dove è rappresentata con un serpente nero che l’avvolge. Si ritiene che la sua costruzione risalga al periodo romano e che la torre avesse la funzione di faro e fu restaurata in seguito ad un potenziamento strategico voluto da Federico II di Svevia. Il nome è legato a un’antica leggenda che racconta di un serpente che ogni notte saliva dalla scogliera per bere l’olio che teneva accesa la lanterna del faro. Un’altra leggenda narra che pochi anni prima della presa di Otranto, nel 1480, i saraceni si fossero diretti verso la città salentina per saccheggiarla, ma anche in quell’occasione il serpente, avendo bevuto l’olio, aveva spento il faro. Secondo il racconto i pirati senza punti di riferimento passarono oltre e attaccarono Brindisi.

Si prosegue dalla Cava di Bauxite. Scoperta negli anni Quaranta da uno studente di Storia naturale che trovò un grosso minerale, il giacimento non si rivelò nel tempo un buon affare per i gestori, perché non si trattava di una vera e propria bauxite, ma di pisoliti bauxitiche (conosciute come “uddhrie” nel dialetto locale) che presentano un livello di allumina piuttosto scarso. Il laghetto è di origine naturale, come se la natura si fosse riappropriata di qualcosa di originariamente suo.

Il cammino sulla scogliera ci porta all’estremo lembo a est d’Italia, dove si trova il faro della Palascìa. Nelle carte nautiche questo è anche il punto di separazione tra l’Adriatico e lo Ionio, con un panorama unico. Il faro è stato recentemente ristrutturato e figura tra i cinque siti culturalmente più rilevanti del Mediterraneo. Qui si è radicata l’usanza di trascorrere la notte di San Silvestro per godere della prima alba del Capodanno italiano.

Rientrando nella fitta macchia mediterranea è possibile visitare la Masseria fortificata medievale Cippano, abitata fino agli anni Cinquanta, scelta tra le location di “Mine Vaganti”, film di Ferzan Ozpetek. La bellissima masseria è integrata nel sistema difensivo e di avvistamento voluto dal re Carlo V per presidiare le coste dell’Adriatico, il cui architetto fu soprattutto Gian Giacomo dell’Acaya. Un capitolo a parte meriterebbero tutte le costruzioni difensive sulla costa salentina. Soltanto la provincia di Lecce conta circa una cinquantina di torri di avvistamento. Sono un risultato di diverse esigenze e sedimenti storici, dall’epoca romana ai normanni fino alla dominazione spagnola. Come abbiamo visto per la Torre del Serpe, tutte hanno una leggenda o una piccola o grande storia da raccontare e che le identifica alla perfezione. Purtroppo di molte di esse restano solo dei ruderi, a volte anche degni di nota, come le Quattro Colonne di Santa Maria al Bagno, ma solo poche sono state oggetto di un serio intervento di recupero e di restauro. Per vivere l’emozione degli scorci di panorama offerti dalle torri ci sono numerose possibilità, con DieNneAvventura e non solo. Le più intense sono sicuramente da vivere in bici.

Proseguendo sull’itinerario proposto, invece, è obbligatorio il passaggio nella Valle delle Memorie. Questo luogo è nascosto tra la vegetazione, dove sembrano siano andati ad annidarsi nel corso dei secoli tutti i ricordi, gli avvenimenti importanti e le tragedie, storia e leggenda.

Più in là, all’ombra dei pioppi, si trova la Cripta di San Nicola, scavata nella roccia insieme ad altre piccole cavità. È una testimonianza del passato bizantino della città, sopravvissuto in clandestinità dopo la conquista normanna. La cripta presenta tre piccole con le absidi orientate a sud. Si scorgono alcuni materiali di spoglio in un corridoio laterale, tra i rovi di un restauro mai avvenuto, ci sono i resti di una specie di atrio e molte croci greche e latine incise sulle colonne. Restano anche delle tracce di affreschi solo abbozzate: sono i volti di alcuni santi. Su un’abside non si distingue bene quello che dovrebbe essere il nome di un sacerdote, mentre è più nitida l’iscrizione su un pilastro, dove si distingue il nome di “Stefano”.

La visita si conclude a Masseria Torre Pinta, sede di un conosciuto Ipogeo. I tre bracci corti della croce sono orientati a ovest, a est e a sud, mentre la buia galleria, lunga 33 metri, che corrisponde al braccio lungo della croce, è orientata a nord. Tutte le nicchie e il corridoio dal basso soffitto, presentano profonde incisioni provocate dalle unghie dei colombi. Se si osserva con più meticolosità, si noteranno alcuni particolari che rimandano direttamente alla cultura messapica: un forno utilizzato per la cremazione o per i sacrifici, centinaia di cavità adoperate come urne cinerarie e un sedile in pietra collocato lungo le pareti, data la loro usanza di deporre i defunti seduti.

*Pubblicato su Salento Review, estate 2017

Valle dell’Idro: meraviglia, mistero, memoria

Forse un luogo fondamentale per la storia e la cultura di un popolo non avrebbe bisogno di tante presentazioni. Però capita di faticare a ricordare cos’è la Valle dell’Idro, fonte di ispirazione per Antonio de Ferrariis detto il Galateo e per le scoperte del Cosimo De Giorgi. Capita, pure, che uno sforzo in più lo si debba fare per comunicare la valle ai turisti, ammaliati dal litorale idruntino e dall’eloquente impatto di Punta Palascìa, primo bacio all’oriente dal Sudest. Ma a ovest di Otranto c’è il letto del fiume che ha dato il nome alla città. La valle è un luogo di culto per gli amanti del trekking e delle escursioni in bici, con le sue salite, le cripte importanti per la storia del territorio e non solo. Il Galateo si meravigliava dell’abbondanza di acqua e dei pozzi dai quali si poteva attingere con le mani, senza usare i secchi. Sembrava di stare, scriveva, in un luogo trapiantato qui dal Peloponneso. Secoli più tardi il De Giorgi si ritrovava in una situazione diversa. La povertà estrema dei coloni e l’aria malsana facevano della zona un ricettacolo di malattie. Dovevano ancora passare diversi decenni prima che la bonifica restituisse la valle com’era ai tempi dei monaci basiliani. In fuga perenne, vuoi dagli iconoclasti bizantini, vuoi dal sacco della città, a loro si devono gran parte degli insediamenti e delle cripte che costeggiano il letto. E il grande mosaico sul pavimento della cattedrale. E il lavoro degli amanuensi di Càsole.

