Canarini mannari/Is Twitter the better?

Al terzo appuntamento del Twitter Tips & Tricks (TTT03) che ha visto connesse tre città lungo l’intera penisola, Roma, Lecce e Torino (qui una presentazione di Emmanuela Petrarolo, animatrice della versione leccese), il dibattito sui cinguettii più ascoltati del momento ha lanciato spunti molto acuti.

Il titolo dell’incontro L’algebra di Twitter sembra fare da controcanto al famoso testo di Benni La grammatica di Dio e forse non è un caso. Introdotta la riflessione sull’omologazione della tv con le profezie di Pasolini, si è passati alle visioni future anteriori espresse dall’ultimo immenso Calvino, quello delle Lezioni americane.

E allora? Saremo pensosamente leggeri, rapidi, esatti, visibili, multiversali. Non solo: urleremo con forza un poema in un fiato, come Ginsberg, tempeste in barattoli come i Romanzi in tre righe di Fénéon, affronteremo l’ignoto come Fabien nel Volo di notte di Saint-Exupéry. Da Peirce, infine,  il suggerimento di ripensare al codice impiegato perché “La parola o il segno che l’uomo usa è l’uomo stesso”, importante per evitare il paradosso di 1984, in cui Winston lotta per evitare che la Neolingua cancelli la sua umanità.

Ancora una volta le parole del codice sono importanti. Ma non basta: oggi questo è il punto. All’incontro si è asserito sostanzialmente che nuovi mezzi porteranno a un innalzamento della qualità della scrittura, porteranno a nuovi scrittori.

Resto scettico sulla questione, per motivi di narrazione e di creazione: dal Grande Fratello si rischierebbe di tornare al Panopticon di Bentham, vantando con orgoglio una libertà simulata e sorvegliata. Rompere codici per restare nel sistema: dal Gattopardo a Ghost in the shell e Matrix si potrebbero fare innumerevoli citazioni.

Il grande giornalista quasi perfetto David Randall  ha commentato senza tenerezza certi rischi di questo social medium: l’impossibilità di svolgere ragionamenti un po’ più complessi, anzitutto. Che fine faremmo, infatti, se i centoquaranta caratteri di Twitter diventassero le nostre sole caverne, senza neanche la possibilità di inserire uno short link? E l’impossibilità, da parte sua, di avere qualcosa di davvero interessante da dire per almeno quattro volte al dì. Il che dovrebbe forse portare a ripensare ancora una volta a un annoso problema, giornalistico e non solo: quali criteri per la notiziabilità? Randall non scioglie il problema, ma le pressioni del suo editore gli hanno fatto risolvere il problema creando un account per il tema del suo ultimo libro, le prime olimpiadi moderne (@Olympics1896).

Una riflessione un po’ più appassionata. Tempo fa l’agguerrito gruppo di Ottavopiano pubblicò e diffuse un Manifesto per la liberazione attraverso i media tattici. Partendo dal presupposto cui ho accennato sopra, dell’inutilità cioè di ridiscutere il codice, i blogger dimostrano di aver appreso il messaggio di Sciascia, lanciando così anche il celebre siciliano nella rete: è il contesto che deve cambiare.

Senza dimenticare che la parola è l’uomo stesso, che il medium è il messaggio, che non è una discettazione semiologica a disertare, allora dovremo spiegare perché se “le relazioni si moltiplicano esponenzialmente, la solitudine aumenta”? Per gli autori del manifesto “si tratta di sovvertire il contesto in cui avviene la guerra della semiosfera”, si tratta di “riscrivere la lettura” perché la conoscenza acquisita “non tollera il dominio”, bensì “moltiplica gli spazi di libertà” e perché “il potere dell’immaginificazione e della mitopoiesi nel narrowcasting crea tattiche e strategie di sopravvivenza” dei tecnocrati. Tutto sta nel fornire non il mezzo né la cultura del mezzo, quanto di formare il soggetto che si autoformerà e impiegherà se stesso, e poi anche quel mezzo, per rivoluzionare il sistema.

Si tratta di capire quanto ancora un’idea può sconvolgere l’intero contesto, quanti ci potranno credere. E di come sapranno dimostrare di disporre della propria libertà.

3 risposte a "Canarini mannari/Is Twitter the better?"

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  1. Ciao Andrea,

    trovo il tempo di rileggere con calma il tuo post per tornare a riflettere sulla discussione aperta il 4 febbraio scorso, durante #TTT03.

    La scoperta più interessante è il panopticon di Jeremy Bentham, che confesso di non conoscere (http://it.wikipedia.org/wiki/Panopticon): un’immagine inquietante e distopica. In realtà, la discussione su #AlgebraTTT nasce proprio andare oltre l’effetto moda generato da Twitter (“Quando è moda è moda”, http://youtu.be/bAqFt5KrwlQ, avrebbe detto Giorgio Gaber), per impedire che Tiwtter diventi un feticcio tecnologico. E provare così a riportare al centro del discorso chi lo usa, e come.

    Il microblogging sembra avere questo limite: è un formidabile attivatore di conversazioni, ma manca di profondità organizzata. Certo, ci sono i link, ma la discussione dopo qualche tweet si perde e si disarticola. Come intregrare questo straordinario vulcano conversazione con lo spazio denso e argomentativo dei blog? Motori di ricerca, social network e blog: l’integrazione fra queste tre dimensioni sembra essere soltanto ai primi passi.

    Nel frattempo, i rischi sono molteplici. Il primo è l’otturazione del canale: su Twitter ne abbiamo visto un ottimo esempio durante il Festival di Sanremo. Quattro giorni in cui Twitter ha smesso di essere uno strumento di conversazione distribuita e di agenda setting per diventare lo specchio cacofonico della televisione: è un’abdicazione che mi ricorda la caduta della stampa italiana dopo l’approvazione della Legge Mammì, nel 1990.

    La frase che più mi ha colpito, leggendo il Manifesto per la Liberazione Attraverso i Media Tattici (http://www.ottavopiano.it/?p=3145) è questa: “I media tattici mettono in discussione la grammatica culturale dell’ordine dominante.” E’ una riflessione in cui mi ritrovo a pieno. A prescindere dal fatto che si usi Twitter, identi.ca o qualunque altra cosa, l’importante è davvero rimettere al centro della discussione l’uomo, e quindi necessariamente il contesto in cui vive e pensa.

    Se diventassimo feticisti del canale, infatti, dimenticheremmo che ogni discorso nasce necessariamente dal contesto, anche quando le restanti dimensioni sembrano dominanti. Da qui l’obiettivo di usare la riflessione sul codice per ricostruire un contesto condiviso – tattico, potremmo ora dire insieme – nel quale agire più consapevolmente, anche e soprattutto nella vita reale: rompendo la solitudine a cui la televisione, il calcio la (a)politica ci hanno costretti.

    Le prime constatazioni mi sembrano rilevanti: dopo #TTT03 ho percepito un diffuso desiderio di riduzione della ridondanza, di recupero dell’intensità del messaggio. E’ un lavoro difficile, suscettibile di perdersi, ma emozionante. Suppongo che questa discussione nata su Wilfing Architettura con Salvatore D’Agostino e @rem, a partire da un testo di Geoff Manaugh, possa interessarti: http://wilfingarchitettura.blogspot.com/2011/09/0051-mondoblog-il-futuro-geoff-manaugh.html E spero che avremo occasione di confrontarci durante #TTT04, il 31 marzo prossimo.

    A presto.

    H.

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