Oggi «La valle è splendida, ma è sporca e poco curata». Sono le parole che troppo spesso i turisti stranieri rivolgono a Salvatore Inguscio, biospeleologo con trent’anni di esperienza sul campo, che con la moglie Emanuela cura Avanguardie, un’agenzia di guide turistiche per il trekking e altre modalità di escursionismo. Sul tema si sono battuti in tanti, soprattutto il Parco Otranto-Santa Maria di Leuca e Bosco di Tricase e poi l’associazione Gnosis, che ha promosso tre settimane di convegni sul territorio con il patrocinio del Comune di Otranto, cui è stato presentato anche un progetto di riqualificazione che la presidente Eliana Masulli descrive così: «Auspichiamo un’indagine archeologica con un approccio multidisciplinare. Dal punto di vista naturalistico speriamo di poter fare una pulizia profonda della valle e recuperare i reperti storici e archeologici anche grazie a una sinergia con i contadini che la rendono sempre rigogliosa e fertile».

Aspettando una rinascita possibile, si può abbozzare un itinerario per godere della meraviglia che la valle sa esprimere. La vegetazione è magnifica, con le querce vallonee, gli alberi di fico che resistono all’edera, le orchidee spontanee, la macchia mediterranea e la formazione di rocce da studiare. E poi anche le specie sconosciute, come il gambero Gammarus niphargus salernianus che Inguscio ha scoperto nei pressi dell’acquedotto di Carlomagno. La sorgente è quasi irraggiungibile, perché si trova nell’area che tutela rare famiglie di pipistrelli, sotto l’impervio costone sul quale si erge il campo che nel 1917 servì agli aviatori inglesi per costruirvi un acquedotto parallelo a metà strada tra la Zona Artigianale e il letto dell’Idro.  

Provenendo dalla città dei martiri, una prima tappa può essere la Masseria di santa Barbara, con il muro megalitico che riporta incisioni di navi (ricorrenza che si ripete nell’omonima grotta) dalle finalità non chiare, probabilmente di avvistamento e di difesa, e con la torre colombaia, anch’essa avvolta da un velo di mistero sul suo impiego. Il mistero ricorre spesso, a Otranto, e per questo la città e la sua storia hanno ispirato numerosi capolavori. Lo troviamo anche nella Grotta della Spiga, ancora sulla sponda destra del fiume, probabilmente un simbolo spirituale inciso nella pietra. E poi il Monte Piccioniere, con le cellette scavate all’interno della roccia.

Sulla sponda opposta, non senza difficoltà, si raggiunge lo splendido Monte Lauro Vecchio. Vi si possono ammirare la già citata Grotta delle Navi e la Grotta del Turco, dove c’è una netta riproduzione di un soldato che brandisce una scimitarra. Entrambe le iscrizioni sembrano risalire all’età del Sacco di Otranto, avvenuto nel 1480. L’ultima tappa è la Selva del Turchese, che precede la meravigliosa vista dal Monte sant’Angelo, dove si trova l’omonima chiesa rupestre nella quale il De Giorgi ritrovò alcune iscrizioni votive in greco, probabilmente realizzate dai basiliani. In questo modo saranno passate tra le quattro e le sei ore e l’imbrunire invita a un ultimo bagno nell’Adriatico per ritemprarsi.

*Pubblicato da Salento Review, primavera 2017

Prima del buio, le tre vite di Nathaniel che sta diventando cieco

La sezione pugliese del Gus – Gruppo Umana Solidarietà e il percorso innovativo progettato per un migrante colpito da un glaucoma. E tanti stereotipi smontanti intorno alla cosiddetta “seconda accoglienza”.

 

Ci conosciamo da meno di cinque minuti e Nathaniel già mi mostra le foto della sua famiglia, in Nigeria. Ce n’è una in cui abbraccia tutti con tenerezza: la moglie Juliana, la primogenita Precious, la piccola Joy e i due figli maschi Prince e Divine. Nathaniel fissa per istanti lunghissimi le foto, le accarezza tenendo il suo smartphone in obliquo davanti a sé. Da pochi giorni ha chiesto a parenti e amici di inviargli le foto che li ritraggono nei posti in cui hanno condiviso quotidianità ed esperienze: vuole imprimere nella memoria volti, luoghi e dettagli per non scordarli mai più, perché presto sarà capace di disegnare con le mani i volti che ama. Vuole farlo perché la sua vista potrà solo peggiorare. Alcuni mesi fa gli hanno diagnosticato un glaucoma a uno stadio molto avanzato e adesso la sua acutezza visiva non supera il 30 per cento.

Quando cerca di parlarmi del suo problema, Nathaniel non lo nomina mai, si emoziona e ripete la stessa formula: «Se dio vuole non sarò cieco, o lo sarò il più tardi possibile, e finalmente potrò rivedere mia moglie e i miei figli, e loro saranno fieri di me».

Al suo fianco ci sono gli operatori dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) Gruppo Umana Solidarietà (Gus) di Castrì di Lecce e l’accuratezza del programma della società 3T Service (Turismo, territorio e tutela), guidata da Alessandro Napoli con Sonia Gioia. Interpellati dal Gus, i due hanno sviluppato un percorso specifico per Nathaniel, basato sulla loro esperienza personale: Alessandro è diventato cieco da bambino, sempre per un glaucoma, e Sonia è ipovedente.

Le tre vite di Nathaniel

Inventarsi una nuova vita, per Nathaniel, a 46 anni e a più di cinquemila chilometri da casa, era di per sé una sfida, ma data la sua tempra queste difficoltà non bastavano. Si è aggiunta la crescente ipovisione a mettere a rischio i suoi progetti. Mi racconta tutto con il suo ottimo inglese, come se fosse nel bel mezzo dell’azione, e la cosa mi stupisce perché fino a quel momento mi ha dato l’impressione di essere una persona di poche parole. Fino al 2013 la sua sarebbe stata la storia di un piccolo commerciante anglicano del villaggio igbo di Umubochi, a poco più di cento chilometri dall’oceano Atlantico. Viveva con i suoi famigliari nella casa dei fratelli e aveva un emporio con pezzi di ricambio per auto, accessori per l’abbigliamento, prodotti per l’igiene intima e per la casa, cellulari e alimenti in scatola.

Un giorno scoppia una violenta lite con i fratelli per l’eredità di un parente. «La vita da noi ha meno valore di alcune cose», mi dice con amarezza. Il pensiero va alla vicenda del padre, arrestato per aver sparato alla pecora di un vicino perché gli aveva devastato il raccolto: in carcere ha contratto qualche infezione che al suo rilascio gli ha concesso solo un mese di vita. «Ho avuto paura, così ho portato mia moglie e i miei figli nella casa di mia madre e siccome nel mio villaggio non potevo più lavorare sono andato in Libia con un amico».

I due salgono così sul primo dei tanti bus scassati che trovano e arrivano a Tripoli, dove si sistemano in un ghetto gestito da un piccolo boss, dal quale ricevono il permesso di avere un posto dove dormire in cambio di soldi: «Una sweet life che doveva essere pagata con grande attenzione. Bisognava portare sempre tutto con sé e non appoggiare mai niente sui tavoli o sui catini, perché subivamo furti anche mentre ci lavavamo la faccia». Per due volte gli rubano tutti i risparmi e l’ultima decide di andare via. All’autolavaggio dove lavora comincia ad avere qualche problema, gli occhi gli fanno brutti scherzi. Viene visitato da un dottore arabo che trova un occhio compromesso, gli consiglia un’operazione e gli scrive un referto. Nathaniel non capisce la lingua e non segue il consiglio: «Non potevo andare in ospedale perché non avevo documenti e mi avrebbero arrestato, ho molta paura della polizia libica». Intanto nelle sue condizioni viene allontanato dal lavoro e non può mandare soldi a casa, dove cominciano a pensare che stia cercando di sparire.

«Il mio problema in Nigeria non è preso sul serio, è una cosa culturale, finché abbiamo gli occhi dovremmo vederci».

Gli chiedo se di fronte ai dubbi della sua famiglia si sia sentito perso: «No, era nel disegno di dio». Così come dice sia stato dio a fargli avere l’intuizione di potersi imbarcare per arrivare in Italia: «Sentivo che qui avrei potuto almeno capire cosa mi è successo». Così spende i suoi ultimi 950 dinari, circa 600 euro, e convince il suo amico Christian ad accompagnarlo nella traversata. La notte dell’imbarco ha una specie di paralisi, non riesce a muoversi, forse solo per la paura. Il suo amico lo trascina sul barcone, dove sono stipate altre quarantaquattro persone. Dopo diciotto ore di viaggio il mare si agita e cominciano a esserci i primi problemi per la mancanza di aria e di spazio. Anche per questo motivo Nathaniel è immerso per metà in acqua e una donna lo tiene stretto per impedirgli di cadere. Un elicottero della guardia di finanza individua i profughi e invia una motovedetta. Dalla barca delle fiamme gialle gli tirano una corda, lui la vede e vorrebbe afferrarla, ma non ce la fa. Gli altri compagni di avventura ancora sul barcone se ne accorgono e insieme lo issano fino a fargliela afferrare. Nessuno quella notte si è fatto male. Dopo un’altra notte di viaggio, il 16 febbraio 2015 i migranti arrivano a Lampedusa.

Nathaniel è ancora semicosciente. Un uomo di nome Mahmoud lo preleva dalla lunga fila dove si trova per aspettare cibo e cure e lo porta in cima. Quando riceve acqua e cibo scompaiono la rigidità e i dolori. A Lampedusa, e così nel centro di accoglienza in Sicilia dove lo trattengono pochi giorni, riceve un trattamento standard.

Un po’ più gravi sono le responsabilità di chi lo accoglie in un albergo per i rifugiati del Nord Italia, mi racconta, dove è costretto a vivere per alcuni mesi senza potersi muovere né fare nulla. In quella sede consegna il referto del medico arabo e così ottiene due visite mediche senza che il glaucoma sia riconosciuto in tutta la sua gravità.

Di quei sette mesi ricorda l’assenza di luce: la camera in penombra, il bisogno compulsivo di dormire, il cielo di una luce spenta che non aveva mai visto. Ha paura per i suoi occhi, ma non riesce a comunicarlo.

Viene infine registrato come portatore di un disturbo lieve e assegnato alla sede centrale del Gus, a Macerata. Peccato che lo lascino senza guida, così resta nel treno di partenza, perde il cambio, si ritrova a Bari e viene rocambolescamente recuperato dagli operatori di Macerata.  Il Gus lo fa arrivare al centro specializzato per i soggetti vulnerabili a Castrì di Lecce, dove grazie all’Unione italiana ciechi ottiene il bastone bianco. È un nuovo inizio.

«Ho trovato degli angeli»

«Qui ho trovato degli angeli» dice, asciutto, Nathaniel. Il suo cuore è colmo di gratitudine per i gestori del centro. Un’intuizione di un assessore comunale, Diomede Stabile, anche lui disabile, porta Divina Della Giorgia, coordinatrice del progetto per il Gus di Castrì, a contattare gli “specialisti” Alessandro e Sonia. Nathaniel può ora contare su alcune attività che gli permettono di non abbassare la qualità della sua vita e di sfruttare al meglio la vista che gli rimane: passa dalle lezioni di Braille all’uso della tecnologia senza scordare la capacità di risposta alle attività al buio. Riceve, inoltre, una formazione da canestraio, che può garantirgli un inserimento come artigiano nella realizzazione di cesti in vimini con un maestro d’eccezione come l’artigiano Raffaele De Giorgi e frequenta le lezioni di italiano: «La mia testa non vuole memorizzare» si schernisce sull’argomento, ma parla molto bene del suo insegnante, dotato di grande pazienza.

«Siamo i primi a sperimentare un percorso di questo tipo –   esordisce Alessandro Napoli –, non avevamo un modello da seguire, ma principi cui ispirarci. A dieci anni dalla sua approvazione, in Italia non è stato esplicitato il pensiero espresso dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone disabili per cui non si decide “Nulla su di noi senza di noi”. Non ci sono disability manager essi stessi disabili come invece è accettato in tutta Europa».

 

Alla lacuna hanno sopperito relazioni e competenza: «Siamo intervenuti come agenzia turistica dedicata all’accessibilità, perché i servizi e i principi di questa pratica erano assimilabili ai bisogni e alle responsabilità di Nathaniel come cittadino».

In un centinaio di ore Nathaniel apprende a scrivere e leggere in Braille, a usare i supporti tecnologici per disabili della vista con lo smartphone e con il computer, a sbrigare con una benda sugli occhi le faccende di casa e le proprie necessità igieniche senza dover ricorrere all’aiuto di altri. In particolare, ricorda Sonia «è stato un momento importante quando ha rovesciato un secchio d’acqua a terra e ha usato gli altri sensi, come il tatto con il piede, per capire dove si era formata la pozza per poi asciugarla del tutto». Anche Nathaniel parla dell’episodio come di un momento in cui ha capito che non sarebbe diventato «inutile». Questa consapevolezza è stata molto importante, perché, spiega Divina, «anche se gli altri otto coinquilini dei nostri appartamenti lo hanno accolto e un po’ coccolato, adesso lui comincia a fare la sua parte».

Non è finita qui, però, perché un pezzo difficile del suo adattamento sarà il cosiddetto terzo livello, come spiega Alessandro: «Deve prendere coscienza degli spazi dove vive, per questo abbiamo sviluppato percorsi di orienteering nel centro storico di Lecce e in altri piccoli centri come ad Alliste, che è la sede della 3T Service. In questo, è ovvio, Nathaniel ha più difficoltà e deve reggere l’impatto con la vita sociale».

Quando un migrante non è una risorsa, ma solo un uomo

Alessandro ha accennato a diritti e doveri di Nathaniel come cittadino: «Ha un’educazione e una responsabilità esemplari e con lui non ci poniamo da “teacher” come ci chiama scherzando. Abbiamo scelto un rapporto amichevole, orizzontale. L’unico timore che abbiamo è che una volta uscito dal Gus possa risentire dei tre potenziali fattori discriminanti della sua esperienza. Il fatto di non essere un rifugiato, ma “solo” un titolare di protezione umanitaria; la vecchia solfa che ancora tira tanto della discriminazione etnico-razziale e la discriminazione forse più pesante che subiamo anche noi tutti i giorni, quella di essere un disabile».

La domanda istintiva di un cittadino sottoposto al bombardamento mediatico delle dichiarazioni di Matteo Salvini è: «Chi glielo fa fare al Gus e alla 3T Service di seguire un migrante in queste condizioni?». Il cittadino in questione ignorerà che gli immigrati presenti regolarmente in Italia pagano le pensioni di 620mila italiani, per dirne una che tocca il portafoglio. La risposta economica non può essere esaustiva, dunque, stando anche alle ultime rilevazioni. I dati diffusi dal ministero dell’Interno e dall’European Migration Network (Emn), risalenti al 2011, raccontano dell’Italia come del secondo Paese europeo scelto dai rifugiati (40.355 richieste d’asilo) e del terzo per spesa annuale complessiva e pro capite (860 milioni di euro in totale, 21.311 euro a testa). L’ultimo rapporto della fondazione Leone Moressa riporta la spesa stimata dall’Interno per il 2015: 1 miliardo e 162 milioni, cioè lo 0,1 per cento della spesa pubblica italiana complessiva. Costi che non salgono troppo rispetto al 2011, nonostante l’allarmismo da invasione. Anche la spesa pro capite giornaliera sfata un mito della retorica razzista: è vero che questa ammonta a circa 35 euro, ma un terzo è da ripartire per il personale impiegato.

Tolti gli altri costi restano le spese destinate per intero ai migranti, come sottolinea Andrea Pignataro, responsabile nazionale Volontariato, Politiche giovanili e Servizio civile nazionale del Gus e coordinatore dei progetti in Puglia:

«Il cosiddetto pocket money ammonta a circa 3 euro, più 3,5 euro per le spese alimentari. Un aspetto che la retorica non coglie mai è che queste somme rappresentano un valore economico che ritorna al territorio, come gli stipendi ai nostri operatori, che spesso e volentieri sono laureati e altamente qualificati; i servizi, che non sono gestiti da società con sede legale sulla luna; il rapporto che si crea con i commercianti locali, che per esempio ricominciano a vendere alcune schede telefoniche o, in modo meno salubre, alcune marche di sigarette».

«Bisogna contare il contributo per l’affitto dell’alloggio per un massimo di sei mesi, se serve, quando i migranti escono dai nostri progetti – aggiunge Giancarlo Quaranta, operatore legale e sociale del gruppo –, anche quelli sono soldi che ricadono sull’economia del territorio».

Divina Della Giorgia parla del progetto, che ospita nove persone provenienti da Nigeria, Gambia, Senegal, Siria, Bangladesh, Marocco e anche un curdo iracheno. Le persone vulnerabili che sono ospitate qui sono portatrici di diverse disabilità, patologie e handicap visibili e non visibili. Dei nove ospiti attuali, otto godono di protezione per motivi umanitari e solo uno è un beneficiario di diritto d’asilo. Dalla sua apertura nel 2014 sono state ospitate una ventina di persone. Il centro pratica l’accoglienza integrata come filosofia volta alla piena autonomia dei migranti. Molto positivi i risultati raggiunti finora: a menadito e con grande tenerezza Divina, Andrea e Giancarlo mi parlano di un caso di ritorno, con un cittadino afghano che ha deciso di tornare in patria dopo un’operazione delicata. E poi il pakistano che ha aperto un ristorane etnico a Roma, ma anche i due ragazzi assunti dalla pizzeria della piazzetta che si trova vicino agli appartamenti.

Colpisce la normalità nella quale tutto ciò si svolge, una normalità di cui persone ferite nel corpo e nello spirito hanno un grande bisogno. Forse è questa possibile normalità che spaventa alcuni politicanti. Certo al Sud certe cose sembrano più facili, come conferma Pignataro: «Qui l’accoglienza per i nostri progetti è un dato di fatto, non uno stereotipo. I territori dove c’era meno presenza di stranieri li hanno accolti meglio perché magari sono meno saturi. Ma il dato speciale è l’attenzione del Gus alle specificità del territorio che permette un inserimento dolce e questo approccio paga sempre».

Divina chiude il cerchio: «L’Altro. L’incontro e l’esperienza dell’Altro sono la risposta».

Uno sguardo al futuro, contro le politiche emergenziali

La chiusura delle frontiere dei Balcani e la pressione su Turchia e Grecia pongono interrogativi sull’ emergenza che potrebbe colpire di qui a breve proprio la Puglia, includendo anche il possibile intervento militare in Libia. Nel 2015 il tacco d’Italia si è piazzato al nono posto per la presenza di immigrati (dati del ministero degli Interni). Pignataro è nella posizione di poter fare delle previsioni: «Sono reduce da un po’ di tempo passato dalla nostra consorella Gus Albania dove ho incontrato il capo della polizia albanese, la direttrice dell’Unhcr del Paese, la responsabile della commissione Asilo, la responsabile del dipartimento Immigrazione del loro ministero degli Interni e l’ambasciatore italiano. Abbiamo svolto un’analisi sui luoghi dove si vorrebbero accogliere i migranti, Corizza e Argirocastro. L’idea che ci siamo fatti è che la frontiera sia aperta solo al Sud: si entra solo se si richiede asilo politico altrimenti si viene riaccompagnati indietro e non espulsi per andare dove si vuole. Non c’è nessun influsso pericoloso per la Puglia al momento».

«Considero l’accordo che l’Unione europea ha preso con la Turchia molto doloroso, un barattare morti con vivi con un’operazione contraria al rispetto dei diritti umani e della vita. Migrazione politica ed economica in questo senso hanno pari dignità e non si possono mettere quote, occorre una riforma vera. In questo caso esiste solo la distinzione tra umanità e disumanità».

«Per quanto riguarda la Libia, non posso fare stime: in quanto nonviolenti e pacifisti siamo preoccupati per tutto ciò che comporta fare una guerra. Ma se il problema è la cosiddetta invasione, l’Unione europea ha 500 milioni di abitanti. A partire dalla primavera araba a oggi sono arrivate un milione di persone. Penso che un’invasione debba avere numeri differenti, stando ai libri di storia».

Contro l’indifferenza

Ho chiesto a Nathaniel come pensa sarà il suo futuro, visto che i primi sei mesi di permanenza negli alloggi del Gus scadono a maggio. Saranno prorogati quasi con certezza, ma tra un anno cosa farà?

«Vorrei stare con la mia famiglia il più vicino possibile ad Alessandro e Sonia. Vorrei rivedere con i miei occhi la mia famiglia e vivere al massimo delle mie possibilità con un lavoro dignitoso».

Un’umanità condivisa dall’impegno quotidiano del Gus e della 3T Service. Ho conosciuto Nathaniel in occasione della lettura al buio del romanzo Cecità di José Saramago. Mi viene in mente che questa umanità sia la risposta alla domanda di relazione con l’Altro. L’impegno è quello di smentire una considerazione al centro del romanzo: «È di questa pasta che siamo fatti, metà di indifferenza e metà di cattiveria». Contro tutto questo evitare l’indifferenza.

Articolo pubblicato il 14 aprile 2016 sulla Gazzetta del Mezzogiorno on line.

Turismo accessibile nel Salento: luci e ombre

Il Gigante di Felline (Lecce), a pochi chilometri dalla costa ionica, sembra aspettarti da secoli. La sua maestosità respira e trasuda. Grazie alla percezione tattile, tutto il tuo corpo è coinvolto, e nonostante i 14 metri di chioma, i 10 d’altezza e i 12 di circonferenza, ti sembra di stringere tra le braccia una vita fragilissima. Ti sembra di abbracciarlo e che lui ricambi. Colpito dal batterio xylella fastidiosa, questo pezzo di duemila anni di storia del Salento ha reagito positivamente grazie a un innesto di leccino che sembra averlo salvato. Grazie alla larghezza della sua base, ci puoi entrare dentro e sentirti protetto, ma anche suonare la chitarra e fare un piccolo spuntino in compagnia. Con grande generosità, il proprietario del terreno lascia entrare i turisti e coloro che vogliono provare l’esperienza. Una questione di cuore, come quello che sorregge il grado di accessibilità del turismo salentino.

Questa e altre esperienze mozzafiato e multisensoriali nel Salento, Samuele Frasson, 30 anni, consigliere dell’Unione ciechi di Varese, le ha vissute nell’agosto del 2014. La sua associazione ha portato per due settimane 17 persone a godersi l’estate con pacchetti chiari, ma anche piacevoli fuoriprogramma. La loro fortuna è stata quella di entrare in contatto con imprenditori sociali e disabili al tempo stesso come Diomede Stabile (accessalento.it) e Alessandro Napoli (3tservices.it). Grazie alle loro capacità e all’esperienza del territorio, i due hanno imparato a rendere magica un’esperienza che deve ancora esprimere tutto il suo potenziale. «Loro sono la marcia in più dell’accessibilità per il vostro turismo», dice Samuele.

I pionieri del turismo accessibile  

«Diomede è un pioniere del settore – lo presenta Alessandro –, nel 2008 ha vinto il bando regionale Principi Attivi con la sua Anyway Accessalento per realizzare la “Prima guida sul turismo accessibile del Salento”». «Con la loro 3T Service (dove le tre “t” stanno per turismo, territorio e tutela, ndr), dalla piccola Alliste Alessandro e sua moglie Sonia offrono una gamma di servizi e intuizioni importanti per l’accessibilità del territorio», li presenta Diomede, portatore della malattia di Charcot-Marie-Tooth. Sandro e Sonia, cieco totale lui e ipovedente lei, proseguono: «Dopo la nostra esperienza fuori dalla Puglia per vicissitudini private abbiamo deciso di investire su noi stessi improntando la nostra azione verso l’accessibilità nei rispettivi codici». Alessandro è specializzato nel Braille e Sonia nel Malossi. Il loro network comprende alcune delle realtà più attive, come i circuiti Turismetica e Open Blind. Tra le attività principali la collaborazione al progetto No Barrier della Provincia di Lecce, per la quale hanno realizzato delle miniguide in braille e lo sviluppo di materiale tattile a uso mappa in 3d per il network Cittàtralemani.


Dopo lo sviluppo della guida, per la quale sono stati coinvolti 1500 esercizi, con 300 riscontri e un’ulteriore selezione finale, Anyway ha invece ottenuto un passaggio alla Bit di Milano, ha ispirato evoluzioni del progetto in Italia e all’estero e poi, continua Diomede: «offriamo consulenza e formazione alle imprese pubbliche e private e organizziamo corsi di formazione per “Operatori del Turismo Accessibile”». Diomede è intanto diventato consigliere del suo Comune, Castrì di Lecce, e socio del parco turistico-culturale «G. Palmieri» di Martignano, diretto da Leo Rielli.

La mediazione offerta da Anyway e 3TService serve a coprire le carenze di un territorio non sempre all’altezza dei numeri che attrae e a volte culturalmente disattento alle necessità dei disabili. Oltre a individuare i posti giusti per tutte le esigenze, Diomede e Alessandro organizzano visite guidate coinvolgenti, offrendo esperienze tattili nella fruizione di monumenti e altri aspetti della cultura del territorio, dalle doverose visite nel cuore del barocco leccese, ma anche Otranto, Gallipoli e nei posti mozzafiato come Castro oppure nel cuore di eventi come il cartellone della Notte della taranta, vissuta in piena sicurezza. E poi trekking rurali e memorabili fuoriprogramma. Un esempio è quello del picnic sotto il Gigante di Felline, ma anche l’escursione al frantoio ipogeo di Castrì, con degli accompagnatori speciali, cioè il sindaco e gli assessori del Comune. Il trekking rurale per disabili, in particolare, spiega Alessandro, «è stato trascurato in passato, ma le nostre campagne, con piccoli accorgimenti nei percorsi si prestano alla grande sia per disabili della vista che per disabili motori. Offrono paesaggi unici, esperienze straordinarie di conoscenza e di autocoscienza, arricchiscono il potenziale turistico del nostro territorio e non sono legate a una stagione in particolare». «I nostri gruppi per le escursioni non sono mai “chiusi”, ma eterogenei – puntualizza Diomede – perché preferisco che ci sia coinvolgimento anche con i normodotati e che anzi ogni esperienza sia progettata per tutti».

Un Salento da 8 in pagella

La ricaduta di questo impegno? Samuele Frasson: «Assegno un bell’8 in pagella al fantastico Salento, ci tornerò senz’altro, ma è grazie all’impegno di operatori sensibili che le difficoltà sono sembrate più lontane». Giovanni Leoni, 65 anni, presidente dell’associazione La Goccia, di Lecco, è stato in vacanza nel 2011 per una settimana con 40 persone, metà disabili della vista, psichici e motori, e metà accompagnatori. «Il mio voto è di 8/10. Grazie a Diomede abbiamo goduto al meglio di tutti i posti (Castro e Otranto resteranno nel mio cuore), abbiamo vissuto a pieno la vostra Lecce e vissuto tanti bei momenti. Quando hai la possibilità di gestire queste cose al meglio, curare i dettagli della logistica, allora non hai tempi morti e valorizzi il tempo a disposizione. E apprezzi». Fabrizio Marta, 45 anni, disabile motorio, responsabile delle risorse umane al Consorzio servizi sociali di Verbania e autore del blog Rotellando per Vanity Fair: «Sono stato molte volte nel Salento e assegno un 7 complessivo, ma quando nel 2013 Diomede si è occupato delle mie vacanze, è stata l’unica volta che ho trovato una casa privata completamente accessibile e anche vicina al mare come desideravo».

Samuele e Giovanni hanno scelto la grande struttura Residenza Torre Rinalda (torrerinaldaresidenza.it). A dire il vero Giovanni aveva scelto un altro albergo. Il proprietario era molto gentile e cercava di venire incontro al meglio alle esigenze dei clienti. Ma alla fine del secondo sopralluogo della Goccia, quando gli operatori erano già era sul treno del ritorno, costernato il proprietario li chiama dicendo che si tirava indietro perché la moglie gli aveva fatto notare che i clienti affezionati avrebbero forse provato fastidio ad avere così tanti disabili intorno. Il lato oscuro del Salento.

A distanza di tre anni da ciascuna visita i due gruppi di ospiti hanno trovato squisita l’accoglienza del residence, che ha via via curato particolari e attenzioni. Il pranzo, per esempio, oltre ad essere ricco e vario, e permettere dunque ampia e ottima scelta agli ospiti con diverse esigenze alimentari, non è più solo un buffet, che rende necessario l’accompagnamento, ma è servito ai tavoli se è il caso. Ed è migliorata anche la possibilità di fruire di tutte le aree della grande struttura, comprese le due piscine per adulti e bambini. Le stanze sono ampie e attrezzate per la disabilità motoria, ma c’è anche una buona assistenza per i disabili sensoriali. I cani guida possono sostare e usare anche il piccolo cortile di cui è dotata ogni stanza. La distanza tra i vari locali e il mare è minima e sempre pianeggiante: un bar, un bazar un’edicola, l’anfiteatro, il centro estetico. Distanza zero tra le stanze e il mare. In spiaggia gli ombrelloni sono in prima fila e dotati di sedie job. Quest’ultimo accessorio è molto presente sulle spiagge salentine. Fabrizio: «Non esisteva neanche in molte spiagge di Rimini o della Liguria e mi ha fatto piacere trovarlo praticamente in tutti i lidi che ho visitato».

Le zone d’ombra

Per tornare al lato oscuro. Oltre alla disavventura con la prima struttura scelta, Gianni è abbastanza netto: «non torneremmo nel Salento perché il viaggio è lungo circa 1200 chilometri e in treno è un calvario per la lentezza e per i disservizi», non può scegliere l’aereo, «e in pullman nelle autostrade è una sofferenza che non vorrei più infliggere al gruppo». Per non parlare del trasporto pubblico locale. Samuele: «Senza la mediazione di Diomede che ci ha trovato una soluzione su misura affittando un pulmino, sarebbe stato impossibile spostarsi». Con i mezzi non è andata bene neanche a Fabrizio: «Tutte le volte che sono venuto ho evitato di guidare io perché ero con amici. Quando ho provato a venire da solo, ho dovuto rinunciare. Anzitutto perché ho capito che senza auto nel Salento non vai da nessuna parte, sembra essere un fatto culturale, e poi perché non si trovava nessuna auto a noleggio attrezzata per me. Tranne qualcosa di molto complicato nei pressi di Bari. Insomma, niente da fare. Eppure io viaggio tantissimo».  C’è anche altro, per Fabrizio, che ha esplorato quasi tutto il litorale salentino: «Il mio 7 è per la costa adriatica. Va detto che le condizioni morfologiche, la pianura, l’aerosità e persino la pietra dei basolati dei vostri centri storici aiutano molto, oltre alla naturale inclinazione per l’accoglienza. Ma il mio voto si trasforma in 4 se parliamo dello Ionio, eccetto le “Maldive” (il litorale di Pescoluse, ndr). Da quel versante sono chiaramente interessati ad altro ed è difficile rendere accessibile il sistema».

Dieci milioni di potenziali clienti

La Puglia deve fare molto per tentare di presentarsi come regione accessibile e non solo dal punto di vista delle strutture di accoglienza. I numeri sembrano interessanti: secondo un’indagine di Europcar-Doxa nel 2015 questo turismo riguarda circa dieci milioni di persone, oltre il 16% delle famiglie guardando solo all’Italia, che se solo trovassero servizi adeguati varrebbe 27,8 miliardi di euro. L’1,75% del PIL nazionale. Secondo il Libro bianco sul settore, pubblicato nel 2012, la risposta della Puglia è stata di soli cinque progetti completi attivi. Il Libro bianco, prevede azioni di monitoraggio e di responsabilità politica, economica e sociale.

Puglia For All

 La Regione ha attivato il primo tassello, con il progetto di monitoraggio e censimento Puglia For All. Promosso dall’agenzia regionale del Turismo PugliaPromozione, in attuazione degli obiettivi strategici dell’assessorato regionale, è stata condotta una rilevazione delle informazioni relative all’accessibilità delle strutture ricettive pugliesi, affidandone il servizio alla società specializzata Village4All, che ha vinto l’apposito bando pubblico. “Da progetto, – si legge nella relazione di Puglia Promozione – il numero di strutture ricettive da monitorare è 400, di cui 100 nel Gargano e Daunia e 300 divise tra Puglia Imperiale, Bari e la Costa, Valle d’Itria, Magna Grecia Murgia e Gravine e Salento. Hanno risposto alla call Puglia For All, lanciata dall’Agenzia da aprile 2015, per la selezione delle strutture da rilevare, circa 300 strutture alberghiere ed extralberghiere.  Sono state monitorate effettivamente, alla data del 31 dicembre 2015, 250 strutture ricettive tra alberghi, affittacamere, agriturismi, campeggi, case e appartamenti per vacanze, case per ferie, motel, ostelli, residence, villaggi albergo”.  Il monitoraggio, non ancora completo, è stato poi aggregato da seminari professionalizzanti per il settore e affiancato da altri progetti di sensibilizzazione come il già citato No Barrier della Provincia di Lecce. “Il risultato delle rilevazioni permetterà di restituire alle strutture visitate anzitutto una scheda tecnica e un testo descrittivo con tutte le informazioni sull’accessibilità e l’eventuale piano di miglioramento.

Territorialità e problem solving

 Gli operatori presenti sul territorio non nascondono le loro preoccupazioni: «Siamo ancora in una fase di monitoraggio?» si domanda Alessandro Napoli, che auspica misure vincolanti per adeguare il tpl e attrezzare le stazioni, ad oggi prive di ascensori, elevatori con le batterie scariche se presenti, e rampe. Diomede Stabile: «Se in qualche modo, grazie al territorio pianeggiante, i disabili motori se la cavano, non è possibile al momento usufruire autonomamente della cultura, ma anche della vivibilità cittadina per i disabili motori. Non ci sono mappe tattili, o quelle superstiti non si trovano in punti uniformi dei comuni, tipo vicino al Municipio». Molto si sta lavorando nel settore della ristorazione, con l’impegno di 3TService, che ha realizzato menù in braille e organizzato cene al buio per sensibilizzare alla tematica; e Anyway opera nella formazione degli attori che animano il comparto.

Il nodo scorsoio dei trasporti

 È evidente che il vero nodo critico riguarda il sistema trasportistico. L’aereo non è sempre possibile per i grandi gruppi, per esempio. E qualora lo diventasse, bisognerebbe adeguare il servizio navetta dagli aeroporti più vicini fino alle località di interesse. Il muro del pianto è rappresentato dai treni. Le promesse sul Frecciarossa fino a Lecce dovrebbero concretizzarsi a breve, ma resta l’incognita del tratto Termoli-Lesina, vera spada di Damocle sugli audaci che tentano di guadagnare l’ingresso in regione. E poi taxi e noleggio auto: costi contenuti e comodità di tutti, se non proprio piena autonomia, sarebbero dietro l’angolo. Basterebbe farlo capire agli operatori. Altrimenti, come tutti gli intervistati dicono, si continua a guardare alla Danimarca e alla Spagna per l’estero; al Piemonte, all’Emilia Romagna e alla Toscana in Italia.

Proprio per tutti

«Un peccato!», dicono all’unisono Alessandro e Diomede, perché riprogettare la vivibilità delle città e del turismo includendo tutti porterebbe molti benefici. Anzitutto la destagionalizzazione, perché non tutti amano il caos antropico dei mesi caldi, senza contare la possibilità di realizzare eventi imperdibili come il Carnevale di Martignano proposto dal Parco “Palmieri”: carri che proponevano uno sguardo positivo sulla disabilità e sul riuso dell’ausilio, strade messe in sicurezza e postazioni che permettono di far godere la festa anche ai malati di sla. E poi la comodità: una rampa è apprezzata anche dalle madri con i passeggini o dagli anziani. E la tecnologia può far molto, nelle smart cities, per i disabili sensoriali. Un nuovo modo di guardare. Multisensoriale, appunto. 

Biliardino, la svolta di Alessio Spataro

«Sono contento di tornare qui perché ho trovato grande ospitalità e mi sono trovato bene. Non so se una mia prossima storia parlerà della Puglia, ma di sicuro mi piacerà tornarci». Alessio Spataro abbraccia così i suoi stimatori pugliesi, apprestandosi a fare il tour di presentazione del suo Biliardino. Sarà a Taranto il 6 novembre, il 7 a Bari, l’8 a Lecce e il 9 a Foggia.

Biliardino (BAO Publishing) è il primo libro a fumetti che Alessio Spataro ha realizzato da solo. È un libro importante, che segna una svolta nel lavoro dell’autore classe 1977, catanese emigrato a Roma. Prima ci sono
stati sette libri satirici e alcuni albi a fumetti. Alcuni titoli: Zona del silenzio. Una storia di ordinaria violenza italiana (Minimum fax, 2009) sulla morte di Federico Aldrovandi, scritto a quattro mani con Checchino Antonini; Heil Beppe!1! (Altrinformazione, 2014) con Carlo Gubitosa e la trilogia La Ministronza (i primi due albi pubblicati nel 2009 e nel 2011 da Grrrzetic e il terzo nel 2012 da Pick a Book). Alessio ha collaborato dal 1999 con riviste satiriche e altre testate giornalistiche, come Cuore, Left, e Frigidaire, poi Bile, Mamma! e il Male di Vauro e Vincino.

Il libro è l’epopea di Alexandre Campos Ramírez (1919 – 2007), originario di Fisterra, in Galizia. Poeta, scrittore e (non) inventore del popolare gioco di calcio da tavolo, il biliardino. Ramírez ha avuto una storia rocambolesca e oscura, intessuta di persecuzioni sotto il regime franchista e di amicizie importanti come quella con Pablo Neruda e Albert Camus. Ha cambiato molti nomi: per i nemici era Alejàndro Finisterre. Nel 1936 è ferito alla gamba durante il bombardamento di Madrid. Trasferito a Montserrat, in Catalogna, prende spunto dal tennis da tavolo per realizzare un gioco che permetta ai bambini storpi e mutilati dalla guerra di emozionarsi ancora al gioco del calcio.

Alessio Spataro
Alessio Spataro

La vera nascita del biliardino e delle sue innumerevoli varianti è incerta e contesa almeno da quattro nazioni europee: Inghilterra, Francia, Germania e Spagna. Spataro sceglie quest’ultima perché è il luogo «più distante da facili tifoserie nazionaliste». Il libro è avvincente, domina il grottesco, è colorato in rosso e in blu come le divise dei giocatori di legno; i capitoli riprendono diverse situazioni tipiche del gioco; la trama è lineare fino a un certo punto, poi diviene cubista e astratta, lasciando aperto il finale.

Alessio Spataro prova a guidarci nel suo capolavoro:

«Quando è morto de Fisterra (un altro dei nomi con i quali era conosciuto Ramírez – ndr), sono stato attratto dalla sua vita. Che però è piena di lacune e di zone d’ombra. Esiste anche una biografia che non ha mai visto la luce. Sullo sfondo, molti e lunghi esili che fanno della vita del personaggio uno dei tre protagonisti del libro, oltre alla storia del gioco e a quella del Novecento. Il finale, dunque è interpretabile e aperto perché i tre protagonisti non sono esauriti, non finiscono davvero. Abbiamo detto della biografia del personaggio, possiamo dire lo stesso del gioco e di tutte le dinamiche messe in moto dagli eventi del secolo scorso».

La prospettiva storica è alla base della scelta narrativa di Spataro, che solo in apparenza ha abbandonato l’impegno civile assunto con i suoi lavori di satira: «Nel Novecento si sono messe in moto molte cose belle, ma anche e, per me, soprattutto quello che odio e che mi fanno paura. E che oggi vedo ritornare a proporsi: l’impunità ai fascisti e l’indifferenza nei confronti delle stragi politiche, per esempio».

La cattiveria sottile di alcuni ritratti, e in fondo una ricerca del sorriso beffardo con lo stile grottesco sono evidenti nel libro come lo erano in molti lavori precedenti. Ci sono una rabbia minore o modulata e una maggiore volontà di racconto: «Meno rabbia, per forza, perché guerre e persecuzioni non le ho vissute da contemporaneo e le ho dovute rendere con uno studio e una documentazione approfondite.  Provengo da una grossa produzione satirica e il tratto cattivo e il cinismo si ritrovano nelle fattezze esteriori che ho voluto rappresentare. Non ho disegnato, però, curandomi troppo  delle esigenze del lettore, ma cercando di esprimere ciò che ho dentro e che questa storia mi ha stimolato. Certo, mettendomi nei panni del lettore trovo sicuramente divertenti molte cose».

IL BILIARDINO p12
La metafora del biliardino, già usata in precedenza, ha un significato preciso, intuibile nel prologo di questo libro: «C’è già il biliardino come passione in alcuni miei fumetti. In Zona del silenzio ha la funzione di uno stimolo ad andare avanti, a cercare la verità. Questo gioco è un po’ una metafora della mia vita, non sono mai stato molto bravo, vincere resta un mistero. Spesso ho perso anche nei tornei di presentazione del libro. Infatti all’inizio avevo pensato di regalare un libro a chi mi batteva, poi sono sceso solo a uno per presentazione. Poi non sempre!».

Con Biliardino perdiamo un satiro potente, in un’epoca che sembra fatta apposta per la satira, e acquistiamo un narratore attento ai particolari? È un addio all’impegno politico? «Biliardino è una pausa, perché mi sono stufato di rimestare nella spazzatura di partiti razzisti e filonazisti. Ma non è una vera e propria pausa. Nel libro si legge un: “Meno male che Franco c’è!”. Di sicuro oggi la satira viene più facile che in passato, nessuno si sottrae perché abbiamo i politici più ridicoli e vergognosi di sempre.  Non ho visto mai tanta ipocrisia e mai così diffusa».

Se non avesse scritto Heil, Beppe!1! si intravedrebbe un accenno di grillismo nelle sue parole: «Io sono un comunista convinto, non sono un militante o un attivista, anche se aiuto molto i centri sociali. Rifiuto le categorie attuali di sinistra, destra e centro, non in favore del qualunquismo, ma perché credo non siano ben definite. E trovo i tradimenti delle promesse elettorali della sinistra molto peggio di quelle degli avversari politici. Sono più critico e cattivo con i “miei”».

«Al momento – dice – non lavoro su altri grandi progetti, ma su tre o quattro storie che ho da tempo nel cassetto e che sento di fare uscire come Biliardino. Certo, potrebbero non essere importanti come questo, che per me è stato un vero punto di svolta narrativo, ci tengo molto».

Roma sembra essere un’isola felice per la fortuna dei fumettisti, in questo momento.  Cerco di far concludere l’intervista con una cattiveria gratuita o almeno uno sfottò per Zerocalcare e Natangelo, ma resto spiazzato: «Non c’è rivalità tra noi, ma stima reciproca, credo. Di recente Nat ha anche preso le mie parti per gli attacchi che ho ricevuto dal Movimento 5 Stelle e domenica 1 novembre abbiamo fatto una presentazione insieme al Lucca Comics. Tra i tre, però, io sono quello che viene perculato di più, sempre e soprattutto da Nat, perché purtroppo sono goloso di Kinder Cereali come il suo leggendario personaggio, Dibla. Comunque, per quanto possiamo frequentarci e prenderci in giro a vicenda,  non raggiungeremo mai il livello di ispirazione che ci forniscono  le nostre muse esterne, i bersagli della nostra satira».

Costruendo il nuovo taccuino…

Mi sa che qualcuno se n’è accorto. Sì, sto ricostruendo il taccuino a un anno di distanza dall’ultimo restyling.
Il taccuino è nato come raccolta dei miei articoli dal 2005 a oggi e continuerà ad esserlo perché ho un archivio che mi piacerebbe condividere. Ma sarà anche qualcos’altro. Le presentazioni sui contenuti ve le lascerò scoprire più in là. Si accettano scommesse!

Non fate caso alle sconnessioni perché sono momentanee, ma vi invito comunque a segnalarmele. Vi faccio solo una piccola anticipazione sulla mia pagina Facebook, il Taccuino di Andrea Aufieri appunto, che si rinnoverà a sua volta. Sssht, basta così.

La novità più evidente e già operativa, comunque, la potete già vedere: il blog è leggibile per la prima volta anche dai vostri smartphone e tablet.

Le analisi delle visite di WordPress mi dicono che non vi siete dimenticati di me e del blog e quindi vi dico che ci riscriviamo presto!

Andrea

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